28 gennaio 2009

0026 [SPECULAZIONE] La Vicaria una tenia nelle viscere del "Sacco di Palermo"

di Salvatore D'Agostino 
«La mia città è in mano ai banditi. […] Un sindaco che dovrebbe vergognarsi per il livello infimo della propria competenza e per l'assoluta ignavia rispetto ai problemi della città si preoccupa invece di coprirsi le pudenda affidando a una squadra di esperti l'immagine di Palermo. Dove per immagine si intende il simulacro vuoto di una retorica che dice a grandi lettere «Palermo è cool»1, come recitava una campagna superpagata2 affidata alla Publicis poco prima delle ultime elezioni.» (Franco La Cecla)3

   Palermo è una città potente, da anni regola le vicende della politica italiana. I milioni di voti, gestibili dai gruppi di potere oligarchici dell’isola, decidono la governabilità dell’Italia. 
   Palermo è cruda, come il pesce servito nei ristoranti temporanei che costeggiano il mare. La sua crudezza risiede nell’idea condivisa del rispetto verso i potenti.
   A Palermo non si vive, si sopravvive, solo all’ingenuo che non conosce le tacite regole, Palermo, mostra la sua cinica violenza.

   La crudezza di Palermo si percepisce:
  nei corpi degli attori dei registi Ciprì e Maresco, non uomini ma carte geografiche da delimitare e spartire;
  nelle foto dei poveri cristi morti ammazzati, scattate dopo una corsa in Vespa tra i vicoli, da Letizia Battaglia, un miscuglio di anime e sangue, di uomini e donne, maledetti e benedetti;
   nell’urlo senza speranza in La Ballata delle balate di Vincenzo Pirrotta: «Si aviti i cugghiuni, voi lecchini di Stato dovete dire che la mafia e la politica convivono, sono allo stesso livello»;
  nelle voci e nei gesti disarticolati degli attori del teatro di Emma Dante, gente mutilata della libertà.

   A te viaggiatore che arrivi a Palermo dall’autostrada da est o da ovest, sappi che quel tratto di strada/autostrada/tangenziale è una magnifica promenade architectural, la più bella opera di arte contemporanea a cielo aperto, il suo titolo è: Sacco di Palermo, mi raccomando abbi rispetto. Se in seguito vuoi entrare nelle sue viscere e non sei amante dell’arte, sappi che da qualche mese puoi parlare con la sua tenia, si trova in un garage interrato. Uno spazio sottratto alla real estate palermitana. La Tenia si chiama Vicaria e in quest’avamposto interno alla pancia del 'Sacco': cu arriva ietta vuci.4 
   Forse sarò blasfemo ma in queste viscere ho percepito l’idea civile dell’urbs e dell’urbanità. Come per i primi cristiani pare che quest’idea stia per nascere dalle catacombe della nostra contemporaneità: i palazzi degli speculatori, dove sotto il loro peso di cemento sono stati seppelliti uomini, lavoratori, campagne, giardini, ville liberty, siti archeologici e la civiltà.

   Infine amico mio, per maggiore conoscenza, la religione che si professa alla Vicaria è la libertà. Quindi, stai attento, perché a credere in questa religione si rischia la vita. 

28 gennaio 2009 (ultima modifica 10 agosto 2012)
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Note:
1 Campagna pubblicitaria basata su una frase estrapolata da un articolo apparso (presunto non esiste negli archivi on-line della rivista) sul settimanale Panorama il 18 luglio 2006: «La città più cool d’Italia. È Palermo». Premetto che non credo nei programmi di satira cool Italbiscione perché hanno trasformato l’indignazione in un’attività ricreativa da avanspettacolo ma condivido il vaffanculo di Giulio Golia, nei confronti della risata becera e cuul del Sindaco Diego Cammarata:
2Un milione e ottocento mila euro. 
3Franco La Cecla, Contro l’architettura, Bollati, Torino, 2008, pp. 104-105. 
4”Cu arriva ietta vuci” è uno spazio libero e liberato per un teatro civile a Palermo: da un'idea di Mila Spicola. Direzione artistica Emma Dante. Organizzazione Mila Spicola. Ecco com'è nato riporto delle mail tra Emma Dante e Mila Spicola:

(E' da un pò che ci pensiamo...ed è nata così come ve la scrivo)
"Cara Emma, 
ti chiedo si potrebbe pensare a una pubblica lettura di testi teatrali civili , di riflessione o di condanna, anche ironici, perchè no, in un teatro? Da mesi ci propinano la fandonia che gli intellettuali palermitani, gli artisti, non parlano, non prendono posizione di fronte a quello che accade a palermo. 
Io, di fronte a tutto ciò, che mi indigna, che mi fa ribollire il sangue da mesi, sono disposta, da donna, da palermitana, impegnarmi per dar voce al mio scontento. prendo posizione eccome e, come me,magari anche tu, o altri, non so, magari tu li conosci meglio di me quelli che non gli va giù per null? la piega che sta prendendo l'italia, per non parlare dello sfacelo di palermo.
gente di teatro, scrittori, attori, ... ci vuole coraggio, ma va fatto. e , secondo me, ne troveremo tanti che vogliono farlo...un bacio mila"

"Cara mila,
io posso mettere a disposizione il mio spazio, la vicaria, autogestito, indipendente e svincolato, per incontri spettacoli letture di testi di condanna, di scandalo e di riflessione. possiamo organizzare un incontro al mese o alla settimana in cui, chi vuole ,viene alla vicaria e legge la sua protesta, la sua opinione. fammi sapere se potrebbe funzionare. ti abbraccio Emma"

"Dico che sarebbe semplicemente meraviglioso. cu arriva ietta vuci. un bacio mila."

Primo incontro: 07.12.2008  
Secondo incontro: 11.01.2009  
Terzo incontro: data da fissare  
Hanno partecipato:  
Roberto Alajmo giornalista e scrittore; 
Giulio Cavalli, attore lodigiano autore di Radio mafiopoli; 
Vivian Celestino e Domenico Cogliandro autori di un reading documentale: Secondo Chiara;
Combomastas rappers; 
Pino Maniaci, giornalista e autore di Telejato; 
Roberto Scarpinato, magistrato antimafia, autore del libro Il ritorno del principe; 
Cinzia Sciuto caporedattrice del mensile Micromega. 

N.B.: L'immagine è una scansione tratta dalla mia tessera.

18 gennaio 2009

0005 [FUGA DI CERVELLI] Colloquio Italia ---> Francia con Michele Moschini

di Salvatore D'Agostino
Fuga di cervelli è una TAG non una definizione. La TAG è contenitore di diversi 'punti di vista'.

L'università, il sud, i concorsi, il lavoro flessibile, Parigi e l'architetto come un musicista.
Montmartre, Parigi



Salvatore D'Agostino Michele Moschini di anni... abitante a... migrante a... qual è il tuo mestiere?

Michele Moschini
anni 34;
direi abitante a Parigi (da giugno 2007) nato e cresciuto a Bari;
mestiere: architetto (che dal mio punto di vista - e non credo di essere originale in questo - significa dire che faccio un po' di tutto).

Alvaro Siza:
«Appena laureato con altri colleghi ho fatto un progetto per residenze sociali, e soddisfatti del nostro lavoro ci siamo decisi di promuoverlo. Siamo partiti in auto dal Portogallo ed abbiamo percorso l'Italia partendo dall'università di Torino fino a Palermo. Arrivati a Milano all'interno dell'università mi sono soffermato al di fuori di un'aula ed ho visto centinaia di studenti ammassati, ho chiesto che cosa c'era in quel momento, mi hanno risposto che quello era l'esame di progettazione dell'architettura. Sono rimasto sorpreso e mi sono chiesto come è possibile progettare in queste condizioni. La situazione nel nostro paese benché economicamente svantaggiato era ed è diversa nel rapporto docenti studenti.»1 
Io vengo da una realtà un po' diversa. il Politecnico di Bari, o meglio, la facoltà di architettura di Bari, ha delle carenze enormi. per anni siamo stati senza sede, ed io ho vissuto l'esperienza dei laboratori di progettazione in cui bisognava disegnare col cappotto e i guanti. Però è una facoltà piccola, nata con uno spirito da scuola. generalmente, nei corsi di progettazione, il numero di studenti non era spropositato, si riusciva ad avere un minimo di contatto col professore o con l'assistente di turno. Credo di dover molto ad alcuni insegnanti, (una minoranza) che mi hanno dato mezzi di comprensione e metodo per poter poi camminare con le mie gambe. Ahimè, il grosso limite era un'impostazione, a dirla in modo gentile, retrò, con delle buone premesse ma delle applicazioni miopi. Credo che, in generale, si debba portare avanti un doppio corso di studi: uno ufficiale, all'università, dal quale prendere tutto ciò che è possibile, ma in maniera critica, ed uno parallelo, personale, in cui si comincia a sviluppare il proprio pensiero e si traccia la propria strada.

Il secondo percorso è spesso schiacciato dal primo, soprattutto per il poco tempo libero che si ha da studenti di architettura. Devo anche dire, però, che trovo spesso più preparati studenti che vengono da corsi di massa come quelli descritti da Siza (quali erano anche gli studenti più anziani di me a Bari) rispetto a quelli che vengono da corsi più a misura d'uomo, forse proprio perché il limitato contatto con i docenti porta spesso a dover riflettere in prima persona o a creare dibattito fra gruppi di studenti, mentre ho visto molti studenti più giovani di me accettare troppo supinamente le linee guida del progetto dettate nei piccoli corsi di progettazione.

La tua storia sembrerebbe una classica migrazione, dopo svariati tentativi nel luogo di origine (Puglia), decidi di "mollare tutto" e raggiungere una piccola colonia di amici laureati al Politecnico di Bari a Parigi. Qui viene riconosciuta la valenza del tuo lavoro e vieni assunto da uno studio di architettura con committenze internazionali. Qual è il tuo ruolo in Francia?

Malgrado io sia arrivato in Francia dopo aver fatto esperienze a scala piuttosto piccola (una piccola ristrutturazione, qualche concorso, progettazione di interni e di mobili e, per tre mesi, stands per la regione Puglia), mi sono trovato subito a gestire progetti di edifici piuttosto grandi. Il lavoro funziona all'incirca così: ad un architetto viene affidato un edificio in toto, dalla progettazione alla gestione dei rapporti con economisti, imprese, ingegneri e clienti (all'occorrenza anche il coordinamento di altri architetti, disegnatori e grafici di supporto). Uno chef supervisiona il lavoro e funge da rete di salvataggio. Quando ho cominciato, il mio chef era molto presente. Man mano che il mio francese progrediva e che migliorava anche la mia conoscenza dei meccanismi dei lavori pubblici in Francia e delle normative, il suo intervento diventava sempre meno frequente. Allo stato attuale gli rendo conto del mio operato soltanto una volta alla settimana (anche perché lui è quasi sempre via per seguire riunioni e cantieri nel sud della Francia).

A parte un periodo in cui ho fatto piccole cose con una equipe di lavoro piuttosto ampia che si occupava di una torre a Doha, ho lavorato per un mese ad un edificio di alloggi per studenti all'interno di un campus in Qatar (poi il progetto fu sospeso), e in seguito mi sono occupato di una scuola per ingegneri "Medicaux" in tutte le fasi successive al progetto di massima (il cantiere comincerà fra meno di un mese). Attualmente lavoro anche ad un piccolo spazio espositivo/atelier per il patron Roger Taillibert, che è anche un pittore.

La domanda è formulata nel fumetto disegnato da Alessandro Tota per il settimanale Intenazionale,2 dove l'autore racconta la sua tribolata vicenda per cercare una casa in affitto a Parigi.







Il fumetto disegnato dal mio due volte conterraneo, visto che è, come me, un barese trapiantato a Parigi, rappresenta perfettamente la realtà delle cose. Io stesso ho potuto sperimentare sulla mia pelle quello che lui racconta, dalle code alle visite degli appartamenti, alle mille garanzie richieste, sino al dolore nel vedere tanta gente per strada, senza casa e senza più dignità. Queste ultime, purtroppo, sono scene quotidiane alle quali non riuscirò mai ad abituarmi. Ritornando alle difficoltà legate alla ricerca di un alloggio, aggiungerei che spesso, come nel mio caso, ci si trova ad accettare condizioni che sarebbero improponibili per i francesi: per due mesi ho diviso un appartamento con un ragazzo franco-americano, senza diventare cointestatario sul contratto di locazione (e, di conseguenza, senza avere accesso ai rimborsi statali sugli affitti). In poche parole, il mio coinquilino abitava gratuitamente con me: solo dopo due mesi ho realizzato che il rimborso (la CAF) che lui percepiva, sommato all'affitto che io gli versavo, era pari al totale del costo dell'appartamento. Ora, in realtà, non mi trovo comunque in una situazione regolare. Il mio attuale padrone di casa non mi ha mai fatto un contratto, cioè percepisce l'affitto "au noir". Queste sono cose che si fanno solo con gli stranieri... non parliamo poi dei privati e delle agenzie che richiedono spesso garanzie che violano le leggi sulla privacy: più di una volta mi è stato chiesto l'estratto conto bancario, perché prerequisito per essere presi in considerazione era avere in banca almeno l'equivalente di un anno di affitto! Per completare il quadro, vorrei dire anche che, in molti casi, ho visto appartamenti, spesso monolocali sotto i 9 m² di superficie calpestabile, in stato pessimo, ma per i quali venivano richiesti affitti altissimi. Se per un italiano, ovvero per un cittadino europeo, spesso con un buon lavoro e uno stipendio dignitoso, è così complicato trovare un alloggio, in che condizioni vivranno gli extracomunitari, quelli che non hanno un lavoro fisso o buoni guadagni?

Questa domanda prende spunto dal grido rauco e adirato del cantante Silvio Sada di 'Addosso agli scalini' nella canzone 'Italia' ...ma perché non lo facciamo andare come diciamo noi questa Italia?

La domanda che poni avrebbe bisogno di una risposta molto lunga ed articolata, ma cercherò di essere sintetico. Credo che il problema fondamentale in Italia sia legato ad una certa mentalità, per così dire 'flessibile'. Flessibile sui diritti dei lavoratori, sull'onestà dei politici, sulle regole in generale. Entrare all'interno di meccanismi così radicati per poterli cambiare è talmente complicato che prevale in me una visione disfattista. Vista la mia attuale condizione, insisto nel paragonare la situazione italiana a quella francese, con particolare riferimento al mondo del lavoro. Condizioni di lavoro eternamente precarie, quali le troviamo in Italia, specialmente in mancanza degli ammortizzatori sociali adeguati, sono impensabili in Francia. Qui i lavoratori difendono i loro diritti con i denti. Pensi che la porcata dei contratti a progetto (per citare uno dei tanti modi di sfruttare i lavoratori che la legge italiana fornisce) sarebbe stata accettata supinamente qui? In Italia, invece, continuiamo un gioco al ribasso, accettando di lavorare in condizioni sempre peggiori solo perché "se non accetto io, ci sarà qualcun altro che accetterà al mio posto".

Un'esperienza fatta in Italia (università/lavoro) che ti è servita in Francia?

La formazione che ho ricevuto al Politecnico di Bari è piuttosto rigida: i principi ispiratori erano validi, ma venivano poi elevati a leggi matematiche immutabili, non aperte ad altre visioni progettuali. Per questo credo che due esperienze post-universitarie siano state particolarmente illuminanti: il concorso per Livingbox (fatto con un ex compagno di studi trasferitosi a Milano) ed il concorso per Southbank, in Sudafrica. Nel primo caso, il mio amico, già svincolatosi dagli schemi progettuali baresi, mi ha aperto gli occhi sulla vita degli edifici, demolendo la mia tendenza a pianificare cose che, nella realtà, avrebbero perso di senso con l'ingresso dell'utenza nell'edificio. Nel secondo caso, sotto la guida di un architetto sudafricano, esule in Italia da più di vent'anni, mi è stata aperta la strada ad un approccio progettuale forse scontato per gli studenti di altre facoltà italiane, ma per me del tutto nuovo. Queste esperienze mi hanno anche facilitato l'accettazione del dover lavorare in uno studio con una marchio di fabbrica ben preciso, cioè quello di Roger Taillibert.
La mia visione dell'architetto è diventata prossima a quello del musicista che, formatosi su un genere musicale, il suo prediletto, non disdegna di suonare altri generi.

18 gennaio 2009
Intersezioni ---> Fuga di cervelli
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Note:
1 Intervista di Paolo Posarelli ad Alvaro Siza, apparsa sulla presS/Tletter n.34-2008.*
2 Alessandro Tota, Cartolina da Parigi, Internazionale, n. 772, 28 novembre/4 dicembre 2008.*

16 gennaio 2009

0020 [MONDOBLOG] Cerco risposte per un'intervista mancata

di Salvatore D'Agostino

Qualche tempo fa avevo concordato un’intervista con il blog Architettura di pietra e, in seguito alla loro richiesta, avevo cambiato la mia classica metodologia, a domanda segue risposta, nella più fredda lista di domande. Mi è stato detto che dovevo pazientare, ma dopo circa sette mesi e molte mail di sollecito senza risposta, mi sono deciso a pubblicare la mancata intervista proponendovi un piccolo gioco fate un copia/incolla e rispondete al loro posto, ovviamente saltate la prima domanda, per il resto siate liberi.
  1. Il nome del blog "Architettura di pietra" è già un manifesto. Quali sono i suoi punti di forza?
  2. A che cosa serve un blog per un architetto?
  3. Alberto Savinio nel suo libro "Dico a te, Clio" descrive il cemento come un materiale volgare e privo d'identità. Grazie a Carlo Scarpa e Giancarlo De Carlo abbiamo scoperto che il cemento può affiancarsi alla pietra. E' possibile ripensare le nostre città di pietra?
  4. Crede che l'architettura possa essere catalogata: di pietra, ecologica, high tech, strutturalista, cyber e così via?
  5. Rimanendo sul tema della pietra, è possibile progettare in Italia prendendo spunto dagli architetti Antón García-Abril, Wespi & De Meroun o Peter Zumthor?
  6. Parafrasando l'artista Pinuccio Sciola 'Il tempo si misura con la pietra' non crede che 'L'architettura italiana non si misura più con la pietra'?
  7. Non crede che l'eccessiva attenzione sul nostro patrimonio 'storico' abbia causato l'indifferenza verso parti di città 'non storiche', causando il degrado attuale?
  8. Lo scrittore Bruce Sterling pensa che ormai siamo maturi per il 'nuovo materialismo': "Basta con le noiose Macchine per Vivere, universali, ripetitive, serializzate, prodotte a grande scala". Il futuro è configurabile, personalizzabile, modificabile, adattabile, interattivo, polivalente, a basso prezzo. Cosa ne pensa?
  9. Per Stefano Boeri, Gilles Clément e altri l'architettura non si può sostituire alla politica, ma solo grazie ad un'oculata politica possiamo ottenere della buona architettura. E' possibile in Italia innescare dinamiche virtuose tra politica e architettura?
  10. Perché l'architetto italiano è rimasto a guardare le pietre, lasciando ai 'palazzinari' la costruzione della nuova Italia?
  11. Quali sono gli autori contemporanei da studiare?
  12. Qual è la sua speranza?
16 gennaio 2009
Intersezioni ---> MONDOBLOG
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Note:
inviate la vostra intervista o attraverso i commenti o sul mio indirizzo mail salvatoredagostino7 (at) gmail

12 gennaio 2009

0025 [SPECULAZIONE] L'urbanità disegnata da GIPI

di Salvatore D'Agostino 

   GIPI è il nome d'arte di Gian Alfonso Pacinotti nato a Pisa nel 1963 vive disegnando, questo è l'aspetto che ha in comune con l'architetto. La differenza più rilevante è che Gipi osserva senza giudicare, l'architetto osserva ripulendo con le proprie visioni la realtà. In questo colloquio troverete tra le righe l'urbanità cioè il rapporto tra la città e la gente con l'aggiunta di un pizzico di artigianato del disegno.

   Salvatore D'Agostino Un fumettista si nutre di visioni, l'occhio è lo strumento fondamentale per trasporre in disegno il mondo immaginato. Qual è la tua visione della città? 

   GIPI Caos. Io non riesco a fissare gli occhi sulle cose. O meglio, ci riesco con enormi difficoltà. Quindi la mia visione della città è assolutamente frammentata. Interpreto l'idea della città come confusione di forme, mancanza di ordine, caos appunto. E quando disegno replico questa sensazione, accosto linee quasi a casaccio, poi le sminuzzo, aggiungo dettagli che dettagli non sono, ma solo altre linee nervose. La cosa interessante per me è che questo tipo di lavoro, alla fine mi porta ad una rappresentazione che è per me "realistica", anche se guardando meglio, si tratta solo della riproduzione confusa, di una visione confusa.
   Il contrario di caos è ordine. Politicamente l'ordine rievoca i regimi totalitari. Seguendo questa logica vivere il caos significa vivere 'democraticamente' liberi?

   In un certo senso, nei nostri tempi, nel nostro paese, il concetto può anche essere invertito. Possiamo provare a farlo. Il caos di cui parlo nelle città è spesso figlio proprio del potere, inteso come potere e prepotenza economica. Il cosiddetto "sacco di Roma"1 ad esempio, esprime caos nelle forme ma è un prodotto del potere schiacciante e ottuso. Quindi è un caos generato dal potere, dalla voglia di potere e di ricchezza. Per questo nei miei disegni, per quanto l'occhio vada in giro e, in un certo senso, goda di ciò, c'è sempre un aspetto più sinistro. A volte opprimente.

   Poi, naturalmente, c'è il caos dello spirito, quello che genera risposte e comportamenti imprevedibili. In questo caso posso azzardare un avvicinamento con il concetto di libertà.

   Per il designer Milton Glaser:
«Il disegno è una forma di meditazione, ti costringe a fare attenzione, che è la ragione ultima del fare arte».2
   Cos'è il disegno per te?

   Una pratica che m'induce a far prevalere la parte migliore di me. L'impegno e l'assiduità, la scelta di trascorrere il proprio tempo, appunto, in concentrazione, mi sembrano una cosa buona se contrapposte alla vacuità. È anche un processo che induce riflessioni e, quando sono incredibilmente fortunato, trasformazioni. Spesso lavoro su temi che sono mie domande interiori. Cose che non comprendo. La pratica del disegno a volte può fare miracoli e avvicinare al senso delle cose e degli eventi accaduti. 

   In una tua vecchia intervista fiume sul sito 'Lo spazio bianco' ricordavi la tua infanzia e il tuo rapporto con gli insegnanti:
«Ci pensavo in questi giorni: i miei professori di disegno dal vero e di "ornato" non li ho mai visti disegnare. Ricordo che il professore di figura fumava e leggeva il giornale. Non li ho mai visti con una matita in mano».
   L'architetto Stefano Mirti relativamente al ruolo dell'insegnante o direttore di scuola:
«crede fermamente che chi sa fa e chi non sa insegna (con il corollario che quelli che sanno fare e insegnare sono i peggiori di tutti)». 
   Esistono gli insegnanti? 

   Si. Credo che esistano. Ho avuto buoni insegnati (magari inconsapevoli di esserlo) fuori dalle scuole. Per me "il maestro" è una persona che vive seguendo con onestà la propria passione. E questo trasmette, al di là delle parole, una tensione di vita. Uno dei miei maestri è un pittore pisano, si chiama Giuseppe Bartolini. È stato un maestro senza mai insegnarmi una tecnica. Solo vivendo la pittura, giorno per giorno, con la massima onestà possibile. Un altro è stato Riccardo Mannelli, un amico, pure, e anche da lui ho appreso la devozione e la passione, sopratutto. Spesso gli insegnanti, intesi nel senso tradizionale (statale) del termine, sono stanchi, disillusi, tristi. È un mestiere usurante. Forse andrebbe fatto solo per brevi periodi.

   Nel tuo video "Tokio Hotel Live" della Santa Maria Video ovvero la TV che non vuole trasmettere niente, affermi:
«Fare schifo, in una società che obbliga all'eccellenza, è un preciso dovere morale».
   È ancora valido questo monito?
   Il titolo vero è proprio "Fare schifo". Quel Tokio etc. è stato messo da un utente di Youtube che si è preso la briga di caricare il video. "Fare schifo" è chiaramente un'iperbole. Altrimenti contraddirei tutte le cose dette finora. Ma ha un suo senso, se rivediamo i concetti di "fatto bene" e di "qualità". E comunque, in una società che spinge alla bellezza esteriore, al successo, alla ricchezza, senza considerare minimamente la pratica attuata per raggiungere questi obiettivi, fare schifo è, forse, davvero, un dovere morale.

   C'è chi sostiene che in Italia non esiste coscienza critica. Tu invece rappresenti l'italiano come un opinionista, ovvero il tuttologo con un lessico striminzito, ma chi è in realtà l'opinionista?

   L'opinionista sono io se avessi scelto di fare l'opinionista. Insomma, se mi fossi messo nella condizione di fare un mestiere che non so fare. È un ignorante, quale io sono, in parte. È un ottuso, che parla per frasi fatte e luoghi comuni. È un opinionista, distante dal mondo e, se si può usare questo parolone, da ogni desiderio di ricerca di verità. Verità era il parolone.

   L'architettura vive di spazio, che cos'è lo spazio per un disegnatore? 

   Per me il termine spazio equivale a ritmo. Ma questo dipende dal fatto che principalmente, con le immagini, racconto delle storie. Parlo adesso di spazio nella pagina. Che diviene spazio nel tempo di lettura. Non saprei dare una differente risposta, scollegata dal mio mestiere. Ho una percezione dell'ambiente circostante, delle persone e delle cose talmente frammentato e nevrotico che non riesco un gran che a percepire lo spazio in senso fisico. Questo, però mi risulta molto difficile da spiegare. È come se avessi una capacità di messa a fuoco destinata solo a un susseguirsi di particolari. Lo spazio, come aria, insieme, mi sfugge. 

   Dove abitano i tuoi personaggi? 

   Spesso hanno abitato in case popolari. Qualche volta in ville di genitori che non sentono proprie. Posso dire che vivono quasi sempre in spazi che gli sono alieni. Non c'è mai un sentimento di comunione tra i miei personaggi e l'ambiente in cui si muovono. Se c'è, ed è raro, avviene nella natura, negli orizzonti. Ma anche qui, spesso utilizzo campi con grandi cieli che non sono solo ariosi, ma divengono opprimenti. Per me torna sempre la questione della minutezza dell'essere umano. La sensazione di essere formiche, piccole e impotenti, tra i grandi palazzi di una città o sotto le nuvole e la pioggia. È quindi sempre un abitare con sottile disagio. 

12 gennaio 2009 (ultima modifica 19 agosto 2012)

Intersezioni --->SPECULAZIONE
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Note: 
1 Alberto Statera, Il nuovo sacco di Roma, La Repubblica, 5 novembre 2008.
2 Domenico Rosa, Milton Glaser. Disegno, dunque sono, Il sole 24 ore, 22 novembre 2008.

N.B.: Immagini:
  • la prima immagine è stata tratta dal calendario 2009 disegnato da GIPI per la rivista Internazionale;
  • la seconda è un frame tratto dal video non ufficiale apparso sul sito You Tube con il titolo Tokyo Hotel Live;
  • la terza è un frame tratto dal video opinionista n. 2 visibile sul blog 'Opinionismo' ideato dallo stesso GIPI.