6 febbraio 2012

0006 [SQUOLA] A trent’anni di tempo da qui

La parola scuola è spesso un inciampo, il suo suono trae in inganno. Non di rado viene scritta sbagliata. Squola è un errore ed è il nome di questa rubrica. 

SQUOLA* è nata per ospitare riflessioni sullo stato dell'Università italiana. Isidoro Pennisi, in occasione del trentennale dell'Università di Architettura di Reggio Calabria, mi ha proposto una riflessione 'senza fronzoli' su quest'ateneo dalle vicende alterne, partendo dalla pubblicazione di materiale d'archivio inedito.
di Isidoro Pennisi 
Ricercatore presso la facoltà di architettura di Reggio Calabria.

Il momento che viviamo, e ormai ci siamo abituati a pensarlo così, è un momento difficile. Un momento in cui il sostantivo crisi è quello più utilizzato. Non voglio negare che sia vero, ma voglio ricordare, soprattutto a chi come me ha già vissuto un po’, che abbiamo già visto e superato altri momenti definiti difficili. La definizione di difficile, infatti, è sin troppo generica e, in genere, serve a non porre sul piano della nostra vita concreta le giuste correzioni di rotta che sarebbe utile assumere se vogliamo vivere tutti insieme in maniera più giusta e con maggiore soddisfazione.

In questo senso, per chi come me si occupa del settore dell’Istruzione Universitaria (ma varrebbe ugualmente se mi occupassi di altri livelli di istruzione) è giusto non cullarsi sull’inevitabilità delle difficoltà che una crisi sociale porta con sé ma provare, invece, a riordinare le idee su cosa abbiamo fatto e su cosa ci resta da fare, almeno all’interno di un orizzonte temporale in cui il nostro contributo potrà essere effettivo. Per questo motivo, quindi, ho proposto alla redazione di questa finestra aperta sulla realtà dove l’informazione diventa bene culturale diffuso (come minimo) di darmi la possibilità di pubblicare una serie di materiali di riflessione sull’Università a partire dalla storia di una di queste. Una di queste che, nello specifico, quest’anno compie trenta anni dalla sua fondazione.

Una struttura che opera nel Meridione e che, ancora, può definirsi del tutto giovane (con tutti i problemi connessi). Per quanto giovane, però, essa ha attraversato questo arco di tempo trentennale che già ora, in tempo reale, risulta essere del tutto singolare all’interno della storia italiana ed europea. Parlo dell’Università di Reggio Calabria che nacque nel 1982 ereditando la storia più che decennale dell’Istituto di Architettura di Reggio Calabria. Una struttura in cui la Facoltà di Architettura e la questione dell’Architettura, anche ora ma in maniera del tutto più deludente, sono state sempre la cartina di tornasole delle fortune e sfortune di questo Ateneo. In questo senso, quindi, molti dei materiali che proverò ad offrire alla lettura su queste pagine elettroniche, riguardano strettamente un Ateneo che ha formato, soprattutto, architetti, ed in cui insegnano, per la maggior parte, architetti.

Che natura hanno questi materiali?

In qualche maniera rappresentano una storia precisa che descrive bene cosa sia stata, in bene ed in male, l’impresa che corrisponde alla superba volontà di trasmettere conoscenza generale ma, soprattutto, conoscenza architettonica. Rappresentano i momenti buoni di questa impresa come i momenti di flesso, anche acuti, che questa struttura ha attraversato. Nel selezionarli e sceglierli ho provato, e proverò, a non falsare la fotografia complessiva che rappresenta questo Ateneo. Soprattutto, però, ho provato, e proverò, a far si che ogni documento lasci aperta, in contro piano, una veduta di profondità che spinga chi leggerà a riflettere sul ruolo dell’Università in una società come la nostra. Riflettere senza preconcetti e senza prese di posizione che formano principi che nel loro ossidarsi non accendono più alcuna pila elettrica di idee plausibili. Una idea che, per quanto mi riguarda, pur essendo convinto che abbia la necessità di aggiornarsi e misurarsi con le dimensioni reali di ciò che siamo, ha delle radici storiche che, in qualche maniera, corrispondono ad una idea di riferimento che, nel camminare dentro la storia, possiede quella capacità tecnica di essere una bussola utile a vedere dove vanno questi ragionamenti. E allora è giusto dirla ora e qui. Prima, quindi, di iniziare a fornirvi questi materiali.

Di cosa parliamo quando il tema è quello dell’Università?

Tutto ciò che esiste e può essere osservato attraverso l’intelletto è un vasto sistema di dati complessi. Un sistema di dati che, a sua volta, si frammenta e si trasforma in parti, con molta naturalezza. Il sapere consiste, quindi, nel comprendere questi dati in sé stessi, nelle loro specifiche posizioni topografiche e nei rapporti reciproci. A cosa serve, quindi, l’Università? Qual può essere il fine dell’insegnamento e della ricerca e cosa facciamo, noi, all’interno di questa struttura, oltre a seguire le nostre legittime ambizioni che ci spingono a salire le gerarchie che ordinano la nostra organizzazione?

Federico II, il grande Svevo, non ha avuto dubbi in proposito. Fondando a Napoli un’Università fece capire bene e subito cosa pensava. Quella struttura che lui fondava serviva soprattutto al Sovrano (cioè a lui) nella sua funzione di governo. Era un’idea forse sin troppo utilitaristica ma era funzionale al suo progetto politico, ambizioso oltre misura, cui serviva un capitale umano di supporto che solo una struttura come l’Università poteva formare e fornire. Da quel tempo le cose sono cresciute. Il sapere, quando non è servo, si mette al servizio della vita e ci concede una maniera vasta di vedere la realtà. Una visione di tutte le relazioni che esistono tra le diverse scienze, la loro interazione e i valori rispettivi. Il sapere di cui parlo, però, non è qualche cosa che si traduce in un profitto materiale ma è una presa di consapevolezza sulle cose alla quale ci si prepara: cui si viene preparati. Un vero e proprio processo educativo.

L’Università può essere intesa come un luogo che forma educazione ancor prima che istruzione. Il termine educazione a me sembra più elevato e più ambizioso. Lascia capire che la nostra maniera di essere nel mondo, la nostra capacità di capirlo per come è e non per come crediamo che sia, possono essere formate volontariamente e responsabilmente. l’Università si deve porre, ancora oggi, come obiettivo principale, quello di far evolvere la cultura intellettuale e deve dedicarsi, soprattutto, all’educazione dell’intelligenza. È un obiettivo, questo, indipendente dal come quest’intelligenza sarà poi utilizzata. Ecco il vero motivo, allora, per cui alcuni di noi (e non so quanti per la verità) si continueranno sempre ad opporre al fatto che qualcuno, attraverso anche delle riforme, possa pensare che il sapere specialistico, professionale o anche solo scientifico, sia il fine sufficiente all’educazione universitaria. Non perché si ha disprezzo per ciò che è professione e vocazione particolare. Non si vuole dire, qui, che l’Università, ad esempio, non debba insegnare l’architettura, il diritto o la medicina: sarebbe assurdo.

Quale cosa si potrebbe insegnare, nell’Università, se non s’insegnassero delle discipline particolari? E non si educassero le nuove generazioni, la futura classe dirigente, partendo da una disciplina particolare? È proprio insegnando ed imparando una data disciplina, però, che l’Università deve insegnare ed ad avere un punto di vista filosofico della realtà. Un professore che responsabilmente lavora in un Università, diversamente da chiunque altro che, con profonda capacità specialistica, trasmette conoscenza al di fuori di questa, è costretto a determinare con precisione il posto che occupa la sua disciplina nell’insieme topografico delle conoscenze. Il professore che lavora nell’Università, con senso di responsabilità, ha dei doveri verso la società, verso la comunità nella quale ci sviluppiamo, verso i singoli individui. Questa responsabilità consiste nell’impegno nel provare ad offrire a tutti i costi un’educazione libera. L’Università non è stata istituita per dare al mondo poeti, autori, scienziati, chiamati all’immortalità. Il mondo è capace di fornire, in qualsiasi caso, Aristotele, Newton, Raffaello, Brunelleschi, Annibale e Leopardi.

Il compito strategico dell’Università, invece, è solo ed in apparenza più ordinario. Il suo massimo scopo, infatti, è quello d’elevare in maniera diffusa il livello intellettuale di una comunità; di formare lo spirito di un popolo e di sostenere con solidi principi i suoi umori; d’assegnare alle aspirazioni delle moltitudini degli scopi precisi; d’introdurre nelle idee collettive una maggiore moderazione; di rendere più facile al potere politico di dispiegare le capacità di governo; di rendere più umani i rapporti individuali. L’educazione universitaria, in sostanza, rende la donna e l’uomo più consapevoli, più coscienti delle opinioni e dei giudizi che si esprimono, aumentando, così, la capacità di formularli con chiarezza ed eloquenza. Dovessi tornare indietro nel tempo e per fortuna non è, poi, ancora tanto, queste caratteristiche le ho vissute per davvero. Non sto parlando, quindi, dell’Università medioevale, oppure d’esperienze lette sui libri.

È proprio la storia che io ho vissuto in un periodo preciso ed in una struttura universitaria operante nel tempo moderno di questo nostro Paese. Esattamente quella che compie ora trenta anni dalla sua fondazione. Precisamente quella di cui io vorrei parlarvi. Parlandone, si spera, sarà forse possibile ragionare sul futuro inedito, ancora tutto da concepire, di queste strutture antiche che definiamo Università. Farlo in maniera tale da non risultare né anticonformisti per principio né conformisti per pura abitudine. Farlo solamente in maniera consapevole. Senza fronzoli ma con la risolutezza data da ciò in cui si crede.  

6 febbraio 2012
Intersezioni --->SQUOLA
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* SQUOLA è un errore voluto ed è semplicemente il nome della rubrica.

3 commenti:

  1. non posso che associarmi al commento di Paolo Boscolo.

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  2. Anch’io mi associo al commento di Paolo Boscolo nonché a quello di Rem.

    Saluti,
    Salvatore

    P.S.: Isidoro Pennisi gongolerà per questi commenti

    RispondiElimina

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