Facebook Header

Visualizzazione post con etichetta Mondoblog. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Mondoblog. Mostra tutti i post

10 luglio 2024

0062 [MONDOBLOG] Il web log tra diario e zilbadone

di Salvatore D'Agostino
    Fin dall‘inizio del Web, il tema della scrittura è stato predominate: il Web nasce come pagina bianca digitale da riempire di contenuti e molti scriventi pionieri della rete immaginarono da subito la pagina digitale come un diario. Inizialmente fu il quindicenne Justin Hall, poi furono migliaia, poi ancora milioni gli scriventi che iniziarono a redigere i propri diari online interagendo tra di loro, popolando sempre di più il web, abitandolo con le proprie quotidiane riflessioni. I diaristi web hanno abitato e abitano tutte le diverse piattaforme che internet ha generato: web log, forum, My Space, Second life, Facebook, Twitter-X, e tante altre. Tra i diaristi convergono anche chi della scrittura ne fa un mestiere e usa il Web log per esercitare la propria capacità narrativa. Se i primi possiamo chiamarli diaristi; per i secondi, scrittori consapevoli del canone linguistico, il termine diarista potrebbe essere inopportuno. In questo caso, per comodità e disturbando Leopardi, il Web log dello scrittore lo chiameremo Zibaldone:
«Quaderno di appunti e abbozzi annotati senz‘ordine: l‘evoluzione del pensiero del Leopardi si può ricostruire dagli appunti del suo "Zibaldone".» (DEVOTO OLI)
    Tra gli zibaldoni Web, per citare esempi italiani, si ricordano quello dello scrittore Giuseppe Genna (con il suo storico blog omonimo, quello nuovo aperto in questi giorni letteratura e pensiero e la sua pagina facebook), Tiziano Scarpa (sul blog collettivo il primo amore), dell‘architetto scrittore Gianni Biondillo (sul blog collettivo nazione Indiana), Wu Ming (scrittore immaginario nato e creato da un collettivo di autori, attivi in diversi blog tra cui giap) o Michela Murgia (il primo blog Il Mio Sinis ormai non più visibile). Le loro scritture online, in parte, sono state editate da diversi editori.1
«Sono un blogger – scrive lo scrittore di fantascienza Bruce Sterling - e un entusiasta degli spezzoni di narrativa associati casualmente, ma mi è sempre stato chiaro che il contenuto di un blog ha una vita corta. È come recitare una stand-up comedy2

0062 [MONDOBLOG] The web log between diary and Zibaldone.

by Salvatore D'Agostino

    From the beginning of the Web, the theme of writing has been predominant: the Web was born as a digital blank page to be filled with content, and many pioneering network writers immediately envisioned the digital page as a diary. Initially, it was fifteen-year-old Justin Hall, then thousands, and later millions of writers began to create their own online diaries, interacting with each other, increasingly populating the web, inhabiting it with their daily reflections. Web diarists have inhabited and continue to inhabit all the different platforms that the internet has generated: web logs, forums, MySpace, Second Life, Facebook, Twitter-X, and many others. Among the diarists are also those who make a profession out of writing and use the Web log to exercise their narrative skills. If the first can be called diarists; for the second, writers aware of the linguistic canon, the term diarist might be inappropriate. In this case, for convenience and disturbing Leopardi, we will call the writer's Web log a Zibaldone:

«A notebook of notes and sketches recorded without order: the evolution of Leopardi's thought can be reconstructed from the notes of his 'Zibaldone'.» (DEVOTO OLI)

    Among the Web zibaldones, to cite Italian examples, we recall that of the writer Giuseppe Genna (with his historic eponymous blog, the new one opened these days letterutura e pensiero and his Facebook page), Tiziano Scarpa (on the collective blog il primo amore), the architect-writer Gianni Biondillo (on the collective blog nazione Indiana), Wu Ming (an imaginary writer born and created by a collective of authors, active on several blogs including giap) or Michela Murgia (the first blog Il Mio Sinis no longer visible). Their online writings, in part, have been edited by various publishers.1

«I am a blogger,” writes science fiction writer Bruce Sterling, “and a fan of snippets of narrative associated randomly, but it has always been clear to me that the content of a blog has a short life. It's like performing stand-up comedy2

14 maggio 2013

Parole




“Words,” wrote Gabriele Mastrigli, “can only be an immense text/territory… that refuses to ‘put things in their places.’”



Parole (“words”) remains an exception to the prevailing norm in web-based architecture writing that insists on writing for the digital page as if it were a sheet of paper. I recently had a discussion with two of the site’s creators, Andrea Balestrero and Fabrizio Gallanti.


8 maggio 2013

0061 [MONDOBLOG] Parole

di Salvatore D'Agostino

english text

«Parole - scriveva Gabriele Mastrigli - può soltanto essere un immenso testo/territorio che rinuncia a “mettere le cose al loro posto”.»1 
Parole resta ancora un’eccezione nel panorama del web di architettura che insiste a scrivere sulla pagina digitale come se fosse un foglio di carta. Ne ho parlato con Andrea Balestrero e Fabrizio Gallanti tra gli autori di Parole.




29 aprile 2013

Words and bytes



I’ve been going back over some of my observations about the relationship between writing about architecture and writing online. Here in Italy, it’s evident that we’ve failed to appreciate the changes that the digital format entails for the act of writing. Writing online, in fact, implies a new range of communicative tools: links, images, audio, video, maps. Links immediately enlarge the field of discourse by means of images, audio, video and maps can supplement the experience of reading with that of seeing and hearing and tracing ever more detailed geographic perambulations. In a practical sense, then, websites do not consist of words alone.

One interesting example of digital storytelling is the work of Orsola Puecher (in Italian), whose posts for the website Nazione Indiana make use of digital grammar’s extensive palette of expressive forms. “Others write; Orsola creates,” posted a commentator named NC, echoing a comment by either Sparzani or Biondillo.

The webpage, as Puecher has it, pushes writing towards a creative leap in which it becomes a ‘blob’ of words, images, video, sounds, map and territory.

Three architecture bloggers who have taken this creative leap are Lebbeus Woods, Ai Weiwei and Léopold Lambert.



23 aprile 2013

0060 [MONDOBLOG] Parole di bit

di Salvatore D’Agostino
Riprendendo gli appunti mondoblog, sul rapporto tra scrittura web e architettura, non è stato difficile constatare come in questi anni in Italia non si è compreso il cambiamento della scrittura che offre la pagina digitale. Scrivere per una pagina web significa avere la consapevolezza di trovare sul nostro tavolo di lavoro digitale una nuova gamma di strumenti comunicativi: link, immagini, audio, video, mappe. I link permettono che le citazioni si trasformino in un dito che invita subito ad approfondire, mentre l’utilizzo d’immagini, audio, video e mappe mutano le parole in osservazione, ascolto e percorsi geografici sempre più dettagliati. In pratica, un foglio web non si nutre di sole parole.


Un esempio interessante di narrazione digitale è il lavoro di Orsola Puecher che, su Nazione Indiana, sperimenta l’ampia tavolozza espressiva della grammatica digitale, «mentre gli altri scrivono, Orsola crea», osserva il commentatore NC riprendendo un commento di Sparzani o Biondillo.




La pagina web - constata Puecher - ci spinge verso un salto creativo della scrittura che si fa blob di parole, immagini, video, suoni, mappe-territorio.


28 gennaio 2013

0059 [MONDOBLOG] Il blog delle summer school dello IUAV | W.A.VE. Workshop Architettura Venezia

di Salvatore D'Agostino

Questa intervista a Massimiliano Ciammaichella,1 ad esclusione dell’ultima domanda, è stata fatta tra il 19 luglio 2011 e il 6 marzo 2012. Per molti aspetti è anacronistica poiché in un anno molte cose sono cambiate, come il preside di facoltà Giancarlo Carnevale nonché l’estetica, gli accessi e i post del blog W.A.VE (la voce delle summer school dello IUAV). Anche se ‘fuori tempo’, ci offre una riflessione sui cambiamenti in atto nelle nostre università.

Va ricordato che, i workshop estivi IUAV, per la maggior parte sono affidati a teorici e architetti provenienti da diverse realtà nazionali e internazionali, ad esempio in questi anni si sono avvicendati Yona Friedman, Ricardo Porro, Joseph Rykwert, Paolo Soleri, Elias Zenghelis, Archizoom (Andrea Branzi, Gilberto Corretti, Paolo Deganello), João LuísCarrilho da Graça, Carlos Ferrater, Manuel Gausa, Satoshi Okada, Carme Pinós, Eduardo Souto de Moura, Benedetta Tagliabue, Guilermo Vasques Consuegra.



29 novembre 2012

0057 [MONDOBLOG] Ai Weiwei il blog come un disegno

di Salvatore D'Agostino
Ai Weiwei quando inizia a scrivere il suo blog, offerto dalla società di pubblicità online per la Cina e le comunità globali cinesi SINA* nel gennaio del 2006, non sapeva niente della cultura blogger, gli è bastato poco tempo però per capire che non serviva interrogarsi sul buon uso del mezzo o sulla sua struttura, ma bastava rilanciare nei post tutta la sua energia e farsi trascinare dalla dinamica della nuova modalità di comunicazione. Grazie ai commenti e al passaparola dei link condivisi, il suo dialogo in rete è diventato un punto di riferimento per artisti, architetti, urbanisti, attivisti e soprattutto i cittadini cinesi.
Superato il primo periodo con post tra l’autoreferenziale e il mondo dell’arte, Ai Weiwei iniziò a raccontare ciò che molta stampa di regime non riferiva. Una narrazione compulsiva e quotidiana di ciò che vedeva con i propri occhi fatta sia d’immagini, attraverso la pubblicazione di centinaia di migliaia di foto, sia di parole. Il blog, da subito monitorato dal potente sistema di firewall cinese, fu indicato come politicamente scomodo ma Ai Weiwei, anche se ammonito dalla polizia, investì il novanta per cento delle sue energie, come dichiarato in un’intervista, su quelle pagine web diventando una voce di dissenso contro il potere cinese affiancandosi ai tanti blog simili esistenti in Cina.1 Il ventotto maggio 2009 dopo la pubblicazione della lista di 5.826 nomi di bambini morti nel terremoto del Sichuan del dodici maggio 2009 a causa delle scuole, come li definisce ‘fatte di tofu’ cioè costruite con materiali scadenti, il suo blog fu oscurato e incarcerato per ottantuno giorni. Il terremoto fu una tragedia immensa che i media cinesi nascosero per non disturbare l’imminente festa dell’inaugurazione dei giochi olimpici dell’otto agosto 2009.2
Una delle dinamiche più interessanti del suo quotidiano blogging è il personale lento cambiamento della pratica del disegno che da gesto manuale su carta è passato al blog come disegno, per capire meglio questo processo ho pensato di estrapolare dal libro di Hans Ulrich Obrist ‘Ai Weiwei Speaks’ edito in Italia dal Saggiatore3 le sue esperienze da blogger, eccole:

20 febbraio 2012

0056 [MONDOBLOG] La posizione zeviana secondo Sandro Lazier

di Salvatore D'Agostino

Nel post precedente* anticipando questo colloquio avevo scrittoNon so se Bruno Zevi, morto il nove gennaio del 2000, un po' prima dell'avvento della penetrazione capillare del Web, oggi avrebbe gestito un Web Log, ma penso che si sarebbe inventato una strategia comunicativa per la rete. 

Francesco Cirillo nei commenti a tal proposito ha ricordato un aneddoto:
«Se vuoi una mia risposta al tuo quesito, in base alla mia esperienza vissuta con lui, posso dirti che sicuramente avrebbe costituito un blog sul web. Ricordo che quando decisi di conoscerlo gli feci una ventina di telefonate senza mai riuscire a parlargli, la sua segretaria mi disse: “provi a scrivergli una lettera lui le risponderà sicuramente... anzi se possiede un fax meglio ancora, adora questo strumento perché è veloce e immediato”. Pensa cosa sarebbe riuscito a creare sul web, poter sfruttare la planetarietà in un istante, avrebbe potuto dire la sua in qualsiasi istante e irrompere con la sua prorompenza.»
A seguire la prima delle due interviste agli artefici di antiTHeSi: Sandro Lazier.






31 gennaio 2012

0054 [MONDOBLOG] Il denotatore digitale: Marco Brizzi

di Salvatore D'Agostino
«Nel 1999 (sic ndr 1995) nasce «arch'it», diretta da Marco Brizzi, tuttora la più solida e conosciuta tra le riviste di architettura online con base in Italia. Non è secondario che «arch'it» nasca a Firenze e leghi il proprio nome fin da subito a un festival annuale di architettura e media («Image»). Sembra una pietra filosofale, il detonatore digitale è piazzato proprio nel cuore di una delle facoltà di architettura meno disponibili all'innovazione e in un colpo solo riesce a mettere nel mirino di uno sguardo «aperto e disincantato» anche i rapporti tra architettura e media […] La bomba esploderà avrà successo, anche se a qualche anno di distanza si può dire che certamente ha creato dei nuovi poteri ma forse non è riuscita che marginalmente a mettere in crisi il sistema di potere che sembrava essere in grado di indebolire più a fondo. È certamente riuscita, però, a produrre due fenomeni.

Il primo è stato quello ovvio dell'emulazione, per cui negli anni successivi abbiamo dovuto assistere a un proliferare incontrollato di direttori self-appointed di riviste digitali, pronti a definirsi critici di architettura e spargere senza paura giudizi tranchant su questo e quel maestro e apprezzamenti quasi erotici su progetti di amici e conoscenti.

Il secondo, potenzialmente più rilevante, è stato quello di «far crescere» una generazione di critici e aspiranti critici (o teorici) dell'architettura, che trovano finalmente sulle pagine di «arch'it» quello spazio e quella libertà di selezione dei contenuti che le riviste e i giornali non sembrano voler concedere.» (Pippo Ciorra)1

Nel novembre del 2010 fa scrivevo*: 
«Dopo le ripetute incursioni nel mondo dei blog*, è arrivato il momento di mettere ordine tra le pagine scritte nel Web in questi anni.
Cominciamo a rispondere alla domanda posta qualche tempo fa su questo blog: chi è stato il pioniere dei blog di architettura?*

La risposta è: Marco Brizzi con  la creazione di arch’it nel marzo 1995  (aveva appena compiuto 28 anni).2

Arch’it è una semplice pagina bianca con pochi e chiari rimandi alle rubriche. In questi quindici anni ha ospitato gli scritti dei migliori critici/architetti  - e non solo – italiani. Mantenendo un registro critico e disinteressandosi all’aspetto ‘virale’ di internet o ‘all'estetica Web' del momento. Usando la rete come pagina d’approfondimento e non come campo di una rivoluzione in corso.
Per Arch’it il web log ha la stessa radice della pagina cartacea: la scrittura.
Di seguito il colloquio avvenuto nel pomeriggio del 14 luglio scorso con Marco Brizzi.

 Salvatore D'Agostino Questa è un'homepage del 1998, l'anno del tuo inizio come direttore editoriale di arch'it.
Quali erano le idee guida di quegli anni? 

Marco Brizzi Dove l’hai trovata, su archive punto org? 

Sì.

Bella!
Idee guida vere e proprie, per arch'it, ho preferito non definirne. C'erano, naturalmente, all'origine, delle scelte editoriali delle sensibilità, delle ipotesi. E molte domande. Nel seguire il lavoro avviato dai miei amici mi interessava sfruttare la Rete per misurarne la capacità adattativa, per porre dei temi e delle questioni che altre forme dell'editoria di architettura, in quel momento, non avevano interesse a porre. Nell'Internet stavano nascendo diverse attitudini e mi sembrava opportuno contribuire a stimolarle.

Quando si iniziano dei percorsi si stilano, non dico dei manifesti, ma dei punti programmatici. 

In questo caso le azioni sono state guidate in larga misura dalla spontaneità. Non un progetto editoriale vero e proprio, quindi, né qualcosa di simile. Per me arch'it si poneva in linea di continuità con lo spirito del gruppo che aveva fatto nascere quello spazio web nel 1995. Mi interessava mettere alla prova l'efficacia di alcuni temi. In questo senso, c'è stata una progressiva e variabile messa a punto delle idee; ed è questa, semmai, che ha descritto nel tempo un orientamento e, se vuoi, un percorso. Non ho sentito la necessità di produrre un manifesto. So che qualcuno è rimasto sorpreso nel non ritrovare sulle pagine di arch'it esplicite dichiarazioni che accompagnassero la mia conduzione. 

Il tuo lavoro su arch'it è simile al lavoro di un editore poiché, benché rari siano i tuoi scritti, interessanti sono i contributi che in questi anni sei riuscito a far pubblicare. Su arch'it hai dato spazio ai maggiori critici sia emergenti e non, sei un catalizzatore e divulgatore - in senso positivo - del dibattito sull'architettura?

Questa considerazione è interessante.
È vero, non mi sento di avere determinato un percorso rigoroso, semmai ho cercato di fare spazio e di accomunare delle figure che, concordo con te, ho avuto la fortuna di coinvolgere e che hanno contribuito alla costruzione di arch’it, molto di più di quanto non abbia fatto io.
Credo che questo abbia a che fare con la 'naturalità' del percorso compiuto. Percorso tanto naturale che a volte si è atrofizzato, a volte si è sviluppato con maggiore impeto, a seconda delle occasioni e anche delle disponibilità di tempo e d'animo delle persone che hanno collaborato al progetto.
Ho avuto la fortuna di non dovere sottostare a delle regole di mercato editoriale, cosa che ha comunque penalizzato, probabilmente, alcuni aspetti della rivista.
 

Arch’it è totalmente gratuita?

Si tratta di un lavoro di gruppo. E sono davvero numerose le persone che hanno collaborato alla rivista in maniera molto spontanea e generosa.

Rileggendo il tuo dialogo con Luigi Prestinenza Puglisi nel libro La generazione della rete ho avuto la sensazione che il giovane, cioè tu, cercava ti placare il web ottimismo del vecchio – anagraficamente - LPP. 
Riprendo la riflessione finale:
«L'accademia si afferma anche alimentandosi con l'avanguardia, talvolta fagocitandola. Nessuno di noi vorrebbe che questa generazione, un po' come quella descritta da Roman Jakobson alla fine degli anni Venti, dissipasse i propri poeti. Poeti e non poeti, i progettisti qui presenti (ndr A12, amgod#n, Alessandro Carbone, Centola & Associati, Cliostraat, Greco Onori Oppici, HOV; ma0/emmeazero, Mantiastudio, Gianluca Milesi, nicole_fvr/2A+P, Spin+, Stalker e UFO) sono alla ricerca di ambiti di produttività, di campi d'indagine e di azione. Hanno avvicinamenti molto diversi ai problemi che abbiamo sommariamente discusso, hanno idee distinte e progettano secondo criteri disomogenei tra loro. Ad accomunarli qui è l'appartenenza a una generazione che, consapevolmente o meno, contribuisce alla definizione di un ambito di sviluppo dell'architettura connaturato alla cultura della rete.»3 
A proposito di generazione e disomogeneità, due domande. La prima è un po' brutale, che fine ha fatto quella generazione della rete? 

La domanda è importante. Effettivamente la sensazione che qualcosa stesse accadendo -e che, se non si fosse percepita l'importanza del momento, qualcosa si sarebbe irrimediabilmente perduta- la sottoscrivo. E credo che, osservando oggi i processi che si sono succeduti, qualcosa si sia definitivamente perso; si è perso il momento dell'entusiasmo, della scoperta, della volontà d'impossessarsi di strumenti nuovi, di argomenti nuovi da trasferire nel mondo dell'architettura. Questo è durato un certo periodo, forse dura ancora oggi in qualche misura, ma non siamo più negli anni delle grandi speranze, che farei corrispondere al quinquennio 1995-2000. 

Che cosa è successo dopo?

Che alcune delle figure che hanno familiarizzato con la Rete, frequentandola per farla diventare un'effettiva risorsa, hanno avuto la capacità di continuare il loro discorso e di farlo crescere. Il Web è materia duttile, non può essere oggettivata o considerata uno strumento in se stesso definito e concluso. Si tratta a tutti gli effetti di un ambiente che si arricchisce di idee, di interpretazioni, di significati, che si strutturano attraverso l'uso. Tornando alla tua domanda, alcuni gruppi hanno poi cambiato il loro percorso per poi trovare nuovi canali nei quali scorrere. Altri hanno smesso di ricercare. Qualcuno è scomparso. Ma tutto questo è nella natura delle cose. Non ho pensato mai, in fondo, -e credo che fosse già argomento del dialogo con Prestinenza- che la rete fosse un ambiente esclusivo e confortante. 

La seconda la introduco con un aneddoto di Umberto Eco raccontato a Bologna il 15 maggio del 2011 (Costruire il nemico):
«Anni fa a New York sono capitato con un tassista dal nome di difficile decifrazione, e mi ha chiarito che era pakistano. Mi ha chiesto da dove venivo, gli ho detto dall'Italia, mi ha chiesto quanti siamo ed è stato colpito che fossimo così pochi e che la nostra lingua non fosse l'inglese.

Infine mi ha chiesto quali sono i nostri nemici. Al mio "prego?" ha chiarito pazientemente che voleva sapere con quali popoli fossimo da secoli in guerra per rivendicazioni territoriali, odi etnici, continue violazioni di confine, e così via. Gli ho detto che non siamo in guerra con nessuno. Pazientemente mi ha spiegato che voleva sapere quali sono i nostri avversari storici, quelli che loro ammazzano noi e noi ammazziamo loro. Gli ho ripetuto che non ne abbiamo, che l'ultima guerra l'abbiamo fatta cinquanta e passa anni fa, e tra l'altro iniziandola con un nemico e finendola con un altro.
Non era soddisfatto. Come è possibile che ci sia un popolo che non ha nemici?
Sono sceso lasciandogli due dollari di mancia per compensarlo del nostro indolente pacifismo, poi mi è venuto in mente che cosa avrei dovuto rispondergli, e cioè che non è vero che gli italiani non hanno nemici. Non hanno nemici esterni, e in ogni caso non sono mai in grado di mettersi d'accordo per stabilire quali siano, perché sono continuamente in guerra tra di loro, Pisa contro Livorno, Guelfi contro Ghibellini, nordisti contro sudisti, fascisti contro partigiani, mafia contro stato, governo contro magistratura – e peccato che all'epoca non ci fosse ancora stata la caduta del secondo governo Prodi altrimenti avrei potuto spiegargli meglio cosa significa perdere una guerra per colpa del fuoco amico.»4 
Non credi che gli architetti italiani, nel loro farsi la guerra, siano stati sempre - aggiungo fortunatamente - disomogenei? O meglio non credi che la bellezza dell’architettura italiana dipenda dalla sua frammentaria identità? 

Trovo l'esempio molto appropriato e mi convince la tua ipotesi. La nostra identità ha anche a che fare con l'atteggiamento individualistico che si ritrova anche negli ambienti dell'architettura. Può darsi, allora, che la caleidoscopica frammentarietà che descrive l'architettura in Italia si ricomponga poi sotto forma di una figura cangiante. Inafferrabile e incerta al punto da indurre ancora qualcuno a pensare che questo Paese sia favorevole alla  progettualità. A me, in fondo, piace pensare che sia così. Eppure questo individualismo non si traduce in una vera e propria conflittualità. La necessità del nemico sulla quale si è soffermato recentemente Eco potrebbe anche offrire occasioni di confronto e di crescita culturale. 
La crisi che affligge le nostre facoltà di architettura, per fare un esempio, è una crisi culturale. Al di là dell'implosione strutturale che le sta coinvolgendo -è di questi giorni la dibattuta questione di Palermo5- i luoghi dove si insegna l'architettura in Italia sono spesso carenti di programma e incapaci di una reale competitività. L'assenza, o la mancata identificazione, di un "nemico" contro il quale le giovani generazioni dovrebbero in qualche modo disporsi non alimenta dei nuovi percorsi culturali. 

Nella recente Festarch di giugno 2011* e a Firenze all'interno dell'evento pensare spazi contemporanei* a luglio 2011 insieme a Derrick de Kerckhove, Stefano Boeri, Luigi Prestinenza Puglisi, Joseph Grima, Marco Biraghi, Pietro Valle ed Elisa Poli avete riflettuto sull'apporto delle nuove tecnologie di comunicazione nell'architettura.
Che cosa è emerso? 

Si tratta di iniziative assai diverse per forma e dimensione. Ma forse le accomuna una certa attenzione al discorso che l'architettura può sviluppare nella città contemporanea. Il festival diretto da Stefano Boeri e che si è recentemente spostato a Perugia ha intimamente a che fare con il tema mediatico, anche se non lo affronta in maniera esclusiva così come invece fa BEYOND MEDIA,* la manifestazione da me diretta a Firenze e dedicata, dal 1997, all'esplorazione del rapporto tra architettura e media. Al contempo, il programma PENSARE SPAZI CONTEMPORANEI,* che ti ringrazio di avere preso in considerazione, è un progetto più errabondo: da una parte si preoccupa del ruolo della critica nell'architettura e dall'altra cerca di mettere in discussione e di frantumare il senso, o quello che resta di un senso sovente svuotato, di alcune parole che ricorrono in pubblicazioni di architettura.

Purtroppo in rete non ho trovato nessun approfondimento, neppure una sintesi su Abitare, promotrice di uno dei due incontri. M'interessa capire quello che è emerso.

Ho partecipato a uno degli incontri di Festarch, intitolato Architecture and New Media, con Joseph Grima, Stefano Boeri e Derrick de Kerckhove. Ho sentito di dover in qualche modo interpretare il messaggio che Joseph Grima aveva proposto nella sua triplice occasione dei "Critical Futures Debates" che aveva organizzato con Domus a Londra, Milano e New York. In quelle occasioni -tu sei consapevole di cosa si sta parlando perché hai partecipato all'incontro milanese- ricorreva l'interrogativo sulla capacità della Rete, in particolare dei blogger, di reinterpretare o ridefinire il ruolo della critica di architettura. Questo era il tema che mi sembrava più importante da discutere, tant'è che lo ho poi riproposto insieme a Elisa Poli in occasione del ciclo di incontri PENSARE SPAZI CONTEMPORANEI, chiedendo agli ospiti di discutere "dove si annida la critica". Mi sono domandato questo, forse ingenuamente, alla ricerca dei dispositivi critici più convincenti realizzati in Rete. La sensazione è che, specialmente se si guarda agli autori italiani, la qualità sia alterna e solo occasionalmente convincente. Non so se sei d'accordo con me su questo punto, ma ho l'impressione che spesso, dalle nostre parti, l'editoria di architettura in generale e il Web in particolare siano usati come mezzi di espressione di un protagonismo personale.

A tal proposito ho svolto una ricerca, perché penso che prima di elaborare una critica, bisogna guardarsi intorno, conoscere ciò che sta avvenendo e in questo caso percorrere la Rete.
Attraverso lo strumento inchiesta, ho aperto un'indagine inclusiva di voci della blogosfera inerente l’architettura italiana.*  Ciò che ne emerso è complesso e variegato, richiederebbe una risposta elaborata. Ti sintetizzo due temi sottesi ma contrastanti tra di loro.
Il primo tema è quello che Mario Perniola chiama degli incazzati in pigiama6. La rete italiana, specialmente negli ultimi cinque anni, si è rispecchiata nel peggio dei media generalisti tradizionali che spesso avallano e rilanciano i blogger incazzati in pigiama, ad esempio il blog di ‘Beppe Grillo’ e similari; blogger ormai diventati dei professionisti della rete, che difficilmente attivano delle sinergie positive, con contenuti soventi bloccati su parole chiave, nel caso dell'architettura sono: archistar, centro storico, periferia, non luogo, effetto x, y e z, ecomostro, bioX o ecoX, contro A o contro B, eccetera.
I numeri, sia di copie vendute che di accessi, sembrano premiare questo tipo d'informazione incapace di analizzare, approfondire, rilevare ciò che ci succede intorno.
I blog, reiterando i titoli urlanti dei giornali, si dimenticano di osservare il sottobosco creativo e meno frignante che esiste e resta invisibile.
Il secondo tema è costituito dai blog (anche temporanei) che vengono letti forse da pochi lettori ma, come ricordava il direttore del Censis,7 gestite spesso da persone che si ostinano a non omologarsi al peggio e, dal mio punto di vista, stanno producendo ricchezza.
Temo che i critici, in questo momento storico, non riescano ad osservare questi territori di energia latenti, pensano che la Rete sia costituita solo dagli incazzati in pigiama e dimenticandosi di osservare i percorsi blogger più lenti e rilevanti.

Esistono nel Web velocità diverse e diverse capacità di propagazione. Non un catalogo se non il Web stesso, che costantemente ricostruisce i propri molteplici indici intorno alle preferenze e agli interessi dei suoi utenti. La critica può manifestarsi in zone più o meno 'calde' e costruire intorno a sé imprevisti ambiti di interesse e di applicazione. Credo che per poter cogliere quello che accade in quelli che tu chiami 'territori di energia latenti' occorra maturare maggiori duttilità e capacità di osservazione. 

A proposito della convergenza del cartaceo con il Web, di recente, ho letto il libro di Marco Biraghi MMX Architettura zona critica e sono rimasto deluso dalla semplice trasposizione dei contenuti apparsi nel suo sito Gizmo.8 Un’operazione analogica.
Io penso che i due media, il libro e il Web, abbiano linguaggi distinti. Il Web ci offre una diversa profondità, la rete non è solo una pagina, è audio, video, link, immagine con tutte le sue infinite quotidiane varianti. È qualcosa d’informale ma nello stesso tempo profondo, dove si ci può incontrare. Queste peculiarità non possono essere trascurate, non possiamo più pensare di replicare degli articoli cartacei in rete. 

Il libro di Marco Biraghi sembra modellato su il BLDBLOG di Geoff Manaugh* che è anch'esso una trasposizione di testi prodotti per la Rete e poi messi su carta. Iniziative editoriali come questa testimoniano la presenza e la rilevanza di contenuti che, nati nel Web, possono soddisfare diversi mercati editoriali e raggiungere diverse comunità di lettori. Nel compiersi, queste contaminazioni o questi travasi, che sovente si realizzano nell'editoria degli ultimi anni, descrivono la variabilità dei linguaggi che appartengono a diversi ambiti di produzione. Questo perché, appunto, i contenuti sono condizionati dai luoghi in cui si offrono. Possono addirittura descriverli: se io scrivo qualcosa su Web risento, in qualche modo, della spazialità che essa mi offre. Mentre scrivo ho la percezione diretta del fatto che, quello che scrivo, lo sto scrivendo per una comunità amplissima, indeterminata e anche indefinita nel tempo.

Qualche anno fa Pietro Valle, uno degli autori che con maggiore impegno si sono rivolti ad arch'it, mi ha proposto di sviluppare un programma secondo il quale estrarre, sulla base di scelte curatoriali di volta in volta differenti, articoli contenuti nel grande deposito delle pubblicazioni della rivista, per dare luogo a dei volumi cartacei. Tale programma, consapevole dei variabili linguaggi usati, prevedeva la riscrittura dei pezzi stessi e il loro adeguamento alle esigenze e alle consuetudini della carta. Trovo ancora interessante l'esperimento fatto con "arch'it papers" -così si chiamava il progetto di cui è uscito un solo volume- e ritengo sia sempre opportuno tenere in considerazione la pertinenza di ciascun mezzo di comunicazione. In ogni caso credo di poter dire che arch'it ha spesso agevolato le pratiche di trascrizione e di migrazione di contenuti, andando talvolta contro quello che il senso comune suggerirebbe solitamente all'editoria. 

Infatti, non criticavo l’idea di trasporre i contenuti prodotti nella Rete in un libro, bensì l'idea di copia incollarli in direzione analogica. Mi convince l'approccio di Pietro Valle che riscrive in formato cartaceo ciò che è stato scritto in rete, operazione opposta a quella di Marco Biraghi, il suo libro sembra un patchwork di scritti proposti in rete, con l'aggravante dell'aggiunta degli elementi che ammiccano al linguaggio della rete: la manina dei link, le tag e il mi piace che non appartengono al linguaggio grafico di un libro. Trasporre la grammatica web in un libro, secondo me è un'operazione debole. Si sono mescolati due linguaggi diversi in un unico contenitore. Ad esempio il libro La generazione della rete del 2003 era caduto in questa trappola grafica ma erano anni di sperimentazione, quasi pioneristica. 

Questo è un punto molto importante sarebbe interessante svolgere un confronto diretto su questi argomenti magari in Rete?
Tu hai cercato di porre questi tuoi argomenti a Marco Biraghi? 

No. 

Penso che varrebbe la pena discuterne.

Dopo questa conversazione, possiamo ampliare il nostro dialogo. Sarei interessato a un dibattito attivo sui temi dell'architettura. Non bisogna pretenderlo, ma, se continuiamo ad invitare o magari ospitare nei nostri siti due o tre persone che la pensano alla stessa maniera, rischiamo l’autoreferenzialità di cui parlavi prima, rimanendo dei mondi isolati, atteggiamento ereditato dalle riviste cartacee dell'ultimo ventennio, incapaci di attivare un dialogo sui temi del contemporaneo e che hanno perso la tradizione dialogica che li vedeva confrontarsi spesso con precisi e importanti editoriali, penso a Pagano con Piacentini o Maldonado con Mendini.
La rete, in tal senso, ci offre altri canali, anche se a volte gli assalti degli incazzati in pigiama deviano il dialogo in un groviglio di parole chiuse, spesso ideologizzate che scadono nell'invettiva. Ma è indubbio che la Rete offre degli spazi nuovi, latenti e forse virtuosi.

Coltivare queste insoddisfazioni non può far che bene. Credo dovrebbero essere spinte al di là della ricerca delle configurazioni ideali o idealizzate riguardo agli usi dello spazio web. Gli strumenti e le forme di scrittura hanno una forte incidenza nella produzione dell'architettura. Il lavoro critico sull'editoria e sulle possibilità di pubblicazione dell'architettura è decisivo per la crescita della cultura del progetto. Questo atteggiamento trascende lo strumentario, benché aperto e formidabile, offerto da Internet. Occorre coltivarlo e incorporarlo nel pensiero progettuale. 

Condivido e penso che possiamo chiudere con quest'auspicio.
  
31 gennaio 2012
Intersezioni ---> MONDOBLOG
__________________________________________
Note: 
1 Pippo Ciorra, Senza architettura, Laterza, Roma-Bari, pp. 73-74 
2 per capire meglio la storia di arch'it vi suggerisco di leggere: Salvatore D'Agostino, 0053 [MONDOBLOG] Dadarch'it, Wilfing Architettura, 19 gennaio 2012* 
3 2A+P, Marco Brizzi, Luigi Prestinenza Puglisi, GR - La generazione della rete. Sperimentazioni nell'architettura italiana, Cooper & Castelvecchi, Roma, 2003, pp. 224-225.  
Interessante questa  breve storia dell'editore Cooper & Castelvecchi: «Il marchio editoriale Castelvecchi è stato fondato nel 1993 sull’onda di Internet, dei Cibernauti e della nuova cultura giovanile che ruggisce sul Web e nei centri sociali. Ha lanciato a suo tempo, nel 1995, due dei più noti «cannibali», che hanno pubblicato con Castelvecchi il loro esordio: Aldo Nove con «Woobinda» e Isabella Santacroce con «Fluo». Per non parlare del fenomeno Luther Blissett, che esordisce da Castelvecchi nel 1995 con «Mind Invaders», e impazza per tutti gli anni Novanta prima di trasformarsi nel collettivo Wu Ming. O del fantomatico Reverendo William Cooper, che con oltre ventimila copie vendute sdogana il «Sesso estremo» per un’intera generazione. Libro d’esordio castelvecchiano anche per il critico e scrittore romano allora 28enne Emanuele Trevi (in seguito da Einaudi, Mondadori, Laterza): è già un classico il suo Istruzioni per l’uso del Lupo, una lettera aperta a Marco Lodoli sulle aberrazioni della critica. Mentre la stagione dei centri sociali volge ormai al tramonto, sul finire degli anni Novanta Castelvecchi si dedica alla nuova generazione di pittori e artisti digitali italiani. Con il lavoro dei critici Gianluca Marziani (allora 27enne, autore del saggio «N.Q.C. Nuovo Quadro Contemporaneo») e Luca Beatrice e Cristiana Perrella (allora 30ntenni, autori di «Nuova arte italiana») e decine di altri critici e curatori, Castelvecchi pubblica i lavori di esordio della nuova generazione visiva e visionaria: suoi il primo libro di Matteo Basilé, di Alessandro Gianvenuti, di Giuseppe Tubi e decine di altri cataloghi di personali e collettive. E non mancano incursioni nel campo della nuova «Rave Culture», con libri dedicati alla trance elettronica, ai nuovi dj chimici e all’acid jazz grazie al lavoro di curatori come il dj romano Andrea Lai e il jazzista Francesco Gazzara».* 
4 Umberto Eco, Costruire il nemico, Testo integrale dell’intervento tenuto il 15 maggio 2011 a Bologna nell’ambito del ciclo di conferenze “Elogio della politica” curato da Ivano Dionigi presso l'Università di Bologna.*   
5 Per un approfondimento vi suggerisco di leggere un breve post di Antonino Saggio: Chiusura della Facoltà di Architettura di Palermo, Conferenze e talks of Architettura by Antonino Saggio, 15 luglio 2011. * 
6 Editoriale di Mario Perniola, Scrivere, scrivere… perché?, Agalma, n. 17, marzo 2009* 
7 Il direttore del Censis Giuseppe Roma in un recente convegno sui maggiori disturbi depressivi sociali degli italiani evidenzia come ne siano affette le persone più fragili ma a sua volta le più sensibili, poco ciniche quelli non accettano di omologarsi al peggio: «Proprio quest’ultima forma di reazione alla società del disordine e della confusione, che non è una forma di adattamento, ma l’espressione di una sofferenza individuale, può paradossalmente essere espressione di sana potenzialità. Disturbi psichici come segno di reattività, di non conformismo, di ribellione. La speranza è che correnti vitali nella società possano captare la reattività di sofferenza dei singoli e riconvogliarle verso una ripresa della consapevolezza sociale». Rita Piccolini, Soli, impauriti, 'barricati' in casa, Televideo, 15 giugno 2011.*   
8 Ciò che manca premessa al libro a cura di Marco Biraghi, Gabriella Lo Ricco, Silvia Micheli, MMX Architettura zona critica, progetto grafico Pupilla Grafik, Zandonai, Rovereto, 2010.* 

L'intervista fatta il quattordici luglio del 2011 è stata rivista e aggiornata il trenta gennaio del 2012. La foto animata è composta da frammenti di screenshot scattati, durante il dialogo avvenuto su Skype, da Salvatore D'Agostino.

9 gennaio 2012

0052 [MONDOBLOG] La Domus di Joseph Grima

di Salvatore D'Agostino

«Domus è una rivista d'arte che sogna di essere un'opera d'arte.» (Giò Ponti)1
-
Joseph Grima con i suoi 34 anni2 è il più giovane direttore della storia di Domus. L'otto luglio del 2011 abbiamo chiacchierato sulle sue esperienze formative e sul percorso ideativo avviato per Domus. Quali siano le aspettative della nuova Domus, le affido alla voce degli editori Giovanna Mazzocchi Bordone (figlia di Gianni Mazzochi l'ideatore dell'Editoriale Domus*) e della figlia Sofia Bordone. A seguire il nostro dialogo:
«Sofia Bordone Abbiamo Domus, che esce in edizione internazionale in inglese con edizioni locali in Russia, Israele, Cina e in arabo3, e Meridiani, che ha un’edizione brasiliana. Ai partner esteri offriamo la nostra competenza nel fare sistema.

Ivan Berni Come procede la mutazione di Domus con il ritorno alla direzione di Alessandro Mendini?

Giovanna Mazzocchi Bordone Mendini è una collezione nella collezione. L’ho voluto alla direzione per preparare il terreno alla nuova declinazione di Domus verso una linea di sviluppo ‘globale’. Prima il giornale anticipava le tendenze. Dava, per così dire, la linea. Ma oggi, anche facendo al meglio questo lavoro, si rimarrebbe inevitabilmente indietro. Qualcosa resterebbe fuori. Perciò la rivista Domus deve soprattutto fare approfondimento, offrire letture interpretative. Il resto, le tendenze, le news, le sperimentazioni, deve girare su tutte le piattaforme che oggi la tecnologia ci permette di usare. È un progetto a cui sta lavorando da mesi Joseph Grima, che prenderà la direzione di Domus nella prossima primavera. Prima di Natale verrà lanciato il nuovo sito della rivista ed entro il 2011 avremo anche la versione iPad. Il nuovo sito sarà in versione scrolling, con una parte storica e una parte informativa.»4

Salvatore D'Agostino Nasci ad Avignone nel 1977, ti trasferisci a Milano nel 1987, dove hai frequentato le scuole secondarie e il liceo. Nel 2003 ti laurei all’AA di Londra. 
Qual è la tua identità?

Joseph Grima I miei genitori sono inglesi, l’educazione familiare formativa è culturalmente inglese. Ma da quando avevo dieci anni ho vissuto in Italia, e frequentando le scuole italiane dalle medie ho avuto una formazione italiana. Mi sento abbastanza equilibrato tra le due identità o forse più che altro mi sento profondamente europeo, non appartenente a nessuna nazionalità specifica. Credo che oggi la nazionalità sia meno importante anche per la crescita culturale individuale, come evidenziava Luca Molinari alla Biennale di Architettura del 2010 chiamandola ‘Generazione Erasmus'.5
L'Europa oggi è una realtà significativa. L'altro giorno (ndr 7 luglio 2011*), durante la premiazione del concorso 'AAA architetti cercasi'* alla Triennale, in cui si cercavano proposte innovative intorno all'idea del 'social housing' abitazioni a basso costo, è stato interessante constatare come i premiati fossero tutti ragazzi giovanissimi; quasi tutti avevano un'identità internazionale con percorsi formativi in Italia, in Francia, negli USA o in Spagna, e i loro lavori si sviluppano attraverso reti fisiche ed elettroniche. L'architettura oggi è una rete di reti, ed è questa la realtà in cui mi trovo più a mio agio.

New York, 97 Kenmare Street, un incrocio che segna l’intersezione di tre quartieri: Chinatown, Little Italy e SOHO. Sede dell’organizzazione no profit Storefront for Art and Architecture,*  attiva dal 1982. Lunga circa trenta metri, la galleria si assottiglia dai 20 ai 3 metri, ridisegnata nel 1992 da Steven Holl e Vito Acconci, i quali hanno trasposto in architettura lo spirito dell’organizzazione, creando non un contenitore delle arti ma un forum pubblico dove l’interno - attraverso dei pannelli incernierati in cemento e fibre riciclate - si apre verso l’esterno, creando una continuità con la città. Organizzazione che hai diretto dal 2007 al 2010.
Questa vista da Google StreetMap evoca fortissime memorie. È una prospettiva della galleria vista da ‘La Esquina* un piccolo bodega dall'altra parte della strada dove la notte si ritrovano i tassisti nel momento di pausa. È aperto 23 ore su 24, e chiude, se ricordo bene, dalle cinque alle sei del mattino. Si preparano tacos, quesadillas e altre specialità messicane. Devo aver passato decine e decine di ore a guardare la galleria da questa prospettiva, mangiando tacos.

L’immagine mi fa tornare in mente l’esperienza di quei tre anni a Storefront ma anche l'unicità della sua natura istituzionale. È una galleria che ha solo quattro dipendenti, finanziato quasi interamente da donazioni di individui che credono nell'importanza per l'architettura oggi di uno spazio autonomo di sperimentazione, una sorta di laboratorio di riflessione e coraggiosa sperimentazione sulle frontiere politiche, sociali, tecnologiche e filosofiche dell’architettura, nell'epicentro di una delle realtà urbane più competitive e aggressive del mondo. Una fortissima volontà collettiva è incapsulata in questo spazio, un incredibile coraggio a resistere con pochissimi soldi a New York, forse la città più cara del mondo, lontano da interessi commerciali e monetizzabili, dove ogni mese si rischia di essere espulsi per far posto ad un altro negozio d’abbigliamento. Ma la sua energia vitale deriva proprio da questo: essere una sorta di bolla acommerciale in un mare di shopping, una sorta di scialuppa dalla quale è possibile osservare criticamente, da vicino, la città.

Credo che le istituzioni, un po’ come le persone, possano essere tirchie o generose. Storefront ha da sempre la peculiarità di essere un’istituzione generosa e coraggiosa. La sua qualità più ammirevole è quella di prendere rischi: dà la possibilità a individui che hanno visioni un progettista o un artista giovane, uno sconosciuto, uno straniero, di avere un primo approdo negli Stati Uniti, di far vedere i propri lavori in una delle città che più ha segnato l’innovazione nell'architettura, nell'arte e nel design. Ha una tradizione di offrire una piattaforma a individui che sono stati rifiutati altrove. È stato storicamente un punto di approdo: Diller + Scofidio* hanno fatto la loro prima mostra, e già negli anni Ottanta si trattavano esattamente gli stessi temi sollevati ora dal movimento Occupy. Storefront non ha nessun sovvenzionamento governativo, trattandosi degli Stati Uniti ci sono pochissimi fondi governativi, municipali o federali per l’arte o la cultura, ma vive grazie a donazioni private che tengono personalmente all'esistenza di questo luogo.
Storefront ci deve far riflettere sul futuro della cultura in Europa, da una parte il modello americano basato sulla filantropia e dall'altra il modello europeo sostenuto dalla collettività attraverso lo stato. Una domanda da porsi in questo momento storico.

Credo che ci siano delle similarità con Domus, che è da sempre una rivista coraggiosa e generosa, e consapevole del suo potere nel trasformare le carriere di architetti, designer, artisti e fotografi. Col numero di gennaio 2011 abbiamo iniziato un nuovo progetto: la copertina e l’editoriale di ogni numero sarà affidata ad un architetto, designer, urbanista o artista che in qualche maniera sta sperimentando con coraggio, trascendendo i limiti disciplinari della sua professione. La copertina diventa in qualche maniera una piattaforma sperimentale sulla quale, insieme a quattro pagine di editoriale, è possibile prendere una posizione, esprimere un pensiero, ma anche riflettere sulla propria traiettoria progettuale e i traguardi all'orizzonte  Iniziamo con uno studio belga, architecten de vylder vinck taillieu*,  non soltanto perché hanno appena terminato una serie di tre progetti residenziali interessanti e innovativi (ndr presentati nel numero), ma anche perché ci sembra importante, in questo momento, dare spazio ad uno studio che ha scelto di concentrare la sua ricerca su un’unica finalità, ovvero l’esperienza dello spazio architettonico e la qualità materiale dello spazio fisico. Sembra una banalità, ma ci troviamo in un momento che l’interesse per la teoria e la ricerca astratta - assolutamente legittima, per carità - rischia di essere meno uno strumento di avanzamento cognitivo che una distrazione endemica che aumenta la distanza cognitiva fra noi, come architetti, e la materia fisica, lo spazio che produciamo, che in ultima analisi è la misura della nostra abilità e quello su cui siamo giudicati, cosa che apparentemente ci dimentichiamo ogni tanto. È una copertina forte, sorprendente e anche difficile, che d’altra parte rischia di apparire molto banale se non si legge il testo che lo accompagna. Ma credo sia nella migliore tradizione di Domus dare spazio ad un pensiero forte, anche al costo di prendere qualche rischio. Sono poche, pochissime le riviste che possono farlo oggi.

Nel 2007 hai organizzato POSTOPOLIS! Quattro blogger Geoff Manaugh BLDBLOG,* Dan Hill City of Sound,* Jill Fehrenbacher Inhabitat (New York City) * e Bryan Finoki Subtopia* da quattro diverse città, hanno ideato e invitato una serie di relatori dal vivo fondendo l'approccio informale e l'energia interdisciplinare della blogosfera architettonica con l'immediatezza e l'interazione faccia a faccia. 

Ho cominciato a leggere BLDBLOG nel 2006 quando lavoravo a Domus, direzione Stefano Boeri. Fino a quell’anno, il concetto di 'blog d’architettura' era sostanzialmente sconosciuto, almeno sulla larga scala che conosciamo oggi. BLDBLOG mi affascinava perché era qualcosa di completamente nuovo, senza precedenti: un autore che da solo, senza retribuzione, era riuscito a crearsi un seguito globale scrivendo d’architettura online. Ero affascinato da questa figura nascosta di cui non si sapeva nulla, neanche dove vivesse. Arrivato a Storefront nel 2007, per la prima volta avevo un budget e uno spazio, e ho pensato di usarli per conoscere Geoff e due o tre altri come lui. Mi sono detto che come me, probabilmente, anche molti altri erano curiosi di avere la possibilità di trasformare in una dimensione fisica quella che era una dimensione estremamente attiva ma puramente elettronica.

Abbiamo iniziato con Geoff una discussione da cui è nata l’idea di creare una sorta di 'Ponzi scheme' delle idee: il tema centrale rimaneva l’architettura, ma ognuno dei quattro blogger, avendo un approccio molto diverso e specifico:
   Geoff fantascienza, letteratura, paesaggio e geologia;
   Dan interfacce, grafica, tecnologia infrastrutturale e le smart cities;
   Bryan il punto di vista della militarizzazione dello spazio urbano e non;
   Jill sostenibilità ed ecologia;
invitatava una dozzina di relatori che avrebbe voluto conoscere e intervistare dal vivo. Da questa sorta di piramide, in cui io invito quattro blogger, ogni blogger invita dodici relatori, e ogni relatore invita i suoi amici e conoscenti, è nato un’incredibile esempio di 'network effect' in cui in qualche maniera la rete e lo spazio fisico della galleria sono diventati un’unica cosa. Non abbiamo mandato nessun comunicato stampa, nessuna mail e ci siamo trovati all’epicentro non solo della rete locale newyorkese. La notizia si è sparsa quasi come un incendio di bosco, attraverso le comunità creative che ci sono a New York ma anche attraverso la rete, gran parte del dibattito infatti avveniva online, nonostante fossimo lì fisicamente. C'è stata una inaspettata collisione tra cyberspazio e spazio fisico.

La sua forza è stata nel ritmo incessante, incalzante dei relatori variegati e interessanti che si succedevano. Alla fine di ogni relazione, ognuno si prometteva di staccare, di andare a prendere un caffè o a mangiare qualcosa, ma non si riusciva mai. Siamo rimasti lì dentro più o meno per cinque giorni, in un flusso ininterrotto di idee e dibattiti.

Una Woodstock dell’architettura? 

Si potrebbe dire così, ma senza molto sesso o droga, se non Red Bull. È finito tutto con un dj set di due blogger che trattano il tema dello spazio urbano attraverso il suono e la musica: DJ/rupture* e Daniel Perlin* (DJ N-Ron). Daniel Perlin ora cura la sezione Mixtapes* di Domus, e DJ/rupture è l’autore del Mixtape Harlem, il secondo della serie.

Visto oggi, è evidente che c’è stata una sorta di contaminazione tra la cultura blogger e l'editoria classica. Credo che il grande merito dei blog sia stato di costringere l’architettura a riprendere contatto con la realtà, smontando l’apparato fortemente gerarchico ed accademico che caratterizzava il dibattito intorno all’architettura fino all’arrivo della rete. 

Che cosa significa POSTOPOLIS! e perché il punto esclamativo? 

Ottima domanda. Non ricordo... Sarebbe interessante ritornare nei miei archivi email, perché è stato il frutto di un lunghissimo scambio notturno con Geoff, forse anche un po’ delirante. Forse il punto esclamativo sta per rafforzare quest’idea di energia, di eccesso, di sforzo quasi agonistico nella ricerca della conoscenza e della divulgazione – un modo per allontanarlo dall’idea canonica delle conferenze soporifere. Postopolis! – sembra più un esclamazione che il titolo. 

Nel novembre del 2010 sei stato invitato a partecipare alla mostra The Last Newspaper* al The New Museum di New York.* Interessante la riproposta di un’opera di Luciano Fabro del 1967 ‘Pavimento-Tautologia’ che metteva in relazione il faticoso lavoro dei giornalisti con la fatica del lavoro domestico dove i giornali servono per lucidare pavimenti e vetri:
«[...] di considerare il lavoro e di preservarlo, non per ostentazione, ma come fatto privato, cercare che non vada a finire in niente quella cosa che è costata lavoro.»6
Ci sarà mai un ultimo giornale di carta? 

Sì, non nel futuro immediato ma prima o poi ci sarà l’ultimo giornale di carta. Credo che non ci sarà l’ultima rivista, poiché le riviste approfondisco temi e i loro contenuti sono più longevi rispetto alle notizie del giornale di carta. Quello che distingue la rivista dal quotidiano è la dimensione della notizia, l’informazione ha un ruolo fondamentale nel quotidiano, diversamente dalla critica e dal pensiero elaborato che si ha nella rivista. Per quanto riguarda l’informazione credo che nel futuro convergerà nelle piattaforme Web e questo in parte sta già avvenendo.

Il progetto di The Last Newspaper era un modo per riflettere sull’incredibile importanza che hanno avuto e continuano ad avere i giornali, per quanto riguarda lo spazio urbano e il nostro rapporto con le città. Ad esempio, New York è una città particolarmente estrema, nel senso che è una città fondamentalmente fondata sulle lobby immobiliari, sulle fluttuazione e le crescite dei valori immobiliari; in tutto questo il New York Times ha giocato un ruolo fondamentale, tutto ciò che ha pubblicato e non pubblicato ha in qualche maniera plasmato la città ed è una cosa di cui si è parlato pochissimo.

La partecipazione alla mostra al New Museum è stata una collaborazione con Kazys Varnelis * il direttore del The network architecture lab* della Columbia University*. Per quattordici settimane abbiamo realizzato The New City Reader, un settimanale stampato su carta di giornale. Ma si trattava di un settimanale molto insolito, perché come provocazione riprendeva il format dei 'Dazibao' cinese - i giornali della rivoluzione concepiti per essere letti collettivamente per strada, nello spazio pubblico, incollati ai muri delle città - e lo riproponeva come format per una lettura collettiva di scritti che non erano assolutamente intesi come notizie 'quotidiane' ma che trattassero temi inerenti allo spazio pubblico, il suo ruolo oggi, e come sta cambiando.

Per i diversi numeri del settimanale prodotti durante la mostra hanno scritto, in tutto, più di trecento persone, creando un ritratto della città in tempo reale e incentrando la ricerca su come l’informazione modifica o modella lo spazio fisico. Quindi paradossalmente, nonostante si trattasse di un giornale ‘cartaceo’, si è parlato principalmente di interazioni spaziali, ad esempio di come l'iPhone cambiasse il nostro modo di occupare lo spazio, di come il cittadino oggi occupa lo spazio fisico del marciapiede, della metropolitana, incapsulato in una sorta di bolla che lo isola dal suo contesto.

The new city reader ha creato una sorta di ritratto di una città, un ritratto molto spontaneo ed è anche un modello applicabile a diverse città, infatti stiamo lavorando ad una edizione londinese che probabilmente si terrà in primavera e sarà ospitata dall'Architectual Associaton*. 

Gianni Mazzocchi l’editore storico di Domus sognava una rivista in continuo aggiornamento anche grazie all’alternarsi del direttore. Nell’aprile 2010, dopo la direzione affidata a Flavio Albanese, Domus ha deciso di affidare a te la direzione, con una transizione di un anno curata da Alessandro Mendini già direttore di Domus nel 1980-85 nonché di Casabella 1970-1976.
Il 9 dicembre del 2010 cambi radicalmente il sito di Domus, affidando la progettazione a Dan Hill. Facendo subito chiarezza sul tuo progetto editoriale: Domus avrà una doppia anima Web e cartacea.
Una curiosità, perché per spiegare le novità della nuova versione cartacea hai pubblicato l’intervista ai curatori Salottobuono7 e non hai spiegato quella di Domus Web curata da Dan Hill?

La risposta è divertente perché rivela uno scontro culturale. L’intervista a Salottobuono è stato un modo per esplicitare alcune scelte culturali intono al linguaggio visivo della rivista e prima di quest’intervista avevo proposto la stessa cosa a Dan Hill. Ma Dan ha preferito aspettare che il sito fosse davvero completato prima di parlarne pubblicamente. Il problema è, che come si sa, i siti sono in continua evoluzione: ci sono nuove rubriche, nuove sezioni, continui perfezionamenti. A metà gennaio, ad esempio, lanceremo un piccolo redesign (non così tanto diverso, ma che porta alcuni perfezionamenti). Prima o poi si farà, ma Dan è un perfezionista assoluto, e non so se considererà mai il sito sufficientemente perfetto.

A proposito della doppia anima Web/cartacea, ho trovato interessante l’innesto di una pagina dove si segnalano gli articoli pubblicati su Domus Web.
Mi chiedo però, perché gli articoli sul cartaceo trasposti in rete non hanno una logica ‘editoriale’ Web?
Faccio un esempio per chiarezza: nel primo numero è stato pubblicato un articolo firmato da Beatriz Colomina dal titolo ‘Verso un architetto globale’,* articolo che nel cartaceo è stato studiato e impaginato con un sapiente innesto grafico per quanto riguarda le citazioni. Lo stesso articolo è stato pubblicato sul Web senza nessun accorgimento grafico, perdendo di leggibilità. 
In sintesi, perché invece di limitarvi a copia incollare sul web gli articoli della rivista, non li segnalate con una formula editoriale Web simile a quella ideata per il cartaceo? 

Per progettare e realizzare il sito abbiamo impiegato più di sei mesi di lavoro estremamente intenso di progettazione su come suddividere le sezioni, risolvere piccoli problemi di rimandi, collegamenti, struttura e gerarchia degli articoli. È stato un impegno rilevante svolto in mesi di lavoro molto tecnico e dettagliato, per non parlare di tutta la parte di codifica dei testi e del sito. D'altra parte, per ideare e affinare l’impianto grafico la Domus cartacea abbiamo impiegato, con i Salottobuono, poco più due mesi, perché quando fai una rivista di carta stai sostanzialmente prendendo delle scelte, delle direttive macroscopiche che hai sempre l'opportunità di trasgredire in qualsiasi momento. Ogni volta che prepari i vari layout dei contenuti hai l’opportunità di mettere in dubbio le idee di base, questo può succedere per ogni articolo senza che si compromettano le genericità dell’impianto ideativo.
Questa flessibilità sul Web è praticamente impossibile per il suo impianto rigido che è molto difficile da gestire sotto ogni aspetto e questa è una realtà con cui dobbiamo confrontarci.
Progettare una rivista Web è molto impegnativo, ciò che noi abbiamo cercato di fare con il nostro sito è di passare a un livello di qualità, di coerenza e di valore grafico più elevato possibile, più simile alla logica di una rivista, rispettando comunque il fatto che un sito Web deve essere cosituito sostanzialmente di template, di gabbie strutturali che vengono riempite e su cui si riversano dei contenuti.
Quest'aspetto è il secondo dei motivi perché reputo interessante la tua osservazione, ovvero l'emancipazione dai layout predefiniti. Alla fine le decisioni rispetto al web si scontrano sempre con delle logiche di economia: nessuno, neanche sui grandi quotidiani come il New York Times, è riuscito a capire del tutto come far quadrare i conti.

Sì, Domus è la prima rivista cartacea che usa il Web, non come una vetrina, ma come uno spazio attivo d’informazione.

Le esperienze Web più significative, fino ad ora, sono state quelle delle riviste che hanno emulato in qualche maniera la formula della blogosfera, come Abitare, con cui collaboravo prima di trasferirmi a Domus. Non credo ci sia una formula 'migliore' o 'peggiore': con Domus abbiamo cercato di fare una cosa diversa, tentando di trasporre sul Web la qualità storica e la tradizione critica e di approfondimento di una rivista cartacea, non basandolo unicamente sulle notizie veloci. È una scelta difficile, perché i numeri dimostrano che la formula del blog è quello che più di tutti garantisce traffico istantaneo. La nostra è una strategia più a lungo termine, basata sulla creazione di un database ricco di articoli approfonditi, e una struttura che permette di aggiungere progressivamente nuove edizioni in altri linguaggi, creando una piattaforma che sia un punto di riferimento globale per l’architettura e il design.

Infatti dicevo che siete stati la prima rivista che ha costruito il proprio spazio Web con la grafica e i contenuti da ‘rivista’ Web. Abitare è un ibrido tra un sito-vetrina con tutte le derive news e qualche spazio critico o rubrica con voce autonoma. 

Paradossalmente riviste come Domus che sono ancorate ad una storia pluridecennale, che in qualche maniera hanno vissuto l'ascesa e la storia del movimento modernista sin dall'inizio, si trovano in qualche maniera svantaggiati nella loro transizione sui nuovi media. Prima di tutto sono, agli occhi dei lettori, equiparati all'establishment antico, predigitale, e rischiano di essere percepiti come appartenenti ad un'altra era. Secondo, sono afflitti dalla tentazione di aggrapparsi alla tradizione, che spesso diventa un ostacolo all’innovazione. In questo bisogna riconoscere che l’editore è stata coraggiosa e ha abbracciato una formula non ovvia o scontata, marcando un ingresso deciso nell'era digitale che rispecchia più una strategia a lungo termine che sui risultati a breve. In questi mesi è evidente che se ne stanno accorgendo anche molti altri che senza una presenza web un cartaceo rischia di non esistere nella coscienza quotidiana dei lettori, e quindi di scomparire. Mark, ad esempio, ha appena lanciato un sito e un account Twitter.

Ovviamente mi riferivo al contesto italiano, anche se è vero che le riviste straniere hanno più dei siti ‘vetrina’ che riviste Web. Per l’Italia ho fatto un reportage che avvalora ciò che dico8, per le riviste straniere sto per finire il monitoraggio ma al momento ho rilevato lo stesso deficit italiano. 
Nessuno ancora ha pensato al sito Web come un’interfaccia creativa editoriale della rivista. Si pensa che il Web sia solo una ‘vetrina’. 

Ribadisco ci sono veramente poche riviste ‘storiche’ curate sul Web nel mondo. Ma questo quasi sicuramente cambierà. E sicuramente Domus è stata una delle prime. 

Con il numero 946 aprile 2011 inizia la direzione tradizionale di Domus, rileggendo questi quatto numeri mi è venuta in mente una tua osservazione del 2006:
«Quello che lei dice è vero – “contaminazioni” (in senso positivo) di correnti progettuali provenienti da lontano non mancano, cosa peraltro inevitabile se si considera la proliferazione di sorgenti di notizie e di immagini a disposizione dei progettisti. Più ancora che alle riviste, che del resto sono sempre le stesse, credo che questo sia dovuto a internet. Infinite informazioni, fatte su misura, disponibili immediatamente, se si sa cercare… Credo che la generazione di architetti emergenti faccia parte di una cultura progettuale globale, in cui ha sempre meno senso di pensare a influenze progettuali legati a luoghi specifici.»9
In ogni numero presenti poche architetture, massimo tre, di architetti eterogenei non sempre noti rilevando la loro collocazione urbana globale attraverso testi quasi narrativi, le foto anch'esse narrative e i disegni semplificati secondo lo stile di Salottobuono (per fortuna non esistono rendering).
Un lavoro minuzioso che cela il passaggio dalla celebrazione dell’architettura iconica dello scorso decennio a un’atomizzazione non più veicolata dall’accademia o dai critici dell’architettura a scala mondiale. 

Ci sono diversi motivi per cui presentiamo una selezione abbastanza ristretta di architetture. Il primo è che pensiamo che tutto quello che ci circonda sia architettura e sia ispirazione, e l'abilità di saper decodificare, leggere il paesaggio, le città, gli oggetti, le tendenze progettuali e culturali che ci stanno attorno sia di importanza primaria per il progettista. Domus è sempre stata una rivista di larghe vedute, che parte da una visione fortemente trasversale comprendente l'arte, l'architettura, il design, l'urbanistica, la paesaggistica per plasmare la sua visione del mondo; per chi preferisce una visione più ristretta, o più tecnica, o strettamente disciplinare, ci sono molte altre testate; Domus è una rivista per chi ha curiosità di sapere cosa succede oltre i confini della propria disciplina. In un'epoca in cui un'infinità di immagini è liberamente disponibile su web, credo che le riviste siano chiamate a rivendicare la loro identità peculiare, e questa trasversalità multidisciplinare è, a mio parere, sinonimo dell'identità storica che ha reso Domus quello che è.

Casabella, ad esempio, è caratterizzata da una grande uniformità stilistica: immagini molto codificate in un preciso linguaggio fotografico, disegni tecnici, e testi che in larga misura ripropongono i codici canonici della critica dell'architettura convenzionale, poche escursioni in discipline parallele. Di nuovo, non è un discorso di meglio o peggio; sono identità storiche diverse, che forse corrispondono a visioni generazionali diverse. A mio parere il rischio di formule di questo tipo è da una parte un distacco generazionale e future, che sono più onnivore e trasversali, abituati ad una dieta mediatica più onnivora, e dall'altra parte di essere vulnerabili rispetto all'ascesa del web, dove le immagini e documentazioni di ogni tipo e di ogni edificio abbondano. In ogni caso, noi apriamo sempre con un grande progetto di architettura, diamo nella rivista la prevalenza all'architettura, non cerchiamo di far finta che Domus sia una rivista che tratta qualcos’altro. Selezioniamo con enorme attenzione le architetture che pubblichiamo, preferendo quelle architetture che segnano un punto di progresso ed avanzamento nella pratica progettuale, in particolare se hanno una risonanza urbana, un pensiero progettuale originale, forte, inconsueto, non soltanto dal punto di vista formale ma anche tecnico o di procedura.

Il tema dei disegni è per noi molto importante: la saturazione delle immagini online ha indebolito, in qualche maniera, la forza di questo media, di mezzo che prima contraddistingueva l'eccellenza di una rivista, ormai tutti hanno l'accesso gratuito ad un enorme quantità d'immagini, con estrema facilità. D’altra parte la cosa che era un po’ uno standard e il sine qua non delle riviste, il disegno tecnico, essendo qualcosa che richiede un notevole impegno, è andato in qualche modo a nostro parere a scomparire fra le riviste più progressiste. Forse perché sono estremamente poche le riviste che si possono permettere l'impegno necessario per uniformare i disegni, ricondurli ad un unico codice grafico, riprodurli in scala, comprendere a fondo un edificio per poterlo rappresentare nei suoi dettagli. È questo secondo noi è uno dei fattori che contraddistingue la rivista Web dal cartaceo. Ecco perché il disegno ha una presenza forte; raramente pubblichiamo un’architettura senza i disegni, e ideologicamente siamo contrari alla progressiva svendita immaginifica, pittorica, dell’architettura che rischia di essere un effetto collaterale del web sulla carta. 

A proposito della seconda parte della precedente domanda? 

Se si pensa alle architetture sovietiche negli anni della guerra fredda, dai '60 agli ’80, perché ci affascinano così tanto? Perché rappresentano un periodo storico che a noi è completamente ignoto, a causa della barriera fisica e un’assenza di comunicazione tra Est e Ovest. Le riviste come Casabella e Domus sono state le prime a veicolare l’idea (peraltro profondamente insita nel modernismo stesso) di far conoscere, creare, in qualche maniera, l’architettura su scala globale, in cui le idee potessero essere riprese, riciclate, citate anche in contesti radicalmente diversi da quelli in cui erano nati.

In questo senso sono stati gli avi di questa architettura globale in cui ci riconosciamo oggi, dove un progettista di Melbourne può ritrovare una vicinanza, una simbiosi, una risonanza con il lavoro di un architetto di Atene piuttosto di uno che si trova a Forlì. Chiaro che ci sono variabili geoclimatiche di cui tener conto, ma culturalmente non esistono più le categorie di spazio geografico che siano traducibili in neo movimenti di carattere regionale, in questo senso credo che questa atomizzazione sia assolutamente in corso. Cerchiamo attraverso la selezione dei progetti anche di raccontare, narrare, quello che avviene nel nostro globo, non guardando con occhio geografico, e difficilmente selezioniamo delle architetture perché costruite in un determinato luogo, ma cerchiamo di coprire tutte le varie dimensioni e i diversi aspetti della narrazione architettonica.

Nel tuo terzo numero hai chiesto a Carlo Ratti di scrivere un articolo sul tema dell’architettura open source. Carlo Ratti ha proposto di editare collettivamente questa voce, come voce di Wikipedia. Pagina, successivamente, scritta insieme a Paola Antonelli, Adam Bly, Lucas Dietrich, Dan Hill, John Habraken, Alex Haw, John Maeda, Nicholas Negroponte, Hans Ulrich Obrist, Carlo Ratti, Casey Reas, Marco Santambrogio, Mark Shepard, Chiara Somajni e Bruce Sterling.
Riporto il finale per sintetizzare e riprenderne i contenuti: 
«Se gli edifici e le città di domani saranno come dei 'computer in cui vivere' (con le dovute scuse a Le Corbusier), OSArc [ndr Open Source Architecture] offre una struttura aperta e di collaborazione per la scrittura del loro sistema operativo.»10
Perché pensi che OSArc sia una sorta di manifesto del ventunesimo secolo? 

Uno degli aspetti che qualifica un manifesto come tale, è il fatto che prende atto, coagulizza, sedimenta, organizza, struttura un’idea che già esiste. Qualcosa che è già nell'aria, qualcosa che è preesistente. Difficilmente un manifesto può generare un movimento, generalmente avviene l’opposto. Il movimento esiste e il manifesto lo fa coagulare; il successo di ‘Delirious New York’ come manifesto retroattivo per Manhattan di Rem Koolhaas lo si deve al fatto che riesce ad organizzare delle idee preesistenti, e in qualche maniera credo che lo stesso valga per OSArc. Hai seguito l’ultima conferenza di Mark Zuckerberg, il fondatore di Facebook, di tre quattro giorni fa dove ha annunciato l’alleanza con Skype?
Mark Zuckerberg, «something awesome, 30 giugno 2011

Ha enunciato la legge dell’era sociale: ogni anno raddoppia la quantità d’informazione e di contenuti legati alla propria vita generalmente privata, che in media ogni utente pubblica sul Web.
Una crescita esponenziale che Zuckerberg ha misurato attraverso gli accessi su facebook.

Questo aspetto è molto interessante, una crescita esponenziale che in qualche maniera spazza via qualsiasi fenomeno del passato, se si pensa alla legge di Moore che dice che: «Le prestazioni dei processori raddoppiano ogni 18 mesi» l’idea che la quantità d’informazione che un individuo condivide raddoppia ogni anno, per molti aspetti è affascinante. E non può non avere un forte impatto su come viviamo, abitiamo le città, ma sopratutto i nostri atteggiamenti rispetto alla produzione di idee, al concetto di autorialità. Oggi abbiamo, sempre di più, questo desiderio di vivere in pubblico. Al di là dell’aspetto narcisistico, vanitoso, è estremamente interessante come il possesso e il mantenere il controllo di un'idea sia molto meno importante della collaborazione, della condivisione per le nuove generazioni. E per questo l'idea della produzione collettiva mi interessa molto. Come la conoscenza, ma non solo la conoscenza, gli strumenti, gli oggetti possono essere trasformati, se non creati, da un lavoro non autoriale. Anche se autoriale lo è comunque perché c’è il credito, il sito, il nome eccetera.

L’idea di fare un numero sull’open source è nata durante il salone del mobile, credo che sarà un meta-argomento, un metatema che percorrerà tutti i miei Domus, finché dura. La progettualità di oggi non può permettersi di non analizzare il mondo della creatività collettiva, è qualcosa che in qualche maniera il mondo dell’architettura sta cercando di celare.
L'approccio open source nel campo dei designer è già una realtà; come ti dicevo, durante il salone del mobile abbiamo visto una serie di progetti, alcuni dei quali sono stati pubblicati nel numero che hai citato, e lo hanno in qualche maniera ispirato. Nel campo urbanistico ci sono molti esempi di applicazione della metodologia progettuale open source.

Nel mondo dell'architettura invece c'è un enorme abisso. L’editoriale organizzato con Carlo Ratti editato su Wikipedia cercava di colmare questo vuoto cognitivo e ideologico. Era più una provocazione, non chiudiamo un tema definitivo, queste idee non rimarranno statiche. È un sassolino lanciato nello stagno che serve per porre la domanda, creare un tema, che cosa significa ‘progetto collaborativo’ per chi lavora in una scala architettonica?
Che cosa significa avere un approccio open source?
Forse non è tanto interessante a livello tecnico o processuale l'assemblaggio di un singolo edificio, m'interessa di più che cosa può significare l’uso a livello stilistico.
Come se l’architettura si allontanasse dalla costruzione con le forme, con le star, con l’autorialità come ultimo fine.
Forse questo è uno delle grandi promesse sottese nell'idea del tema operativo open source. Poiché si smonta la mitologia del progettista supremo, caratteristica oggi questionabile.

Ritornando alla tua vecchia frase «in cui ha sempre meno senso di pensare a influenze progettuali legate a luoghi specifici» e al manifesto open source, i libri di architettura più incisivi della seconda metà del secolo scorso sono stati dei racconti di viaggio o manifesti retroattivi dopo il viaggio (di cui parlavi prima):
  • 1972: D. Scott Brown et S. Izenour, Learning from Las Vegas, Cambridge (Mass.)
  • 1978: Rem Koolhaas, Delirious New York: A Retroactive Manifesto for Manhattan, Oxford University Press
  • 1996: Stefano Boeri e Gabriele Basilico, sezioni del paesaggio italiano, Art&
Forse l’ultimo di questi libri è una forzatura, quel lavoro è stato presentato alla biennale di architettura di Venezia. Era un viaggio per immagini, dopo aver individuato sei segmenti (ciascuna disegnava un rettangolo di km 50 per km 12) di territorio italiano dalle caratteristiche urbane molto simili, in luoghi diversi. Quel viaggio a piedi non voleva dimostrare, ma mostrare il complesso rapporto che c’è tra la città e il territorio, tra il costruito e la politica, tra la vitalità e l’idealizzazione, ponendo dubbi, invitando a riflettere, non nascondendosi dietro i fasti del passato spesso idealizzati e mai vissuti.  Robert Venturi nel suo libro scriveva: 
«Per un architetto, imparare dal paesaggio circostante, è un modo di essere rivoluzionario... la creatività dipende dall'osservare ciò che ci circonda.»11
Oggi a quel paesaggio circostante si aggiunge una dimensione che non può essere più trascurata, lo spazio delle interazioni cognitive Web, il Web è una realtà del nostro paesaggio.

L’idea del Web come paesaggio è interessante per alcuni aspetti, un paesaggio che non conosce distanze, ogni punto del Web è equidistante da ogni altro punto del Web, almeno dal punto di vista dell’utente. Ogni luogo è un indirizzo ed ogni indirizzo è equidistante dagli altri indirizzi. 
Riprendendo ciò che dice Venturi imparare dal paesaggio circostante è un modo di essere rivoluzionario. Credo che il tuo punto di vista sia giusto, forse manca qualcuno che in ambito architettonico sia in grado d'imparare dal paesaggio esistente in internet è molto interessante come tema, è una geografia a cui culturalmente non ci siamo adattati granchè. Nel lavoro di Manuel De Landa, Lieven de Cauter, Peter Sloterdijk, Bruno Latour e altri ci sono i germi di una sistematizzazione e una lettura spaziale della trasformazione, di come la tecnologia e la network culture stia cambiando il nostro spazio, rimane un divario netto rispetto al pensiero progettuale. L'accelerazione del cambiamento tecnologico, e l'ubiquità della connettività e dell'informazione è qualcosa con cui dobbiamo fare i conti sia a livello progettuale che politico. L'aspetto più interessante forse non è più capire come l’architetto possa imparare dal paesaggio fisico e per essere rivoluzionario, ma come riconoscere le opportunità in quella rivoluzione che sta già avvenendo davanti ai nostri occhi, intorno a noi a partire dai telefoni nelle nostre tasche: la rivoluzione dell'informazione.

Una volta si ipotizzava che internet avrebbe fatto acquisire un nuovo valore alla campagna, in quanto disconnesso dalla necessità di vicinanza fisica dalle persone, invece è successo proprio l’opposto. Nel momento in cui abbiamo avuto l'opportunità di scartare la necessità di essere fisicamente presenti nelle città per essere operativi, ci siamo addensati nelle città. C’è quindi da considerare un’altra geografia, di cui parla Kazys Varnelis: il paesaggio architettonico infrastrutturale del Web e delle reti, uno dei temi che reputo molto interessante, con cui ho fatto un’esperienza di ricerca allo Strelka*, la scuola di architettura e design di Mosca. Con i miei studenti abbiamo approfondito il tema della polarizzazione fra città e campagna; la città come entità paesaggio antropizzato per eccellenza e la campagna che paradossalmente sta diventando il dominio delle infrastrutture, un framework, un'intelaiatura che serve a sostenere le città fra di loro, città collegate da una fitta rete aerea paradossalmente in declino.

La ricerca di uno studente, in particolare, ha illustrato questo cambiamento epocale nel paesaggio a partire dall'enumerazione degli aeroporti della ex-Unione Sovietica. Verso la fine dell’era sovietica c’erano 3500 aeroporti in tutta ‘l’Unione Sovietica’, oggi ce ne sono 92. Un dato che ci spiega la convergenza verso l’urbanità, che procede come un'agglomerazione intorno a pochi aeroporti. Il modello dell'ex unione sovietica era un modello di città diffuse, dove la mobilità interna serviva ad occupare con una sorta di copertura uniforme il territorio. Il modello attuale di libero mercato ha invertito il vecchio modello c'è in atto un'occupazione dello spazio polarizzato, in cui ci sono luoghi di grande densità, di grande accumulo di presenze umane e di strutture fisiche che li contengono, lo spazio oltre la città è un territorio vago, sconosciuto, infrastrutturalizzato. Uno dei siti che abbiamo esaminato con gli studenti di Strelka è NADYM, un sito all'intersezione di due gasdotti ad ovest della Siberia in mezzo ad una tundra completamente desolata. Il caso vuole che proprio nel punto di quest’intersezione passa l’80% di tutto il gas utilizzato dall'Europa. È un sito di 'infrastruttura critica'12, di importanza fondamentale per l'economia e la sicurezza europea, per quanto sia assolutamente desolato, sconosciuto. Ogni volta che tu accendi il gas e prepari il caffè, l’energia che serve per fare il caffè è passata attraverso questo piccolo spazio sconosciuto nell'ovest della Siberia. Questa assoluta ignoranza che abbiamo delle geografie che supportano la nostra vita quotidiana è sintomatica del divario cognitivo che si è creato con i territori extraurbani. Con gli studenti di Mosca dello Strelka e il fotografo Armin Linke,* siamo andati in elicottero a visitare questo sito, sorvolando la croce d'intersezione dei due gasdotti.
Armin Linke, The Cross, NADYM (Siberia occidentale), 2011
È un po' come se vivessimo sotto la cupola del Truman Show: nel suo interno continua la vita urbana, ignara delle sovrastrutture che lo proteggono; uscendo fuori da questo guscio diviene evidente l'impalcato che sorregge la città. È un tema che mi affascina molto: gli spazi sconosciuti, gli spazi completamente ignorati, interstiziali, depopolati. Enormi geografie che contengono le sovrastrutture e impalcature che sorreggono la nostra vita quotidiana, di cui siamo completamente ignoranti. Spazi critici per l'esistenza moderna, con i quali siamo in contatto ogni giorno, inconsciamente, senza saperlo e che a loro volta sono molto vicini a noi, ma non li percepiamo neanche. 

Direi che possiamo finire qui. 

Grazie Salvatore. 


9 gennaio 2012
Intersezioni ---> MONDOBLOG
__________________________________________
Note:
1 Redazionale, Clip Stamp Fold. L'architettura delle piccole testate 196x-197x, Domus n.897, Novembre 2006, p.76.
2 Ha iniziato ad occuparsi di Domus (web e cartacea) a 33 anni durante il periodo di trasinzione diretto da Alessandro Mendini. Con il numero 946 dell'aprile del 2011 inizia ufficialmente la sua direzione.
3 Le edizioni locali* di Domus sono: cinese (60 numeri), russa (editi 32 numeri), araba (26 numeri), israeliana (16 numeri), centro america e caraibica (3 numeri) e infine la nuova versione indiana (1 numero).

4 Ivan Berni, Signora, gradisce un brand? - Intervista a Giovanna Mazzocchi Bordone, presidente dell’Editoriale Domus, Prima n. 411, novembre 2010 *
5 In realtà il concetto della 'generazione erasmus'  è da anni un tema dibattutto.
Sulla nascita del neologismo ho chiesto a Davide Faraldi autore del libro Generazione Erasmus, Alberti, 2008*.
Ecco la sua risposta:

«Buongiorno,
in tutta onestà devo ammettere la mia ignoranza sul coniatore del termine "Generazione Erasmus". Quando nel 2007 firmai il contratto con la Aliberti non ne avevo mai sentito parlare e alle richieste della casa editrice per inserire nel titolo (che originariamente era "E adesso cosa fai?") il termine erasmus proposi il termine Generazione Erasmus, pensando fosse originale. Poche settimane dopo l'uscita del libro, scoprii l'esistenza di un raccolta di racconti scritta da Lorenzo Moroni nel 2003 per una piccola casa editrice, intitolata proprio "Generazione Erasmus". Quindi mi sembra doveroso cedere quantomeno a lui il primato di averlo utilizzato. In ogni caso, credo che la Generazione Erasmus nasca col trattato di Shenghen. Mi spiace non averla potuta aiutare maggiormente.
Grazie per avermi contattato
a presto
Davide Faraldi.»
Gli accordi di Schengen entrano in vigore in Italia il 26 ottobre del 1997* data che possiamo riferire come l'inzio formativo ed educativo della 'Generazione Erasmus'.
6 Luciano Fabro, Attaccapanni, 1978, p. 109.
7 Redazionale, Intervista a Salottobuono, Domusweb, 16 maggio 2011 *
8 Salvatore D'Agostino, 0030 [MONDOBLOG] Sui blog e i siti delle riviste di architettura, Wilfing 
Architettura, 10 giugno 2010.*
9 Arcomai, INTERFACCIA/interface | MOSTRA / ARCHITETTURA CONTEMPORANEA ALTOATESINA di Joseph Grima e Nicola Desiderio, 09 febbraio 2006. *
10 Editoriale Domus n. 948, giugno 2011, p. II
11 Robert Venturi, Denise Scott Brown, Steven Izenour, Imparare da Las Vegas - Il simbolismo dimenticato della forma architettonica, a cura di Manuel Orazi, Traduzione di Maurizio Sabini, Quodlibet Abitare, 2010
12 Su questo tema leggi Geoff Manaugh, Wilileaks guide, Domus n. 948, giugno 2011, pp. 62-67

L'intervista fatta l'otto luglio del 2011 è stata rivista e aggiornata l'otto gennaio del 2012.
Foto iniziale Giò Ponti e Gianni Mazocchi nel 1978 tratta da Domus, n. 897, Novembre 2006, p.57.
La foto animata è composta da frammenti di screenshot scattati durante l'intervista fatta su Skype da Salvatore D'Agostino.
La foto finale è di Armin Linke*.