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Dal mediterraneo all'atlantico. Genesi e morfogenesi di un architetto che costruisce il nostro futuro.
Salvatore D'Agostino Ho chiesto a Edmondo Occhipinti di fornirmi un breve scritto che raccontasse la sua storia per integrare le mie informazioni. Mi ha inviato un racconto che ho deciso di pubblicare integralmente, prima del colloquio, poiché la sua formazione è narrata con la leggerezza della giovane età. Leggerezza che nella nostra gerontocratica Italia sembra essersi persa (mail del 25 marzo 2009):
Edmondo Occhipinti
Ciao Salvatore,
Scusa il ritardo. Sono rientrato adesso a Parigi e riprendo contatto con Outlook.
Io ti proporrei una visita al mio spazio, nonostante non sia aggiornato ormai da quasi un anno, l’inglese sia penoso e non ci sia nulla di molto eloquente; l’indirizzo e’ edmondocchipinti.blogspot.com
Brevemente e con poca forma ti racconto di me.
Sono nato e vissuto a Scicli in una piccola borgata di mare (Donnalucata, 3.000 abitanti) in provincia di Ragusa in Sicilia. Ho ventinove anni da un paio di giorni. Gli ultimi dieci li ho passati lontano da casa mia, lontano “quel tanto che basta per guadagnarsi la nostalgia”. Dopo cinque anni al liceo classico di Scicli, venti iscritti l’anno, e tanta voglia di passare allo scientifico (non per evitare il greco ma per avere un po’ di matematica), mi iscrissi alla facoltà di ingegneria elettronica di Catania. Avrei dovuto seguire i solchi paterni con una specializzazione in pediatria. Mi trovai invece a dormire sui limiti, derivate, integrali, cicli di Carnot, entropie e bilanciamenti chimici. Un fallimento. Provai l’esame di fisica 3 volte: bocciato sempre sulla stessa domanda: il funzionamento del termometro a gas. Fallito. Per la prima volta.
Provai odontoiatria. Bocciato. Arrivai in ritardo all'esame di medicina. Niente camice bianco.
Un’amica mi suggerì architettura. E provai attirato più dalla piacevole compagnia che dalla facoltà di cui finalmente scoprivo l’esistenza. Ammesso al 34esimo posto della facoltà di architettura di Siracusa. Lo scoprì una mattina di settembre al bar di Donnalucata sfogliando il Giornale di Sicilia. Sarei stato un architetto: grandi idee e un portafogli pieno di speranze. Non avrei mai lasciato casa mia. Ero convinto che fosse possibile. E lo rendevo possibile.
Ricordo la prima lezione di disegno l’aggressione del professore Pagnano: lei da grande diventerà un imbianchino, non un architetto; fino ad allora per me la matita era lo strumento per appuntare invisibilmente la metrica dell’odissea e fottere la professoressa di greco. Alla fine dell’anno fu lo stesso Pagnano a regalarmi una sua verità:
«Occhipinti non si accontenti di essere il primo a Siracusa, vada ad essere l’ultimo dove l’architettura la studiano sul serio».
Decisi di partire. Diverse erano le candidate. Decisi Porto. Un posto molto simile a casa mia. Un posto al confine fra l’argento e il bronzo dei mondi. Una delle migliori scuole al mondo. L’unica pubblica. Decisi di studiare: non l’architettura, decisi di studiare la gente che ci crede sul serio. La gente che l’architettura la ama, la vede, la tocca, la piange, la disegna, la discute, la odia.
Decisi di andare alla FAUP. Esame. Ammesso. Dentro, per sempre. Per sei lunghi anni. Al secondo anno sognavo già in portoghese. Mi stancai di Porto al quinto anno. cercai uno stage lontano. Ed arrivai a Parigi. La valigia non era ancora cambiata. Sei mesi li passai nella città delle luci. E furono sei mesi straordinari. Mi cambiarono dentro e fuori. In bene per molti versi, in malissimo per altri. Ritornai a Porto pieno di nuove emozioni, nuove idee, nuovi propositi, nuove propulsioni. Tra innumerevoli contrasti e dubbi riuscì finalmente a trovare un docente disposto a seguire la mia tesi considerata “eretica e inaccettabile” dai molti veterani della scuola di Siza: “processos morphogeneticos em arquitectura” il nome con cui entravo ed uscivo dagli studi dei professori. Ma lui, Fernando Lisboa, nonostante fosse un veterano come loro, fu colpito dall’idea e mi seguì (un grande uomo, Lisboa; uno dei primi portoghesi ad interessarsi al Disegno Assistito al Computer, profondo conoscitore di Pierce e docente di semiotica); giornalmente, rigo dopo rigo, parola per parola, in portoghese prima; in italiano poi. Sei mesi di abnorme, insana, penosa, straordinaria masturbazione emotiva. Isolato da tutto e da tutti. Io solo con i miei terribili attacchi di panico che non mi consentivano più nemmeno di andare a fare la spesa. Uscivo tre volte al giorno dalla mia stanza per andare a prendere un caffè. Abitavo in uno straordinario attico sull'oceano atlantico. Solo. Solissimo. La sera facevo fuoco in terrazza e arrostivo sardine (alla portoghese). Presentai la tesi nel settembre del 2006. Un grande successo alla scuola di Siza. Lisboa mi propose di insegnare durante le sue ore. E cominciai ad insegnare tecnologie digitali alla scuola di Siza. In febbraio (era già il 2007) l’Ecole Nationale Supérieure d’Architecture de Paris m’invitò a guidare un workshop per un paio di settimane. Partii. Non sapevo che quel giorno sarebbe stato il mio ultimo giorno in Portogallo. Non tornai più. La mia stanza è ancora lì. Congelata in un mattino soleggiato di inizio febbraio (ogni tanto trovo il biglietto di ritorno a Porto nella tasca della valigia e piango sorridendo). Dovrò tornare un giorno a riprendere parte del mio passato. E dovrò tornare per regalare un fiore rosso a Fernando Lisboa, un grande uomo che decise di lasciare la vita qualche mese dopo la mia partenza.
Io, al contrario, continuai la mia vita a Parigi. In marzo lanciai il blog edmondocchipinti.blogspot.com; facevo l’assistente all'Ecole speciale de Paris e facevo consulenze per alcuni studi parigini. In luglio vinsi il concorso per insegnare all'Ecole Nationale Superieure d’Architecture de Versailles. Continuai qualche consulenza (l’ultimo post del blog è l’ultima e la più interessante). In novembre (era ancora il 2007) mi sono aggiunto al team di Gehry Technologies a Parigi. Durante l’ultimo anno mi sono spostato a New York e a Dubai, per sette mesi. Sono da poco rientrato a Parigi. Realizzo quotidianamente i miei sogni. Guadagno benissimo, faccio un lavoro straordinario, lavoro con gente incredibilmente talentuosa. Ho vissuto in città bellissime in paesi bellissimi. Parlo correntemente 5 lingue. Ma non sono più tornato. Falso. Direi piuttosto che non sono mai partito. Dieci anni dopo piango ancora quando la gomma si spalma sulla pista 25R di Catania Fontanarossa. Piango sempre quando sono finalmente a casa. Piango sempre quando mi rendo conto che non sono mai partito, ma che il mio cordone ombelicale è lungo migliaia di chilometri. E tornato a casa sono sempre “u picciriddu”, “u figghiu”. Non riesco a stare più di 90 giorni fuori casa.
C’e una cosa che non mi chiedo mai; non mi chiedo mai se fu una buona idea quella di diventare un architetto. L’architettura non l’ho mai sentita e non l’ho mai conosciuta. Il primo anno in Portogallo passeggiavo con questa frasetta di Manlio Sgalambro in testa. In fondo avevo 20 anni:
«Là dove domina l’elemento insulare è impossibile salvarsi [...] Il sentimento insulare è un oscuro impulso verso l’estinzione. L’angoscia dello stare in un’isola come modo di vivere rivela l’impossibilità di sfuggirvi come sentimento primordiale. La volontà di sparire è l’essenza esoterica della Sicilia. Poiché ogni isolano non avrebbe voluto nascere, egli vive come chi non vorrebbe vivere: la storia gli passa accanto con i suoi odiosi rumori ma dietro il tumulto dell’apparenza si cela una quiete profonda. Vanità delle vanità è ogni storia. [...]»
Edmondo Occhipinti di anni... Originario di... migrante a... qual è il tuo mestiere?
Consumo lentamente e con gusto il mio ultimo anno della ventina. Sono partito da dove abito: sono partito da Scicli. La migrazione, umana e animale, ha questa caratteristica: il ritorno al punto primo -per me appunto - l’abitazione. La mia è un’esperienza migratoria crono-geograficamente intensa, eterogenea e non uniforme; una migrazione non del tutto compiuta, in fondo. Ho conosciuto i miei scali, a volte imprevisti, a volte brevissimi; a volte geografici, a volte condizionali; sono in scalo a Parigi (ndr 1 aprile 2009); uno scalo emotivamente importante. Mi muove la passione, e verso la passione muovo io: una migrazione pienamente romantica. Laureato in architettura, mi occupo di morfogenetica, insegno saltuariamente e durante le trentacinque ore settimanale sono project manager al Technologies di Frank Gehry.
Qual è stato lo sviluppo della tua tesi sull'architettura morfogenetica (studio di una forma e della struttura architettonica attraverso gli algoritmi dei sistemi CAD), dopo la laurea?
La tesi di laurea è stato un momento cruciale per il seguito. Il momento che ha richiesto il massimo dello sforzo possibile, per quei tempi, quelle risorse e quella condizione; dopo la laurea mi offrirono l’insegnamento di Computer Aided Design alla scuola di Porto e un invito presso una scuola d’architettura parigina. La tesi fu pubblicata in diverse riviste internazionali in Portogallo e in Francia. Spesi un anno tra insegnamento e ricerca. Affinai le mie competenze tecniche e approfondii alcuni punti sfiorati dalla tesi: storia delle geometrie non euclidee, algoritmi genetici, cibernetica; mi dedicai allo studio delle scienze più in dettaglio. Divulgai sul blog la mia tesi, in italiano, ed altre esperienze. Un anno dopo fui chiamato come consulente morfogenetico per un grande concorso di torri alla Defense di Parigi, potendo applicare parte della mia ricerca sul campo: un bel momento. Qualche mese dopo fui contattato dagli studi di Ghery, dove lavoro da un anno e mezzo. Il quotidiano, da Ghery, mi ha da un lato allontanato dal blog e dalle ricerche precedenti, dall'altro mi ha dato l’opportunità di avanzare molto, tecnicamente, e di approfondire l’aspetto parametrico della forma, che non ero riuscito a sviluppare durante e dopo la tesi.
Un costante riferimento nei tuoi appunti blog sono le teorie matematiche trasposte e reinterpretate attraverso i software.
In un articolo ‘Morphogenetic, Ethic and Pathetic’, descrivi la progettazione ‘Bottom up’ in cui spieghi il processo diagrammatico dinamico dell’architettura: la struttura d’informazioni iniziali forma la base generativa che può portare a risultati inaspettati.
La tecnologia digitale non è mero strumento ma diventa logica ineludibile della progettazione.
L’architettura è generata dal processo diagrammatico.
Mi capita spesso di voler sgonfiare il mito digitale, perché in fondo posso permettermelo; il mio punto varia poco, nel tempo e nello spazio (voglio dire da quando non potevo permettermelo, e alla luce delle mie migrazioni): le tecnologie digitali non sono una logica ineludibile alla progettazione. Traducono una complessità inaccessibile ai più in un linguaggio (motorio, grafico, logico....), direi, popolare. La logica ineludibile alla progettazione è infatti quella complessità.
Francesco di Giorgio Martini, qualche anno fa, fece dei suoi ordini un catalogo algoritmico-parametrico incredibilmente vario e potente (difficile da riprodurre oggi in digitale), e non fu per nulla originale; l'avevano preceduto in tanti (Alberti, Dürer, Vitruvio, ...); di approccio parametrico alla progettazione diventò più facile parlarne quando fu più semplice riprodurne le logiche, i principi, le regole. Lo sviluppo geometrico e matematico, dal 18 secolo in poi, aiutò non la logica parametrico-associativa, quanto piuttosto la spinta al bisogno di poter descrivere l’informazione, il dato, il flusso: a definire antecedenti e posteriori secondo criteri di logica associazione tra gli individui di un sistema. In questo senso direi che la tecnologia ha, da un lato, fortemente esteso un senso, una struttura di pensiero (ci piace definirla algoritmica, parametrica) che esistette, ad un momento non breve della storia, e che non dovette essere poco comune; dall'altro, volgarizzandone l’uso, ha aiutato i meno acuti (come me) ad accedere a strumenti di calcolo estremamente potenti e semplici. Il diagramma in architettura traduce i risultati di questo senso, di questa associazione, di questo procedere topologicamente: traduce la possibilità di strutturare un’informazione, definirne le regole, evitando ogni considerazione morfologica, euclidea. La sperimentazione di un processo di questo tipo, di definizione relazionale delle informazioni ha esercitato un fascino indescrivibile nella pratica dei miei ultimi tempi in università (ancor più che mi trovavo a coltivare in una zona del tutto arida, la scuola di Porto). La possibilità di svuotare l’architettura del suo senso più fastidioso di creazione artistica, visionaria, intellegibile, divenne per me ragion sufficiente per dedicarmi con le dovute esagerazioni all'approfondimento della scienza, della matematica, della logica, ed approdare alla programmazione, onnipotenza semantica [mi spiegai allora perché molti dei programmatori degli anni ottanta alla fine dei novanta si occupassero esclusivamente di semiologia, filosofia del linguaggio, pragmatismo]. Ma già il titolo di quell'articolo (che come al solito decidevo alla fine per poterlo pubblicare) precedeva parte delle disillusioni successive (troppo morfogenetico, troppo etico, troppo patetico). Mi spostai nell'arco di un post al cibernetico [ndr cyber.|N|.ethics], meno patetico e molto più anestetico!
Su cosa stai lavorando in questo momento?
Il nostro colloquio cominciava al ritorno da New York-Dubai. Passando per il quartiere generale parigino, sono arrivato a Ginevra (ndr 8 dicembre 2009), in bilico tra Doha e Londra. I Grandi e le buste paga preferiscono i titoli; io assecondo entrambi per puro opportunismo e sempre con un po’ di sarcasmo sono BIM project manager per uno dei musei più straordinari che i prossimi anni vedranno realizzare. In luglio, l’ateliers Jean Nouvel, ci ha chiamato a gestire la risoluzione topologica, costruttiva, organizzativa e comunicativa del nuovo museo nazionale del Qatar a Doha, un programma da oltre trecento milioni di euro.
Io sono stato chiamato alla gestione di una cellula di ‘Problem solving’ dedicata alla costruzione virtuale del museo in ambiente quadridimensionale (in breve: vent'anni fa l’R&D di Gehry partners sviluppò un software di gestione e controllo parametrico, basato sul Core di CATIA, software ampliamente applicato nell'aerospace (tra cui NASA, Boeing Airbus) e nell’Autmotive (tra cui Ford; Toyota, Audi). Il software ebbe l’obiettivo di rendere esplicite, discrete, commensurabili e costruttibili le visioni di fine secolo di Frank. I risultati dei passati vent'anni di ricerca vengono, attualmente, vendute alle matite più coraggiose. In generale io sono uno di que(gl)i (s)fortunati consulenti che hanno sempre pochissimo tempo per valutare il bene e il male di ogni decisione e risolvere, con compromessi estremamente fascinosi, problemi sempre evidenti). Oggi gestiamo il progetto da Ginevra (per chiari interessi economici dell’architetto) dove abbiamo affiancato al team di designers un corposo team unicamente dedicato alla risoluzione 3D-4D di circa cinquecento problemi geometrici costruttivi, organizzativi.
Io coordino l’intero team, schizzo le soluzioni, coordino la comunicazione tra i diversi team (problem solving, designers, engineers, boq, etc.) comunico intenti, soluzioni ed opportunità al cliente e preparo la gestione computerizzata delle fase di costruzione del museo, dal cantiere virtuale alla previsione e risoluzione di scenari problematici durante la costruzione. Non esistono, oggi, molti progetti simili (per budget o per complessità geometrico-programmatica). Fare quotidianamente parte di questa elitaria avanguardia architettonico-costruttiva ha un valore estremamente elevato nella definizione del mio livello di soddisfazione e mi aiuta ad una valutazione il meno soggettiva possibile della qualità della mia vita: ho l’impressione che difficilmente riuscirei a perdonarmi il fallo di non aver riconosciuto ognuno dei miei piccoli traguardi, per questo nel fondo delle mie notti insonni, mi dico fortunato.
In fondo ho un enorme passione per quello che faccio e difficilmente lo avrei immaginato. Vivo in costante ipertrofia adrenalinica nell'affrontare e nello sfidare, oggi, un complesso di scenari che diverranno comuni e banali, magari, in un futuro lontano per lo meno vent'anni. Dieci anni fa, al primo anno di architettura, il professore di disegno, guardando i miei disegni poco convinti, mi chiese se la mia massima aspirazione fosse stata imbiancare la case dei miei, alzando il capo, gli risposi con un mafioso ‘nzu’.
«La solita, splendida, sconcertante babele delle più accese feste popolari! Non resta dunque che abbandonarsi ancora una volta nel grembo della grande Madre Sicilia, naufragare con un briciolo d’ironia nella irreligiosa isola delle guerre dei santi e delle folli processioni; isola che interpreta la vita ed il cristianesimo a modo tutto suo. Non resta che arrendersi alla terra delle assurde contraddizioni e della sublime poesia ove ogni cosa è possibile, perfino che una statua del Cristo (ndr domenica di Pasqua di Scicli) sia rapita dai comunisti o sia considerata tanto viva e maschia da essere festosamente condotta a benedire casini e puttane.»1
Le tue righe, mi commuovono. Mi interrogo sul senso della tua non domanda, che, pur in maniera improvvisa è inusuale, mi riporta a casa. Lo leggo come un modo solenne e affettuoso per richiamarmi alla tua e alla mia piacevole condanna. Alla terra cui sentiamo di dovere, molte volte, più di quello che realmente le dobbiamo. Sanguiniamo lentamente, come il Cristo di cui riporti, e beviamo vino, convinti “ca’ u vinu da ssagnu’. Probabilmente perdiamo da entrambe le parti; sangue e credibilità. Ho visto dieci pasque da quando sono partito.
Dieci Cristi risorti inchinarsi, sul sudicio dei ‘cristiani’ (che per noi significa uomini) a rendere ‘biniricenza e rispiettu’. Dieci anni di emozioni compresse in poche ore di processione musicante, con epilogo sempre promettente; un pittimu (ndr la conclusione fragorosa e colorata dei fuochi d'artificio) che ti costringe per mezz’ora a sognare con la testa in alto, a voler fuggire per sempre dal vallone, e a voler per sempre ritornarci, come sempre, immagino che la Pasqua abbia assunto un senso comune per molti fra quelli che ci sono per esserci ritornati. Io sono rimasto in Sicilia fino a vent'anni, quando tutti partivano per regalare le loro storie al continente, tutti alla stazione di Giancaldo con la campanella che suona e il prete che non fa in tempo per l’ultimo saluto. Un giorno accompagnai mio fratello in aeroporto e piansi per tutta la strada di ritorno. Ogni mamma che perde un figlio commuove.
A volte, noi siciliani, facciamo un grande errore: quello di pensare che la nostra terra sia più unica delle altre; a volte, però, il resto delle volte, mi pare, abbiamo pienamente ragione.
15 dicembre 2009
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Note:
1 Giancarlo Santi, La strada dei Santi, Bolelli Editore, 2001, p.100