«Nel 1999 (sic ndr 1995) nasce «arch'it», diretta da Marco Brizzi, tuttora la più solida e conosciuta tra le riviste di architettura online con base in Italia. Non è secondario che «arch'it» nasca a Firenze e leghi il proprio nome fin da subito a un festival annuale di architettura e media («Image»). Sembra una pietra filosofale, il detonatore digitale è piazzato proprio nel cuore di una delle facoltà di architettura meno disponibili all'innovazione e in un colpo solo riesce a mettere nel mirino di uno sguardo «aperto e disincantato» anche i rapporti tra architettura e media […] La bomba esploderà avrà successo, anche se a qualche anno di distanza si può dire che certamente ha creato dei nuovi poteri ma forse non è riuscita che marginalmente a mettere in crisi il sistema di potere che sembrava essere in grado di indebolire più a fondo. È certamente riuscita, però, a produrre due fenomeni.Il primo è stato quello ovvio dell'emulazione, per cui negli anni successivi abbiamo dovuto assistere a un proliferare incontrollato di direttori self-appointed di riviste digitali, pronti a definirsi critici di architettura e spargere senza paura giudizi tranchant su questo e quel maestro e apprezzamenti quasi erotici su progetti di amici e conoscenti.Il secondo, potenzialmente più rilevante, è stato quello di «far crescere» una generazione di critici e aspiranti critici (o teorici) dell'architettura, che trovano finalmente sulle pagine di «arch'it» quello spazio e quella libertà di selezione dei contenuti che le riviste e i giornali non sembrano voler concedere.» (Pippo Ciorra)1
Nel novembre del 2010 fa scrivevo*:
«Dopo le ripetute incursioni nel mondo dei blog*, è arrivato il momento di mettere ordine tra le pagine scritte nel Web in questi anni.Cominciamo a rispondere alla domanda posta qualche tempo fa su questo blog: chi è stato il pioniere dei blog di architettura?*La risposta è: Marco Brizzi con la creazione di arch’it nel marzo 1995 (aveva appena compiuto 28 anni).2Arch’it è una semplice pagina bianca con pochi e chiari rimandi alle rubriche. In questi quindici anni ha ospitato gli scritti dei migliori critici/architetti - e non solo – italiani. Mantenendo un registro critico e disinteressandosi all’aspetto ‘virale’ di internet o ‘all'estetica Web' del momento. Usando la rete come pagina d’approfondimento e non come campo di una rivoluzione in corso.
Per Arch’it il web log ha la stessa radice della pagina cartacea: la scrittura.Di seguito il colloquio avvenuto nel pomeriggio del 14 luglio scorso con Marco Brizzi.
Salvatore D'Agostino Questa è un'homepage del 1998, l'anno del tuo inizio come direttore editoriale di arch'it.
Quando si iniziano dei percorsi si stilano, non dico dei manifesti, ma dei punti programmatici.
In questo caso le azioni sono state guidate in larga misura dalla spontaneità. Non un progetto editoriale vero e proprio, quindi, né qualcosa di simile. Per me arch'it si poneva in linea di continuità con lo spirito del gruppo che aveva fatto nascere quello spazio web nel 1995. Mi interessava mettere alla prova l'efficacia di alcuni temi. In questo senso, c'è stata una progressiva e variabile messa a punto delle idee; ed è questa, semmai, che ha descritto nel tempo un orientamento e, se vuoi, un percorso. Non ho sentito la necessità di produrre un manifesto. So che qualcuno è rimasto sorpreso nel non ritrovare sulle pagine di arch'it esplicite dichiarazioni che accompagnassero la mia conduzione.
Il tuo lavoro su arch'it è simile al lavoro di un editore poiché, benché rari siano i tuoi scritti, interessanti sono i contributi che in questi anni sei riuscito a far pubblicare. Su arch'it hai dato spazio ai maggiori critici sia emergenti e non, sei un catalizzatore e divulgatore - in senso positivo - del dibattito sull'architettura?
Questa considerazione è interessante.
Esistono nel Web velocità diverse e diverse capacità di propagazione. Non un catalogo se non il Web stesso, che costantemente ricostruisce i propri molteplici indici intorno alle preferenze e agli interessi dei suoi utenti. La critica può manifestarsi in zone più o meno 'calde' e costruire intorno a sé imprevisti ambiti di interesse e di applicazione. Credo che per poter cogliere quello che accade in quelli che tu chiami 'territori di energia latenti' occorra maturare maggiori duttilità e capacità di osservazione.
A proposito della convergenza del cartaceo con il Web, di recente, ho letto il libro di Marco Biraghi MMX Architettura zona critica e sono rimasto deluso dalla semplice trasposizione dei contenuti apparsi nel suo sito Gizmo.8 Un’operazione analogica.
Coltivare queste insoddisfazioni non può far che bene. Credo dovrebbero essere spinte al di là della ricerca delle configurazioni ideali o idealizzate riguardo agli usi dello spazio web. Gli strumenti e le forme di scrittura hanno una forte incidenza nella produzione dell'architettura. Il lavoro critico sull'editoria e sulle possibilità di pubblicazione dell'architettura è decisivo per la crescita della cultura del progetto. Questo atteggiamento trascende lo strumentario, benché aperto e formidabile, offerto da Internet. Occorre coltivarlo e incorporarlo nel pensiero progettuale.
Condivido e penso che possiamo chiudere con quest'auspicio.
Quali erano le idee guida di quegli anni?
Marco Brizzi Dove l’hai trovata, su archive punto org?
Sì.
Bella!
Marco Brizzi Dove l’hai trovata, su archive punto org?
Sì.
Bella!
Idee
guida vere e proprie, per arch'it, ho preferito non definirne. C'erano,
naturalmente, all'origine, delle scelte editoriali delle sensibilità,
delle ipotesi. E molte domande. Nel seguire il lavoro avviato dai miei
amici mi interessava sfruttare la Rete per misurarne la capacità
adattativa, per porre dei temi e delle questioni che altre forme
dell'editoria di architettura, in quel momento, non avevano interesse a
porre. Nell'Internet stavano nascendo diverse attitudini e mi sembrava
opportuno contribuire a stimolarle.
Quando si iniziano dei percorsi si stilano, non dico dei manifesti, ma dei punti programmatici.
In questo caso le azioni sono state guidate in larga misura dalla spontaneità. Non un progetto editoriale vero e proprio, quindi, né qualcosa di simile. Per me arch'it si poneva in linea di continuità con lo spirito del gruppo che aveva fatto nascere quello spazio web nel 1995. Mi interessava mettere alla prova l'efficacia di alcuni temi. In questo senso, c'è stata una progressiva e variabile messa a punto delle idee; ed è questa, semmai, che ha descritto nel tempo un orientamento e, se vuoi, un percorso. Non ho sentito la necessità di produrre un manifesto. So che qualcuno è rimasto sorpreso nel non ritrovare sulle pagine di arch'it esplicite dichiarazioni che accompagnassero la mia conduzione.
Il tuo lavoro su arch'it è simile al lavoro di un editore poiché, benché rari siano i tuoi scritti, interessanti sono i contributi che in questi anni sei riuscito a far pubblicare. Su arch'it hai dato spazio ai maggiori critici sia emergenti e non, sei un catalizzatore e divulgatore - in senso positivo - del dibattito sull'architettura?
Questa considerazione è interessante.
È vero, non mi sento di avere determinato un percorso rigoroso, semmai
ho cercato di fare spazio e di accomunare delle figure che, concordo con
te, ho avuto la fortuna di coinvolgere e che hanno contribuito alla
costruzione di arch’it, molto di più di quanto non abbia fatto io.
Credo che questo abbia a che fare con la 'naturalità' del percorso compiuto. Percorso tanto naturale che a volte si è atrofizzato, a volte si è sviluppato con maggiore impeto, a seconda delle occasioni e anche delle disponibilità di tempo e d'animo delle persone che hanno collaborato al progetto.
Ho avuto la fortuna di non dovere sottostare a delle regole di mercato editoriale, cosa che ha comunque penalizzato, probabilmente, alcuni aspetti della rivista.
Si tratta di un lavoro di gruppo. E sono davvero numerose le persone che hanno collaborato alla rivista in maniera molto spontanea e generosa.
Credo che questo abbia a che fare con la 'naturalità' del percorso compiuto. Percorso tanto naturale che a volte si è atrofizzato, a volte si è sviluppato con maggiore impeto, a seconda delle occasioni e anche delle disponibilità di tempo e d'animo delle persone che hanno collaborato al progetto.
Ho avuto la fortuna di non dovere sottostare a delle regole di mercato editoriale, cosa che ha comunque penalizzato, probabilmente, alcuni aspetti della rivista.
Arch’it è totalmente gratuita?
Si tratta di un lavoro di gruppo. E sono davvero numerose le persone che hanno collaborato alla rivista in maniera molto spontanea e generosa.
Rileggendo il tuo dialogo con Luigi Prestinenza Puglisi nel libro La generazione della rete ho avuto la sensazione che il giovane, cioè tu, cercava ti placare il web ottimismo del vecchio – anagraficamente - LPP.
Riprendo la riflessione finale:
«L'accademia si afferma anche alimentandosi con l'avanguardia, talvolta fagocitandola. Nessuno di noi vorrebbe che questa generazione, un po' come quella descritta da Roman Jakobson alla fine degli anni Venti, dissipasse i propri poeti. Poeti e non poeti, i progettisti qui presenti (ndr A12, amgod#n, Alessandro Carbone, Centola & Associati, Cliostraat, Greco Onori Oppici, HOV; ma0/emmeazero, Mantiastudio, Gianluca Milesi, nicole_fvr/2A+P, Spin+, Stalker e UFO) sono alla ricerca di ambiti di produttività, di campi d'indagine e di azione. Hanno avvicinamenti molto diversi ai problemi che abbiamo sommariamente discusso, hanno idee distinte e progettano secondo criteri disomogenei tra loro. Ad accomunarli qui è l'appartenenza a una generazione che, consapevolmente o meno, contribuisce alla definizione di un ambito di sviluppo dell'architettura connaturato alla cultura della rete.»3
A proposito di generazione e disomogeneità, due domande. La prima è un po' brutale, che fine ha fatto quella generazione della rete?
La domanda è importante. Effettivamente la sensazione che qualcosa stesse accadendo -e che, se non si fosse percepita l'importanza del momento, qualcosa si sarebbe irrimediabilmente perduta- la sottoscrivo. E credo che, osservando oggi i processi che si sono succeduti, qualcosa si sia definitivamente perso; si è perso il momento dell'entusiasmo, della scoperta, della volontà d'impossessarsi di strumenti nuovi, di argomenti nuovi da trasferire nel mondo dell'architettura. Questo è durato un certo periodo, forse dura ancora oggi in qualche misura, ma non siamo più negli anni delle grandi speranze, che farei corrispondere al quinquennio 1995-2000.
Che alcune delle figure che hanno familiarizzato con la Rete, frequentandola per farla diventare un'effettiva risorsa, hanno avuto la capacità di continuare il loro discorso e di farlo crescere. Il Web è materia duttile, non può essere oggettivata o considerata uno strumento in se stesso definito e concluso. Si tratta a tutti gli effetti di un ambiente che si arricchisce di idee, di interpretazioni, di significati, che si strutturano attraverso l'uso. Tornando alla tua domanda, alcuni gruppi hanno poi cambiato il loro percorso per poi trovare nuovi canali nei quali scorrere. Altri hanno smesso di ricercare. Qualcuno è scomparso. Ma tutto questo è nella natura delle cose. Non ho pensato mai, in fondo, -e credo che fosse già argomento del dialogo con Prestinenza- che la rete fosse un ambiente esclusivo e confortante.
La seconda la introduco con un aneddoto di Umberto Eco raccontato a Bologna il 15 maggio del 2011 (Costruire il nemico):
La domanda è importante. Effettivamente la sensazione che qualcosa stesse accadendo -e che, se non si fosse percepita l'importanza del momento, qualcosa si sarebbe irrimediabilmente perduta- la sottoscrivo. E credo che, osservando oggi i processi che si sono succeduti, qualcosa si sia definitivamente perso; si è perso il momento dell'entusiasmo, della scoperta, della volontà d'impossessarsi di strumenti nuovi, di argomenti nuovi da trasferire nel mondo dell'architettura. Questo è durato un certo periodo, forse dura ancora oggi in qualche misura, ma non siamo più negli anni delle grandi speranze, che farei corrispondere al quinquennio 1995-2000.
Che cosa è successo dopo?
Che alcune delle figure che hanno familiarizzato con la Rete, frequentandola per farla diventare un'effettiva risorsa, hanno avuto la capacità di continuare il loro discorso e di farlo crescere. Il Web è materia duttile, non può essere oggettivata o considerata uno strumento in se stesso definito e concluso. Si tratta a tutti gli effetti di un ambiente che si arricchisce di idee, di interpretazioni, di significati, che si strutturano attraverso l'uso. Tornando alla tua domanda, alcuni gruppi hanno poi cambiato il loro percorso per poi trovare nuovi canali nei quali scorrere. Altri hanno smesso di ricercare. Qualcuno è scomparso. Ma tutto questo è nella natura delle cose. Non ho pensato mai, in fondo, -e credo che fosse già argomento del dialogo con Prestinenza- che la rete fosse un ambiente esclusivo e confortante.
La seconda la introduco con un aneddoto di Umberto Eco raccontato a Bologna il 15 maggio del 2011 (Costruire il nemico):
«Anni fa a New York sono capitato con un tassista dal nome di difficile decifrazione, e mi ha chiarito che era pakistano. Mi ha chiesto da dove venivo, gli ho detto dall'Italia, mi ha chiesto quanti siamo ed è stato colpito che fossimo così pochi e che la nostra lingua non fosse l'inglese.
Infine mi ha chiesto quali sono i nostri nemici. Al mio "prego?" ha chiarito pazientemente che voleva sapere con quali popoli fossimo da secoli in guerra per rivendicazioni territoriali, odi etnici, continue violazioni di confine, e così via. Gli ho detto che non siamo in guerra con nessuno. Pazientemente mi ha spiegato che voleva sapere quali sono i nostri avversari storici, quelli che loro ammazzano noi e noi ammazziamo loro. Gli ho ripetuto che non ne abbiamo, che l'ultima guerra l'abbiamo fatta cinquanta e passa anni fa, e tra l'altro iniziandola con un nemico e finendola con un altro.
Non era soddisfatto. Come è possibile che ci sia un popolo che non ha nemici?
Sono sceso lasciandogli due dollari di mancia per compensarlo del nostro indolente pacifismo, poi mi è venuto in mente che cosa avrei dovuto rispondergli, e cioè che non è vero che gli italiani non hanno nemici. Non hanno nemici esterni, e in ogni caso non sono mai in grado di mettersi d'accordo per stabilire quali siano, perché sono continuamente in guerra tra di loro, Pisa contro Livorno, Guelfi contro Ghibellini, nordisti contro sudisti, fascisti contro partigiani, mafia contro stato, governo contro magistratura – e peccato che all'epoca non ci fosse ancora stata la caduta del secondo governo Prodi altrimenti avrei potuto spiegargli meglio cosa significa perdere una guerra per colpa del fuoco amico.»4
Non
credi che gli architetti italiani, nel loro farsi la guerra, siano
stati sempre - aggiungo fortunatamente - disomogenei? O meglio non credi
che la bellezza dell’architettura italiana dipenda dalla sua
frammentaria identità?
Trovo l'esempio molto appropriato e mi convince la tua ipotesi. La nostra identità ha anche a che fare con l'atteggiamento individualistico che si ritrova anche negli ambienti dell'architettura. Può darsi, allora, che la caleidoscopica frammentarietà che descrive l'architettura in Italia si ricomponga poi sotto forma di una figura cangiante. Inafferrabile e incerta al punto da indurre ancora qualcuno a pensare che questo Paese sia favorevole alla progettualità. A me, in fondo, piace pensare che sia così. Eppure questo individualismo non si traduce in una vera e propria conflittualità. La necessità del nemico sulla quale si è soffermato recentemente Eco potrebbe anche offrire occasioni di confronto e di crescita culturale.
Trovo l'esempio molto appropriato e mi convince la tua ipotesi. La nostra identità ha anche a che fare con l'atteggiamento individualistico che si ritrova anche negli ambienti dell'architettura. Può darsi, allora, che la caleidoscopica frammentarietà che descrive l'architettura in Italia si ricomponga poi sotto forma di una figura cangiante. Inafferrabile e incerta al punto da indurre ancora qualcuno a pensare che questo Paese sia favorevole alla progettualità. A me, in fondo, piace pensare che sia così. Eppure questo individualismo non si traduce in una vera e propria conflittualità. La necessità del nemico sulla quale si è soffermato recentemente Eco potrebbe anche offrire occasioni di confronto e di crescita culturale.
La crisi che affligge le nostre
facoltà di architettura, per fare un esempio, è una crisi culturale. Al
di là dell'implosione strutturale che le sta coinvolgendo -è di questi
giorni la dibattuta questione di Palermo5- i luoghi dove si
insegna l'architettura in Italia sono spesso carenti di programma e
incapaci di una reale competitività. L'assenza, o la mancata
identificazione, di un "nemico" contro il quale le giovani generazioni
dovrebbero in qualche modo disporsi non alimenta dei nuovi percorsi
culturali.
Nella recente Festarch di giugno 2011* e a Firenze all'interno dell'evento pensare spazi contemporanei* a luglio 2011 insieme a Derrick de Kerckhove, Stefano Boeri, Luigi Prestinenza Puglisi, Joseph Grima, Marco Biraghi, Pietro Valle ed Elisa Poli avete riflettuto sull'apporto delle nuove tecnologie di comunicazione nell'architettura.
Nella recente Festarch di giugno 2011* e a Firenze all'interno dell'evento pensare spazi contemporanei* a luglio 2011 insieme a Derrick de Kerckhove, Stefano Boeri, Luigi Prestinenza Puglisi, Joseph Grima, Marco Biraghi, Pietro Valle ed Elisa Poli avete riflettuto sull'apporto delle nuove tecnologie di comunicazione nell'architettura.
Che cosa è emerso?
Ho partecipato a uno degli incontri di Festarch, intitolato Architecture and New Media, con Joseph Grima, Stefano Boeri e Derrick de Kerckhove. Ho sentito di dover in qualche modo interpretare il messaggio che Joseph Grima aveva proposto nella sua triplice occasione dei "Critical Futures Debates" che aveva organizzato con Domus a Londra, Milano e New York. In quelle occasioni -tu sei consapevole di cosa si sta parlando perché hai partecipato all'incontro milanese- ricorreva l'interrogativo sulla capacità della Rete, in particolare dei blogger, di reinterpretare o ridefinire il ruolo della critica di architettura. Questo era il tema che mi sembrava più importante da discutere, tant'è che lo ho poi riproposto insieme a Elisa Poli in occasione del ciclo di incontri PENSARE SPAZI CONTEMPORANEI, chiedendo agli ospiti di discutere "dove si annida la critica". Mi sono domandato questo, forse ingenuamente, alla ricerca dei dispositivi critici più convincenti realizzati in Rete. La sensazione è che, specialmente se si guarda agli autori italiani, la qualità sia alterna e solo occasionalmente convincente. Non so se sei d'accordo con me su questo punto, ma ho l'impressione che spesso, dalle nostre parti, l'editoria di architettura in generale e il Web in particolare siano usati come mezzi di espressione di un protagonismo personale.
A tal proposito ho svolto una ricerca, perché penso che prima di elaborare una critica, bisogna guardarsi intorno, conoscere ciò che sta avvenendo e in questo caso percorrere la Rete.
Si
tratta di iniziative assai diverse per forma e dimensione. Ma forse le
accomuna una certa attenzione al discorso che l'architettura può
sviluppare nella città contemporanea. Il festival diretto da Stefano
Boeri e che si è recentemente spostato a Perugia ha intimamente a che
fare con il tema mediatico, anche se non lo affronta in maniera
esclusiva così come invece fa BEYOND MEDIA,* la manifestazione da me
diretta a Firenze e dedicata, dal 1997, all'esplorazione del rapporto
tra architettura e media. Al contempo, il programma PENSARE SPAZI
CONTEMPORANEI,* che ti ringrazio di avere preso in considerazione, è un
progetto più errabondo: da una parte si preoccupa del ruolo della
critica nell'architettura e dall'altra cerca di mettere in discussione e
di frantumare il senso, o quello che resta di un senso sovente
svuotato, di alcune parole che ricorrono in pubblicazioni di
architettura.
Purtroppo in rete non
ho trovato nessun approfondimento, neppure una sintesi su Abitare,
promotrice di uno dei due incontri. M'interessa capire quello che è
emerso.
Ho partecipato a uno degli incontri di Festarch, intitolato Architecture and New Media, con Joseph Grima, Stefano Boeri e Derrick de Kerckhove. Ho sentito di dover in qualche modo interpretare il messaggio che Joseph Grima aveva proposto nella sua triplice occasione dei "Critical Futures Debates" che aveva organizzato con Domus a Londra, Milano e New York. In quelle occasioni -tu sei consapevole di cosa si sta parlando perché hai partecipato all'incontro milanese- ricorreva l'interrogativo sulla capacità della Rete, in particolare dei blogger, di reinterpretare o ridefinire il ruolo della critica di architettura. Questo era il tema che mi sembrava più importante da discutere, tant'è che lo ho poi riproposto insieme a Elisa Poli in occasione del ciclo di incontri PENSARE SPAZI CONTEMPORANEI, chiedendo agli ospiti di discutere "dove si annida la critica". Mi sono domandato questo, forse ingenuamente, alla ricerca dei dispositivi critici più convincenti realizzati in Rete. La sensazione è che, specialmente se si guarda agli autori italiani, la qualità sia alterna e solo occasionalmente convincente. Non so se sei d'accordo con me su questo punto, ma ho l'impressione che spesso, dalle nostre parti, l'editoria di architettura in generale e il Web in particolare siano usati come mezzi di espressione di un protagonismo personale.
A tal proposito ho svolto una ricerca, perché penso che prima di elaborare una critica, bisogna guardarsi intorno, conoscere ciò che sta avvenendo e in questo caso percorrere la Rete.
Attraverso lo strumento inchiesta, ho aperto un'indagine inclusiva di voci della blogosfera inerente l’architettura italiana.* Ciò che ne emerso è complesso e variegato, richiederebbe una risposta elaborata. Ti sintetizzo due temi sottesi ma contrastanti tra di loro.
Il primo tema è quello che Mario Perniola chiama degli incazzati in pigiama6. La rete italiana,
specialmente negli ultimi cinque anni, si è rispecchiata nel peggio dei
media generalisti tradizionali che spesso avallano e rilanciano i
blogger incazzati in pigiama, ad esempio il blog di ‘Beppe Grillo’ e similari; blogger ormai
diventati dei professionisti della rete, che difficilmente attivano
delle sinergie positive, con contenuti soventi bloccati su parole
chiave, nel caso dell'architettura sono: archistar, centro storico,
periferia, non luogo, effetto x, y e z, ecomostro, bioX o ecoX, contro A
o contro B, eccetera.
I numeri, sia
di copie vendute che di accessi, sembrano premiare questo tipo
d'informazione incapace di analizzare, approfondire, rilevare ciò che ci
succede intorno.
I blog, reiterando i titoli urlanti dei giornali, si dimenticano di osservare il sottobosco creativo e meno frignante che esiste e resta invisibile.
I blog, reiterando i titoli urlanti dei giornali, si dimenticano di osservare il sottobosco creativo e meno frignante che esiste e resta invisibile.
Il
secondo tema è costituito dai blog (anche temporanei) che vengono letti
forse da pochi lettori ma, come ricordava il direttore del Censis,7 gestite spesso da persone che si ostinano a non omologarsi al peggio e, dal mio punto di vista, stanno producendo ricchezza.
Temo che i critici, in questo momento storico, non riescano ad osservare questi territori di energia latenti, pensano che la Rete sia costituita solo dagli incazzati in pigiama e dimenticandosi di osservare i percorsi blogger più lenti e rilevanti.
Temo che i critici, in questo momento storico, non riescano ad osservare questi territori di energia latenti, pensano che la Rete sia costituita solo dagli incazzati in pigiama e dimenticandosi di osservare i percorsi blogger più lenti e rilevanti.
Esistono nel Web velocità diverse e diverse capacità di propagazione. Non un catalogo se non il Web stesso, che costantemente ricostruisce i propri molteplici indici intorno alle preferenze e agli interessi dei suoi utenti. La critica può manifestarsi in zone più o meno 'calde' e costruire intorno a sé imprevisti ambiti di interesse e di applicazione. Credo che per poter cogliere quello che accade in quelli che tu chiami 'territori di energia latenti' occorra maturare maggiori duttilità e capacità di osservazione.
A proposito della convergenza del cartaceo con il Web, di recente, ho letto il libro di Marco Biraghi MMX Architettura zona critica e sono rimasto deluso dalla semplice trasposizione dei contenuti apparsi nel suo sito Gizmo.8 Un’operazione analogica.
Io penso che i due media, il libro e il Web, abbiano linguaggi distinti. Il
Web ci offre una diversa profondità, la rete non è solo una pagina, è
audio, video, link, immagine con tutte le sue infinite quotidiane
varianti. È qualcosa d’informale ma nello stesso tempo profondo, dove si
ci può incontrare. Queste peculiarità non possono essere trascurate, non
possiamo più pensare di replicare degli articoli cartacei in rete.
Il libro di Marco Biraghi sembra modellato su il BLDBLOG di Geoff Manaugh* che è anch'esso una trasposizione di testi prodotti per la Rete e poi messi su carta. Iniziative editoriali come questa testimoniano la presenza e la rilevanza di contenuti che, nati nel Web, possono soddisfare diversi mercati editoriali e raggiungere diverse comunità di lettori. Nel compiersi, queste contaminazioni o questi travasi, che sovente si realizzano nell'editoria degli ultimi anni, descrivono la variabilità dei linguaggi che appartengono a diversi ambiti di produzione. Questo perché, appunto, i contenuti sono condizionati dai luoghi in cui si offrono. Possono addirittura descriverli: se io scrivo qualcosa su Web risento, in qualche modo, della spazialità che essa mi offre. Mentre scrivo ho la percezione diretta del fatto che, quello che scrivo, lo sto scrivendo per una comunità amplissima, indeterminata e anche indefinita nel tempo.
Il libro di Marco Biraghi sembra modellato su il BLDBLOG di Geoff Manaugh* che è anch'esso una trasposizione di testi prodotti per la Rete e poi messi su carta. Iniziative editoriali come questa testimoniano la presenza e la rilevanza di contenuti che, nati nel Web, possono soddisfare diversi mercati editoriali e raggiungere diverse comunità di lettori. Nel compiersi, queste contaminazioni o questi travasi, che sovente si realizzano nell'editoria degli ultimi anni, descrivono la variabilità dei linguaggi che appartengono a diversi ambiti di produzione. Questo perché, appunto, i contenuti sono condizionati dai luoghi in cui si offrono. Possono addirittura descriverli: se io scrivo qualcosa su Web risento, in qualche modo, della spazialità che essa mi offre. Mentre scrivo ho la percezione diretta del fatto che, quello che scrivo, lo sto scrivendo per una comunità amplissima, indeterminata e anche indefinita nel tempo.
Qualche anno fa Pietro Valle,
uno degli autori che con maggiore impegno si sono rivolti ad arch'it, mi
ha proposto di sviluppare un programma secondo il quale estrarre, sulla
base di scelte curatoriali di volta in volta differenti, articoli
contenuti nel grande deposito delle pubblicazioni della rivista, per
dare luogo a dei volumi cartacei. Tale programma, consapevole dei
variabili linguaggi usati, prevedeva la riscrittura dei pezzi stessi e
il loro adeguamento alle esigenze e alle consuetudini della carta. Trovo
ancora interessante l'esperimento fatto con "arch'it papers" -così si
chiamava il progetto di cui è uscito un solo volume- e ritengo sia
sempre opportuno tenere in considerazione la pertinenza di ciascun mezzo
di comunicazione. In ogni caso credo di poter dire che arch'it ha
spesso agevolato le pratiche di trascrizione e di migrazione di
contenuti, andando talvolta contro quello che il senso comune
suggerirebbe solitamente all'editoria.
Infatti, non criticavo l’idea di trasporre i contenuti prodotti nella Rete in un libro, bensì l'idea di copia incollarli in direzione analogica. Mi convince l'approccio di Pietro Valle che riscrive in formato cartaceo ciò che è stato scritto in rete, operazione opposta a quella di Marco Biraghi, il suo libro sembra un patchwork di scritti proposti in rete, con l'aggravante dell'aggiunta degli elementi che ammiccano al linguaggio della rete: la manina dei link, le tag e il mi piace che non appartengono al linguaggio grafico di un libro. Trasporre la grammatica web in un libro, secondo me è un'operazione debole. Si sono mescolati due linguaggi diversi in un unico contenitore. Ad esempio il libro La generazione della rete del 2003 era caduto in questa trappola grafica ma erano anni di sperimentazione, quasi pioneristica.
Questo è un punto molto importante sarebbe interessante svolgere un confronto diretto su questi argomenti magari in Rete?
Infatti, non criticavo l’idea di trasporre i contenuti prodotti nella Rete in un libro, bensì l'idea di copia incollarli in direzione analogica. Mi convince l'approccio di Pietro Valle che riscrive in formato cartaceo ciò che è stato scritto in rete, operazione opposta a quella di Marco Biraghi, il suo libro sembra un patchwork di scritti proposti in rete, con l'aggravante dell'aggiunta degli elementi che ammiccano al linguaggio della rete: la manina dei link, le tag e il mi piace che non appartengono al linguaggio grafico di un libro. Trasporre la grammatica web in un libro, secondo me è un'operazione debole. Si sono mescolati due linguaggi diversi in un unico contenitore. Ad esempio il libro La generazione della rete del 2003 era caduto in questa trappola grafica ma erano anni di sperimentazione, quasi pioneristica.
Questo è un punto molto importante sarebbe interessante svolgere un confronto diretto su questi argomenti magari in Rete?
Tu hai cercato di porre questi tuoi argomenti a Marco Biraghi?
No.
Penso che varrebbe la pena discuterne.
Dopo questa conversazione, possiamo ampliare il nostro dialogo. Sarei interessato a un dibattito attivo sui temi dell'architettura. Non bisogna pretenderlo, ma, se continuiamo ad invitare o magari ospitare nei nostri siti due o tre persone che la pensano alla stessa maniera, rischiamo l’autoreferenzialità di cui parlavi prima, rimanendo dei mondi isolati, atteggiamento ereditato dalle riviste cartacee dell'ultimo ventennio, incapaci di attivare un dialogo sui temi del contemporaneo e che hanno perso la tradizione dialogica che li vedeva confrontarsi spesso con precisi e importanti editoriali, penso a Pagano con Piacentini o Maldonado con Mendini.
No.
Penso che varrebbe la pena discuterne.
Dopo questa conversazione, possiamo ampliare il nostro dialogo. Sarei interessato a un dibattito attivo sui temi dell'architettura. Non bisogna pretenderlo, ma, se continuiamo ad invitare o magari ospitare nei nostri siti due o tre persone che la pensano alla stessa maniera, rischiamo l’autoreferenzialità di cui parlavi prima, rimanendo dei mondi isolati, atteggiamento ereditato dalle riviste cartacee dell'ultimo ventennio, incapaci di attivare un dialogo sui temi del contemporaneo e che hanno perso la tradizione dialogica che li vedeva confrontarsi spesso con precisi e importanti editoriali, penso a Pagano con Piacentini o Maldonado con Mendini.
La rete, in tal senso, ci offre altri canali, anche se a volte gli assalti degli incazzati in pigiama deviano
il dialogo in un groviglio di parole chiuse, spesso ideologizzate che
scadono nell'invettiva. Ma è indubbio che la Rete offre degli spazi
nuovi, latenti e forse virtuosi.
Coltivare queste insoddisfazioni non può far che bene. Credo dovrebbero essere spinte al di là della ricerca delle configurazioni ideali o idealizzate riguardo agli usi dello spazio web. Gli strumenti e le forme di scrittura hanno una forte incidenza nella produzione dell'architettura. Il lavoro critico sull'editoria e sulle possibilità di pubblicazione dell'architettura è decisivo per la crescita della cultura del progetto. Questo atteggiamento trascende lo strumentario, benché aperto e formidabile, offerto da Internet. Occorre coltivarlo e incorporarlo nel pensiero progettuale.
Condivido e penso che possiamo chiudere con quest'auspicio.
31 gennaio 2012
Intersezioni ---> MONDOBLOG
__________________________________________
Note:
1 Pippo Ciorra, Senza architettura, Laterza, Roma-Bari, pp. 73-74
2
per capire meglio la storia di arch'it vi suggerisco di leggere:
Salvatore D'Agostino, 0053 [MONDOBLOG] Dadarch'it, Wilfing Architettura,
19 gennaio 2012*
3
2A+P, Marco Brizzi, Luigi Prestinenza Puglisi, GR - La generazione
della rete. Sperimentazioni nell'architettura italiana, Cooper &
Castelvecchi, Roma, 2003, pp. 224-225.
Interessante questa
breve storia dell'editore Cooper & Castelvecchi: «Il marchio
editoriale Castelvecchi è stato fondato nel 1993 sull’onda di Internet,
dei Cibernauti e della nuova cultura giovanile che ruggisce sul Web e
nei centri sociali. Ha lanciato a suo tempo, nel 1995, due dei più noti
«cannibali», che hanno pubblicato con Castelvecchi il loro esordio: Aldo
Nove con «Woobinda» e Isabella Santacroce con «Fluo». Per non parlare
del fenomeno Luther Blissett, che esordisce da Castelvecchi nel 1995 con
«Mind Invaders», e impazza per tutti gli anni Novanta prima di
trasformarsi nel collettivo Wu Ming. O del fantomatico Reverendo William
Cooper, che con oltre ventimila copie vendute sdogana il «Sesso
estremo» per un’intera generazione. Libro d’esordio castelvecchiano
anche per il critico e scrittore romano allora 28enne Emanuele Trevi (in
seguito da Einaudi, Mondadori, Laterza): è già un classico il suo
Istruzioni per l’uso del Lupo, una lettera aperta a Marco Lodoli sulle
aberrazioni della critica. Mentre la stagione dei centri sociali volge
ormai al tramonto, sul finire degli anni Novanta Castelvecchi si dedica
alla nuova generazione di pittori e artisti digitali italiani. Con il
lavoro dei critici Gianluca Marziani (allora 27enne, autore del saggio
«N.Q.C. Nuovo Quadro Contemporaneo») e Luca Beatrice e Cristiana
Perrella (allora 30ntenni, autori di «Nuova arte italiana») e decine di
altri critici e curatori, Castelvecchi pubblica i lavori di esordio
della nuova generazione visiva e visionaria: suoi il primo libro di
Matteo Basilé, di Alessandro Gianvenuti, di Giuseppe Tubi e decine di
altri cataloghi di personali e collettive. E non mancano incursioni nel
campo della nuova «Rave Culture», con libri dedicati alla trance
elettronica, ai nuovi dj chimici e all’acid jazz grazie al lavoro di
curatori come il dj romano Andrea Lai e il jazzista Francesco Gazzara».*
4 Umberto Eco, Costruire il nemico, Testo integrale dell’intervento tenuto il 15 maggio 2011 a Bologna nell’ambito del ciclo di conferenze “Elogio della politica” curato da Ivano Dionigi presso l'Università di Bologna.*
5 Per un approfondimento vi suggerisco di leggere un breve post di Antonino Saggio: Chiusura della Facoltà di Architettura di Palermo, Conferenze e talks of Architettura by Antonino Saggio, 15 luglio 2011. *
6 Editoriale di Mario Perniola, Scrivere, scrivere… perché?, Agalma, n. 17, marzo 2009*
7 Il direttore del Censis Giuseppe Roma in un recente convegno sui maggiori disturbi depressivi sociali degli italiani evidenzia come ne siano affette le persone più fragili ma a sua volta le più sensibili, poco ciniche quelli non accettano di omologarsi al peggio: «Proprio quest’ultima forma di reazione alla società del disordine e della confusione, che non è una forma di adattamento, ma l’espressione di una sofferenza individuale, può paradossalmente essere espressione di sana potenzialità. Disturbi psichici come segno di reattività, di non conformismo, di ribellione. La speranza è che correnti vitali nella società possano captare la reattività di sofferenza dei singoli e riconvogliarle verso una ripresa della consapevolezza sociale». Rita Piccolini, Soli, impauriti, 'barricati' in casa, Televideo, 15 giugno 2011.*
8 Ciò che manca premessa al libro a cura di Marco Biraghi, Gabriella Lo Ricco, Silvia Micheli, MMX Architettura zona critica, progetto grafico Pupilla Grafik, Zandonai, Rovereto, 2010.*
L'intervista fatta il quattordici luglio del 2011 è stata rivista e aggiornata il trenta gennaio del 2012. La foto animata è composta da frammenti di screenshot scattati, durante il dialogo avvenuto su Skype, da Salvatore D'Agostino.
4 Umberto Eco, Costruire il nemico, Testo integrale dell’intervento tenuto il 15 maggio 2011 a Bologna nell’ambito del ciclo di conferenze “Elogio della politica” curato da Ivano Dionigi presso l'Università di Bologna.*
5 Per un approfondimento vi suggerisco di leggere un breve post di Antonino Saggio: Chiusura della Facoltà di Architettura di Palermo, Conferenze e talks of Architettura by Antonino Saggio, 15 luglio 2011. *
6 Editoriale di Mario Perniola, Scrivere, scrivere… perché?, Agalma, n. 17, marzo 2009*
7 Il direttore del Censis Giuseppe Roma in un recente convegno sui maggiori disturbi depressivi sociali degli italiani evidenzia come ne siano affette le persone più fragili ma a sua volta le più sensibili, poco ciniche quelli non accettano di omologarsi al peggio: «Proprio quest’ultima forma di reazione alla società del disordine e della confusione, che non è una forma di adattamento, ma l’espressione di una sofferenza individuale, può paradossalmente essere espressione di sana potenzialità. Disturbi psichici come segno di reattività, di non conformismo, di ribellione. La speranza è che correnti vitali nella società possano captare la reattività di sofferenza dei singoli e riconvogliarle verso una ripresa della consapevolezza sociale». Rita Piccolini, Soli, impauriti, 'barricati' in casa, Televideo, 15 giugno 2011.*
8 Ciò che manca premessa al libro a cura di Marco Biraghi, Gabriella Lo Ricco, Silvia Micheli, MMX Architettura zona critica, progetto grafico Pupilla Grafik, Zandonai, Rovereto, 2010.*
L'intervista fatta il quattordici luglio del 2011 è stata rivista e aggiornata il trenta gennaio del 2012. La foto animata è composta da frammenti di screenshot scattati, durante il dialogo avvenuto su Skype, da Salvatore D'Agostino.
Nella vostra riflessione vedo molto succo. Mi limito a due spazi tematici sui quali, in qualche modo, oggi mi sento impegnato: la rimozione di ogni atteggiamento ideologico nei confronti del web e dei media ("Internet salverà il mondo", a cui ben risponde la metafora del pigiama incazzato) e un uso consapevole dello spazio web per sottrarsi all'omologazione nella vita reale.
RispondiEliminaSotto questo punto di vista, - con Salvatore abbiamo già avuto modo di parlarne, - esiste una linea di continuità fra individuo e città, che non usa il web per negare la realtà, bensì per ricostruirla: distruggere l'uomo, proiettarlo fuori dal self per farlo rinascere, avrebbe forse detto Italo Calvino.
Da qualche settimana, fra Torino, Roma e Lecce, abbiamo iniziato un dialogo simile usando il prisma di Twitter: si chiama #AlgebraTTT (http://www.torinoanni10.com/algebra-ttt-twitter/) e ne stanno emergendo considerazioni interessanti. Si parte dall'amara constatazione di Pasolini sull'omologazione culturale per cercare in Calvino un primo modello di difesa nei confronti della società dell'immagine.
Dopo aver riletto le Lezioni americane, è stato inevitabile aprire le Città invisibili: "La memoria è ridondante: ripete i segni perché la città cominci a esistere". Ecco, la sensazione è che uno stesso istinto di ricerca ci accomuni: del resto, costruire è scrivere. Oppure mi sbaglio, e non è così?
Hassan Bogdan Pautàs,
RispondiEliminaallora sei una persona in carne e ossa :-)
Bella la pila dei libri e la tua emozione.
Condivido il tuo uso di twitter, ti seguirò.
Per me Twitter doveva essere uno spazio di giochi di parola ‘archiTWIeTTEuRa‘ ne avevo scritti tre:
archiTWIeTTEuRa [0001]Giulio Tremonti: PIL.ASTRO
archiTWIeTTEuRa [0002] Franco Purini: Merda d'artista baumaniana
archiTWIeTTEuRa [0003] Renzo Piano: Architetto tautologico
Dopo è diventato un po’ un archivio.
Mi hai fatto venire voglia riprendere la rubrica nonché di scrivere qualcosa di più sensato.
Sulle lezioni americane ci tornerò a breve.
Le città invisibili di Italo Calvino in realtà non sono tante città ma una, forse Genova per Calvino, osservata cambiando le sue rotte giornaliere con lo sgardo di Palomar o Marcovaldo.
Le città invisibile è ciò che ritrovo nei blog come il tuo.
Saluti,
Salvatore D’Agostino