english text
«Parole - scriveva Gabriele Mastrigli - può soltanto essere un immenso testo/territorio che rinuncia a “mettere le cose al loro posto”.»1
Parole resta ancora un’eccezione nel panorama del web di architettura che insiste a scrivere sulla pagina digitale come se fosse un foglio di carta. Ne ho parlato con Andrea Balestrero e Fabrizio Gallanti tra gli autori di Parole.
Salvatore D’Agostino «Gli uomini non hanno mai abitato il mondo, - osservava nel 1991 Umberto Galimberti2 – ma sempre e solo la descrizione che di volta in volta la religione, la filosofia, la scienza hanno dato del mondo» prospettando nel suo libro ‘Parole nomadi’ un cambiamento dell’etica delle parole, non più specchio di un io legato al territorio o alla proprietà, ma di un io costretto a confrontarsi con la differenza e la diversità di un nuovo paesaggio etico senza più confini.
«Anche queste parole si sono fatte nomadi, non più mete dell’intenzione dell’azione umana, ma doni del paesaggio che ha reso l’uomo viandante senza meta, perché è il paesaggio stesso la meta, basta percepirlo, sentirlo, accoglierlo nell'assenza spaesante del suo senza-confine.»3
Parole inizia da questa premessa?
Andrea Balestrero Non ne conosco il contesto, ma mi sembra che in questo pensiero di Galimberti così estrapolato ci sia qualche contraddizione. Francamente lo trovo un po' confuso.
Personalmente tendo a pensare religione, filosofia e scienza come invenzioni, fatte di parole, che gli uomini associano ad una realtà che comunque in qualche modo esiste, anche se certamente non è concepibile e men che meno comunicabile se non attraverso il filtro del linguaggio. Le parole sono uno strumento per il dominio del mondo e degli altri uomini, non una necessità vitale. Già il fatto stesso di parlare della realtà fisica in termini di "paesaggio" mi sembra un atteggiamento foriero di disastri.
Andrea Balestrero Non ne conosco il contesto, ma mi sembra che in questo pensiero di Galimberti così estrapolato ci sia qualche contraddizione. Francamente lo trovo un po' confuso.
Personalmente tendo a pensare religione, filosofia e scienza come invenzioni, fatte di parole, che gli uomini associano ad una realtà che comunque in qualche modo esiste, anche se certamente non è concepibile e men che meno comunicabile se non attraverso il filtro del linguaggio. Le parole sono uno strumento per il dominio del mondo e degli altri uomini, non una necessità vitale. Già il fatto stesso di parlare della realtà fisica in termini di "paesaggio" mi sembra un atteggiamento foriero di disastri.
In ogni caso la costruzione di Parole nasceva come parte di una ricerca sugli strumenti di descrizione della città in ambito architettonico/urbanistico, molto poco filosofica. Eravamo interessati a mettere in discussione il repertorio piuttosto ristretto di strumenti disciplinari che ci era stato insegnato all'università.4 A quei tempi nell'insegnamento la tradizione italiana dell'analisi urbana era ancora piuttosto presente. Tra i corridoi della facoltà di Genova addirittura la faceva da padrone il pensiero di Saverio Muratori… sembra passato un secolo!
Quindi se le frasi che citi vogliono intendere che rispetto ad uno schema fatto di pochi concetti e dogmi, oggi l'interpretazione del mondo è un sistema più complesso e sfaccettato, beh sì! Parole parte da questa premessa.
Quindi se le frasi che citi vogliono intendere che rispetto ad uno schema fatto di pochi concetti e dogmi, oggi l'interpretazione del mondo è un sistema più complesso e sfaccettato, beh sì! Parole parte da questa premessa.
Fabrizio Gallanti Come scrive Andrea l'origine del progetto era in qualche modo di tipo linguistico. La sensazione allora (parliamo di un periodo tra 1995 e 2000) era che le trasformazioni accelerate della città fossero tali da determinare una rincorsa da parte di varie discipline che si lanciavano a coniare neologismi per tentare di descrivere il cambiamento. Vecchie categorie e termini erano obsoleti in poco tempo, per cui lo slang, i linguaggi tecnici, le terminologie professionali ci sembravano un campo di analisi interessante. Piuttosto che descrivere la città, volevamo descrivere le descrizioni della città. L'idea del dizionario derivava dalla sensazione, inoltre, che architettura e urbanistica fossero più lente di fotografia, geografia, antropologia e sociologia a guardare i nuovi territori delle metropoli mondiali. Soprattutto in Italia si parlava, sull'onda delle letture rossiane e grassiane (quando di qualità, perlomeno) o seguendo stanchi emuli di quelle teorie, ancora di tipologie, città storiche, contesto, piazze, mentre tutto ciò che si trovava al di là di un tessuto ottocentesco era invisibile agli occhi degli architetti e dei teorici. A rileggerle adesso, ipotesi come quelle di Marco Romano fanno quasi tenerezza nel loro tentativo donchisciottesco di pensare che un ritorno alla storia possa essere un futuro percorribile.
In questo senso l'obiettivo era di moltiplicare gli approcci alla città, attraverso uno strumento per sua natura in espansione come un dizionario aperto. Vale la pena sottolineare che parole arrivava prima di wikipedia, nel 2000, come versione digitale di una collezione di termini già iniziata nel 1995. Il progetto potrebbe sussistere e continuare a crescere, se ci fossero state le risorse per farlo, e in ogni caso negli ultimi anni sono stati pubblicati diversi dizionari analoghi al nostro, in Francia soprattutto,5 forse più robusti dal punto accademico ma talvolta meno inclusivi.
La frase di Galimberti, in qualche modo riflette la nostra attitudine, anche se questa si voleva più materialista e concreta e meno esoterica.
Nel suo ultimo saggio ‘Senza Architettura’, Pippo Ciorra, in un capitolo dedicato allo ‘spazio pubblico’, si auspica una maturazione di alcune esperienze italiane di confine tra arte relazionale e spazio urbano - citando voi come A12, Stalker, Studio azzurro e i recenti lavori di Alterazione video - per non rimanere esclusi dal dibattito internazionale e rispondere alla recente critica di ‘Gregotti & Co.’ di un impoverimento del linguaggio dell’architettura dovuto all'approccio interdisciplinare che spesso sconfina con l’arte.
«Installazione, partecipazione, evento, interazione, scambio, azione, programma, dialogo – sostiene Pippo Ciorra - sono quindi i nuovi vocaboli di un linguaggio politico dello spazio pubblico dentro il quale i termini architettonici tradizionali – piazza, strada, monumento ecc. – sembrano occupare uno spazio operativo sempre minore.»6
AB Discorsi come questo, guarda caso portati avanti da autori e critici di area diciamo "progressista", a me preoccupano sempre un po'. A parte il fatto che si mescolano in un gran calderone approcci molto diversi nelle modalità espressive e negli obiettivi, c'è sempre il rischio che lo spostamento dell'attenzione ai margini della disciplina aiuti a legittimare progetti senza qualità (tanto quel che conta è la partecipazione, l'animazione, la temporaneità...) quando non la totale assenza di progetto, assecondando le logiche speculative più bieche. Non stiamo parlando di arte pubblica in contesti anglosassoni o nord europei e in Italia abbiamo parecchi esempi recenti al riguardo. Da questo punto di vista, per come sono andate le cose, non vorrei che alla fine (a parole) Gregotti un po' di ragione ce l'avesse.
Per parte sua A12 ha sempre perseguito, certo anche attraverso interventi che esulano dai canoni tradizionali della disciplina, la qualità dello spazio fisico. Abbiamo cercato di ampliare e arricchire il linguaggio dell'architettura, spesso ripartendo dai suoi archetipi, non di sostituirlo con qualcos'altro.
D'altra parte è abbastanza evidente che se in Italia il dibattito sull'architettura continua a ruotare intorno a questioni come rispondere (ancora) ad una critica mossa da Gregotti l'esclusione dal dibattito internazionale è automatica. Le esperienze citate da Ciorra fanno riferimento soprattutto ad un periodo a cavallo del cambio di millennio in cui si affrontavano problemi che oggi, quanto ad urgenza, sono superati da altro. I soldi per allestimenti e installazioni sono sempre meno e molto presto è probabile che si tornerà a concentrarsi sui bisogni essenziali per la sopravvivenza e a dover lottare perché lo spazio pubblico resti tale.
FG Il problema della lettura di Ciorra, che in realtà mi ha fatto molto piacere, perché inattesa, è che utilizza il presente invece che il passato. Se si osserva con attenzione al panorama italiano esiste una traiettoria che inizia alla fine degli anni '60 con gruppi come Superstudio, Archizoom, Ufo o individui come Ugo La Pietra o Gianni Pettena, solo per citare i più immediati, che si è in qualche modo riaccesa nei primi anni '90, quando si assisteva ancora agli ultimi singhiozzi dei movimenti studenteschi (la Pantera è del '92) e che forse oggi è alla base anche delle attività di raggruppamenti come Baukuh o Salottobuono, che non nascono come studi professionali. Gli approcci, i contenuti e i risultati sono estremamente differenti e come sostiene Andrea non possono essere liquidati in poche righe. I nuovi vocaboli ai quali si riferisce Ciorra sono stati messi in circolazione già quarant'anni anni fa, mentre il lavoro a cavallo del 2000 di gruppo A12, Stalker, Cliostraat andrebbe analizzato nella precisa situazione della loro emersione. Riferendomi a gruppo A12, che conosco meglio avendone fatto parte sino al 2004, la traiettoria del collettivo credo sia esemplare di almeno due particolarità: la prima quella di appartenere al contesto culturale italiano, la seconda quella di lavorare a cavallo tra le discipline. Ma prima di affrontare la questione due parole su Gregotti: le colpe sono collettive. Le sue analisi sono spesso molto stimolanti ma si sottraggono sempre alla identificazione delle responsabilità delle quali lui e la sua generazione sono stati protagonisti. Ogni suo articolo o intervento identifica sempre un nemico esterno, causa di tutti i mali, ma mi chiedo come sia possibile che chi abbia diretto uno studio professionale prestigioso, insegnato per decenni allo IUAV e diretto riviste come Casabella e Rassegna (non a caso una accumulazione di cariche unica al mondo) non sia capace di costruire una disamina critica che includa anche il proprio ruolo. Il tono delle sue invettive è poi lesivo della stessa intelligenza dei contenuti: non ricordo un articolo positivo da parte sua negli ultimi dieci anni. Mi chiedo se non esista un certo cinismo da parte dei giornali che lo pubblicano, alla caccia della polemica a effetto, e se Gregotti non meriterebbe di essere consigliato meglio da chi lo circonda.
Ritornando a come io vedo il caso esemplare di gruppo A12, si può considerare sempre una lettura duplice, fatta di vantaggi e svantaggi. Aver operato in Italia e dall'Italia ha comportato dei vantaggi: innanzitutto l'università di massa prima delle riforme aveva permesso la costruzione di strumenti propri di lettura del reale, se non di vera e propria sopravvivenza, dove si mescolavano appunto contributi disciplinari molto diversi. Questi strumenti erano spesso antagonisti a ciò che la docenza forniva. Si assisteva allora a veri e propri processi di auto-educazione. Il fatto che ci si potesse laureare senza un progetto di architettura, che per molti è considerato un difetto, rappresentava una ricchezza perché ha formato generazioni di intellettuali piuttosto flessibili, che hanno poi operato a diverse scale e in diversi contesti. Paola Antonelli, la curatrice del design al MoMA coincide con questa lettura. Gruppo A12 accoppiava agli interessi specifici dell'architettura alla scala del dettaglio costruttivo (alcuni di noi avevano fatto il loro Erasmus o a Porto o a Barcellona) quelli di un approccio urbano e territoriale. Non va poi sottovalutato che tra i docenti a Genova c'erano personalità del calibro di Giancarlo De Carlo, Francesco Venezia e Stefano Boeri, al suo primo incarico di docenza e che per molti membri del gruppo è stato una controparte fondamentale. E figure come quelle di Edoardo Benvenuto o Ennio Poleggi permettevano di cogliere la varietà di approcci alla disciplina, assai meno monolitica che in altre scuole.
Essere in Italia però ha anche voluto dire mancare di un supporto e di una risposta. In tutti questi anni sono mancati critici e studiosi con i quali dialogare e immaginare una diffusione internazionale, come invece è avvenuto in Olanda con Hans Ibelings, Bart Lootsma, Ole Bouman o in Inghilterra grazie al ruolo attivo di un giornalismo intelligente sui quotidiani a larga diffusione. Soprattutto sono mancate istituzioni in grado di fornire un quadro di riferimento e di sostegno. L’università non ha mai neppure considerato l'ipotesi che la ricchezza di esperienze di questi gruppi potesse costituire materia di insegnamento e ricerca racchiusa com’è nel suo inesorabile declino che difende i membri di una casta. Non a caso A12 come gruppo ha insegnato a NABA, fuori dal circuito tradizionale, mentre i suoi membri o quelli di Stalker hanno ottenuto incarichi di docenza, ma a titolo personale. Musei, amministrazioni pubbliche, ministeri hanno offerto solamente occasioni sporadiche. Le riviste specializzate sarebbero pronte adesso a presentare il lavoro di quei gruppi (solo Abitare con Italo Lupi come direttore lo fece nel 2000, pubblicando un lungo dossier firmato da Boeri) ma allora vivevano delle code di un discorso già obsoleto. Oggi pubblicano Raumlabor, Exyzt, Ecosistema Urbano, Rotor, AAA che di quelle esperienze possiedono molti elementi comuni, ma che a causa di una storia che deve ancora essere scritta non possono essere letti all'interno di scenari più ampi.
Il vantaggio della condizione italiana si è tradotto in una pratica a cavallo tra discipline: l'attenzione alla condizione urbana e territoriale è stata alla base di numerose ricerche e progetti, che hanno destato l'interesse del mondo dell'arte. Questi non erano immaginati come opere d'arte in sé, ma come frammenti di un tentativo di descrizione e progetto della città contemporanea (parole è anche questo) ma le metodologie di studio e di espressione erano in sintonia con tendenze e traiettorie che in campo artistico erano in forte emersione nello stesso periodo. Intorno al 2000 gruppo A12 ha raggiunto una presenza ragguardevole, con mostre e realizzazioni un po' ovunque, Germania, Francia, Stati Uniti, Giappone, Cina, Olanda o Corea. È interessante come la partecipazione alla manifesta di Lubiana nel 2000 fosse dovuta a un curatore d'arte, Francesco Bonami e non a quello di architettura, Ole Bouman.
Questa oscillazione, un elemento ovviamente speciale ha contenuto anche i germi di una condizione paradossale: se gruppo A12 avesse deciso di migrare completamente nel campo dell'arte, avrebbe potuto installarsi altrove a Berlino o a New York, come hanno fatto, con successo molti artisti italiani.
Per parte sua A12 ha sempre perseguito, certo anche attraverso interventi che esulano dai canoni tradizionali della disciplina, la qualità dello spazio fisico. Abbiamo cercato di ampliare e arricchire il linguaggio dell'architettura, spesso ripartendo dai suoi archetipi, non di sostituirlo con qualcos'altro.
D'altra parte è abbastanza evidente che se in Italia il dibattito sull'architettura continua a ruotare intorno a questioni come rispondere (ancora) ad una critica mossa da Gregotti l'esclusione dal dibattito internazionale è automatica. Le esperienze citate da Ciorra fanno riferimento soprattutto ad un periodo a cavallo del cambio di millennio in cui si affrontavano problemi che oggi, quanto ad urgenza, sono superati da altro. I soldi per allestimenti e installazioni sono sempre meno e molto presto è probabile che si tornerà a concentrarsi sui bisogni essenziali per la sopravvivenza e a dover lottare perché lo spazio pubblico resti tale.
FG Il problema della lettura di Ciorra, che in realtà mi ha fatto molto piacere, perché inattesa, è che utilizza il presente invece che il passato. Se si osserva con attenzione al panorama italiano esiste una traiettoria che inizia alla fine degli anni '60 con gruppi come Superstudio, Archizoom, Ufo o individui come Ugo La Pietra o Gianni Pettena, solo per citare i più immediati, che si è in qualche modo riaccesa nei primi anni '90, quando si assisteva ancora agli ultimi singhiozzi dei movimenti studenteschi (la Pantera è del '92) e che forse oggi è alla base anche delle attività di raggruppamenti come Baukuh o Salottobuono, che non nascono come studi professionali. Gli approcci, i contenuti e i risultati sono estremamente differenti e come sostiene Andrea non possono essere liquidati in poche righe. I nuovi vocaboli ai quali si riferisce Ciorra sono stati messi in circolazione già quarant'anni anni fa, mentre il lavoro a cavallo del 2000 di gruppo A12, Stalker, Cliostraat andrebbe analizzato nella precisa situazione della loro emersione. Riferendomi a gruppo A12, che conosco meglio avendone fatto parte sino al 2004, la traiettoria del collettivo credo sia esemplare di almeno due particolarità: la prima quella di appartenere al contesto culturale italiano, la seconda quella di lavorare a cavallo tra le discipline. Ma prima di affrontare la questione due parole su Gregotti: le colpe sono collettive. Le sue analisi sono spesso molto stimolanti ma si sottraggono sempre alla identificazione delle responsabilità delle quali lui e la sua generazione sono stati protagonisti. Ogni suo articolo o intervento identifica sempre un nemico esterno, causa di tutti i mali, ma mi chiedo come sia possibile che chi abbia diretto uno studio professionale prestigioso, insegnato per decenni allo IUAV e diretto riviste come Casabella e Rassegna (non a caso una accumulazione di cariche unica al mondo) non sia capace di costruire una disamina critica che includa anche il proprio ruolo. Il tono delle sue invettive è poi lesivo della stessa intelligenza dei contenuti: non ricordo un articolo positivo da parte sua negli ultimi dieci anni. Mi chiedo se non esista un certo cinismo da parte dei giornali che lo pubblicano, alla caccia della polemica a effetto, e se Gregotti non meriterebbe di essere consigliato meglio da chi lo circonda.
Ritornando a come io vedo il caso esemplare di gruppo A12, si può considerare sempre una lettura duplice, fatta di vantaggi e svantaggi. Aver operato in Italia e dall'Italia ha comportato dei vantaggi: innanzitutto l'università di massa prima delle riforme aveva permesso la costruzione di strumenti propri di lettura del reale, se non di vera e propria sopravvivenza, dove si mescolavano appunto contributi disciplinari molto diversi. Questi strumenti erano spesso antagonisti a ciò che la docenza forniva. Si assisteva allora a veri e propri processi di auto-educazione. Il fatto che ci si potesse laureare senza un progetto di architettura, che per molti è considerato un difetto, rappresentava una ricchezza perché ha formato generazioni di intellettuali piuttosto flessibili, che hanno poi operato a diverse scale e in diversi contesti. Paola Antonelli, la curatrice del design al MoMA coincide con questa lettura. Gruppo A12 accoppiava agli interessi specifici dell'architettura alla scala del dettaglio costruttivo (alcuni di noi avevano fatto il loro Erasmus o a Porto o a Barcellona) quelli di un approccio urbano e territoriale. Non va poi sottovalutato che tra i docenti a Genova c'erano personalità del calibro di Giancarlo De Carlo, Francesco Venezia e Stefano Boeri, al suo primo incarico di docenza e che per molti membri del gruppo è stato una controparte fondamentale. E figure come quelle di Edoardo Benvenuto o Ennio Poleggi permettevano di cogliere la varietà di approcci alla disciplina, assai meno monolitica che in altre scuole.
Essere in Italia però ha anche voluto dire mancare di un supporto e di una risposta. In tutti questi anni sono mancati critici e studiosi con i quali dialogare e immaginare una diffusione internazionale, come invece è avvenuto in Olanda con Hans Ibelings, Bart Lootsma, Ole Bouman o in Inghilterra grazie al ruolo attivo di un giornalismo intelligente sui quotidiani a larga diffusione. Soprattutto sono mancate istituzioni in grado di fornire un quadro di riferimento e di sostegno. L’università non ha mai neppure considerato l'ipotesi che la ricchezza di esperienze di questi gruppi potesse costituire materia di insegnamento e ricerca racchiusa com’è nel suo inesorabile declino che difende i membri di una casta. Non a caso A12 come gruppo ha insegnato a NABA, fuori dal circuito tradizionale, mentre i suoi membri o quelli di Stalker hanno ottenuto incarichi di docenza, ma a titolo personale. Musei, amministrazioni pubbliche, ministeri hanno offerto solamente occasioni sporadiche. Le riviste specializzate sarebbero pronte adesso a presentare il lavoro di quei gruppi (solo Abitare con Italo Lupi come direttore lo fece nel 2000, pubblicando un lungo dossier firmato da Boeri) ma allora vivevano delle code di un discorso già obsoleto. Oggi pubblicano Raumlabor, Exyzt, Ecosistema Urbano, Rotor, AAA che di quelle esperienze possiedono molti elementi comuni, ma che a causa di una storia che deve ancora essere scritta non possono essere letti all'interno di scenari più ampi.
Il vantaggio della condizione italiana si è tradotto in una pratica a cavallo tra discipline: l'attenzione alla condizione urbana e territoriale è stata alla base di numerose ricerche e progetti, che hanno destato l'interesse del mondo dell'arte. Questi non erano immaginati come opere d'arte in sé, ma come frammenti di un tentativo di descrizione e progetto della città contemporanea (parole è anche questo) ma le metodologie di studio e di espressione erano in sintonia con tendenze e traiettorie che in campo artistico erano in forte emersione nello stesso periodo. Intorno al 2000 gruppo A12 ha raggiunto una presenza ragguardevole, con mostre e realizzazioni un po' ovunque, Germania, Francia, Stati Uniti, Giappone, Cina, Olanda o Corea. È interessante come la partecipazione alla manifesta di Lubiana nel 2000 fosse dovuta a un curatore d'arte, Francesco Bonami e non a quello di architettura, Ole Bouman.
Questa oscillazione, un elemento ovviamente speciale ha contenuto anche i germi di una condizione paradossale: se gruppo A12 avesse deciso di migrare completamente nel campo dell'arte, avrebbe potuto installarsi altrove a Berlino o a New York, come hanno fatto, con successo molti artisti italiani.
Parole al PS1 di New York
Ma volendo operare a partire dall'architettura, questo poteva essere fatto solamente con un forte radicamento locale (Rem Koolhaas ha deciso di aprire OMA a Rotterdam ed Herzog & de Meuron non si sono mossi da Basilea, per fare due esempi che chiariscono questo punto).
Più che di maturazione, che era già raggiunta dieci anni fa e che non a caso destava e continua a generare interesse credo che ci sia bisogno di una fase di studio storico e di analisi precisa di quelle traiettorie, per verificare quali possano essere ulteriormente sviluppate e arricchite. E senz'altro esisteva un’attitudine politica che andrebbe riletta: si trattava di misurare come e quando agire attraverso l’architettura per evitare che questa venisse appropriata per interessi particolari. Agire in maniera effimera e temporanea pareva allora una soluzione. Ma il capitalismo è rapido e spietato, e quelle che allora sembravano pratiche di resistenza, marginali, oggi sono diventate talvolta operazioni commerciali.
Perché Parole non viene più aggiornato?
AB Parole era nato come un esperimento, non con l'intento programmatico di creare uno strumento web sviluppabile per applicazioni concrete, cosa che avrebbe anche potuto essere. Forse non essere stati capaci di trasformare l'esperimento in qualcosa di più solido è stata un'occasione perduta. Sicuramente in un contesto come quello italiano creare le condizioni per farlo, ovvero riuscire a coinvolgere l'università o qualche altro istituto di ricerca, trovare finanziamenti ecc. non sarebbe stato facile. In ogni caso piano piano l'interesse per il progetto è stato soppiantato da altre cose.
FG Credo che semplicemente l’afflato volontaristico di riempire i campi del dizionario non potesse essere sostenibile su un periodo lungo. Sarebbe stato un ottimo progetto da mantenere attraverso qualche forma di ‘istituzionalizzazione’ con alcune risorse, umane ed economiche. Per molti aspetti è comunque rilevante, se qualcuno volesse riprenderlo, ne saremmo entusiasti.
8 maggio 2013
Più che di maturazione, che era già raggiunta dieci anni fa e che non a caso destava e continua a generare interesse credo che ci sia bisogno di una fase di studio storico e di analisi precisa di quelle traiettorie, per verificare quali possano essere ulteriormente sviluppate e arricchite. E senz'altro esisteva un’attitudine politica che andrebbe riletta: si trattava di misurare come e quando agire attraverso l’architettura per evitare che questa venisse appropriata per interessi particolari. Agire in maniera effimera e temporanea pareva allora una soluzione. Ma il capitalismo è rapido e spietato, e quelle che allora sembravano pratiche di resistenza, marginali, oggi sono diventate talvolta operazioni commerciali.
Perché Parole non viene più aggiornato?
AB Parole era nato come un esperimento, non con l'intento programmatico di creare uno strumento web sviluppabile per applicazioni concrete, cosa che avrebbe anche potuto essere. Forse non essere stati capaci di trasformare l'esperimento in qualcosa di più solido è stata un'occasione perduta. Sicuramente in un contesto come quello italiano creare le condizioni per farlo, ovvero riuscire a coinvolgere l'università o qualche altro istituto di ricerca, trovare finanziamenti ecc. non sarebbe stato facile. In ogni caso piano piano l'interesse per il progetto è stato soppiantato da altre cose.
FG Credo che semplicemente l’afflato volontaristico di riempire i campi del dizionario non potesse essere sostenibile su un periodo lungo. Sarebbe stato un ottimo progetto da mantenere attraverso qualche forma di ‘istituzionalizzazione’ con alcune risorse, umane ed economiche. Per molti aspetti è comunque rilevante, se qualcuno volesse riprenderlo, ne saremmo entusiasti.
8 maggio 2013
Intersezioni ---> MONDOBLOG
__________________________________________
Note:
1 Gabriele Mastrigli, Parole d'amore, arch’it, 18 maggio 2011. Link.
2 Umberto Galimberti, Parole nomadi, Feltrinelli, Milano, 2006, p. 9
3 op. cit., Umberto Galimberti, p. 10
4 Parole è frutto di un lavoro di ricerca collettivo di 7 membri di A12, tutti in tesi, a Genova, con Stefano Boeri come relatore. Laurea nel 1995.
5 C. Topalov, L. Coudroy de Ville, J-C. Depaule, B. Marin, L'aventure des mots de la ville à travers le temps, les langues, les sociétés, Robert Laffont, 2010. Qui per approfondire. Thierry Paquot , Denise Pumain , Richard Kleinschmager, Dictionnaire. La ville et l'urbain, Anthropos-Economica, 2006. Qui per approfondire.
1 Gabriele Mastrigli, Parole d'amore, arch’it, 18 maggio 2011. Link.
2 Umberto Galimberti, Parole nomadi, Feltrinelli, Milano, 2006, p. 9
3 op. cit., Umberto Galimberti, p. 10
4 Parole è frutto di un lavoro di ricerca collettivo di 7 membri di A12, tutti in tesi, a Genova, con Stefano Boeri come relatore. Laurea nel 1995.
5 C. Topalov, L. Coudroy de Ville, J-C. Depaule, B. Marin, L'aventure des mots de la ville à travers le temps, les langues, les sociétés, Robert Laffont, 2010. Qui per approfondire. Thierry Paquot , Denise Pumain , Richard Kleinschmager, Dictionnaire. La ville et l'urbain, Anthropos-Economica, 2006. Qui per approfondire.
6 Pippo Ciorra, Senza architettura, Laterza, Roma-Bari, 2011, p. 112
7 Il sito del 2000 era la nostra partecipazione alla biennale di architettura diretta da Massimiliano Fuksas, che aveva invitato Stalker e noi, senza neanche sapere bene cosa facessimo. Nasce nel web nel gennaio 2001.
7 Il sito del 2000 era la nostra partecipazione alla biennale di architettura diretta da Massimiliano Fuksas, che aveva invitato Stalker e noi, senza neanche sapere bene cosa facessimo. Nasce nel web nel gennaio 2001.
Nessun commento:
Posta un commento
Due note per i commenti (direi due limiti di blogspot):
1) Il commento non deve superare 4096 caratteri comprensivi di spazio. In caso contrario dividi in più parti il commento. Wilfing architettura non si pone nessun limite.
2) I link non sono tradotti come riferimento esterno ma per blogspot equivalgono a delle semplici parole quindi utilizza il codice HTML qui un esempio.