23 febbraio 2012

0007 [SQUOLA] L’avvocato del diavolo un'intervista a Manfredo Tafuri

La parola scuola è spesso un inciampo, il suo suono trae in inganno. 
Non di rado viene scritta sbagliata. 
Squola è un errore ed è il nome di questa rubrica.

di Salvatore D’Agostino 


Il 23 febbraio del 1994 a Venezia moriva Manfredo Tafuri, lo ricordo con un’intervista quasi inedita, poiché pubblicata in una fanzine universitaria.
Questo è il primo documento tratto dall’immenso archivio delle università italiane ma anche un invito a superare l’incanto dell’opinione istantanea amata sia dai media mainstream che online. Credo che dopo più di vent’anni di scritture Web ci sia bisogno di pensieri storici, analitici e critici per uscire fuori dai confini della dialettica wishful thinking.
 

di Isidoro Pennisi

L’intervista è un documento contenuto nel primo numero di una Rivista di Architettura concepita ed elaborata da un staff di studenti della Facoltà di Architettura di Venezia nel quadro delle iniziative culturali promosse, all’epoca, dall’EASA (European Architectural Studenty Assembly)*. Un’associazione internazionale di studenti di Architettura senza alcun legame ufficiale con il mondo accademico, fondata in Inghilterra agli inizi degli anni ottanta, che aveva una serie di diramazioni nazionali e locali che, nella seconda metà degli anni ottanta, coprirono in Italia tutte le sedi universitarie dove esisteva una Facoltà di Architettura. In questo quadro erano diverse le iniziative promosse. Meeting Internazionali Estivi (grandi workshop autogestiti) e Nazionali, seminari di studio, convegni ed iniziative politiche ed editoriali. Utopica, così si chiama la rivista da cui è tratta questa intervista, è una di queste.
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L’intervista risente in maniera positiva, secondo me, di questo contesto e del fatto che rappresenta un esemplificativo dialogo tra studenti in cerca di fortuna culturale e di vita ed uno degli intellettuali migliori, probabilmente, che la nostra disciplina ha avuto la fortuna di avere tra le sue fila nel secolo passato. Descrive, in fondo, anche le relazioni strette che, da Nord a Sud, gli studenti delle varie sedi alimentavano in maniera strategica per ampliare il dibattito e lo scambio di idee. In sé, nei suoi contenuti, descrive bene una situazione che, oggi, si dispiega in tutta la sua chiarezza, ma che, in quel momento, dietro la pressione di domande chiare e dirette, Tafuri descrive in maniera veggente leggendo quello che, tra le righe (ma nemmeno tanto) stava già accadendo.


L’avvocato del diavolo  

Redazione Utopia Qual è il ruolo della modernità, come presenza costante del concetto di futuro, nell'idea di città contemporanea e quale risposta potrà dare il progetto a bisogni e problemi sempre nuovi? 

Manfredo Tafuri In generale la modernità convoglia una fortissima tensione nichilista; ora uno dei dati principali del nichilismo è proprio quello dell'annullamento del presente, per cui non si tratta nemmeno più di una cosa rispetto al futuro quanto piuttosto di un annichilimento delle dimensioni sia del passato che del futuro che del presente. 

Prendendo un esempio dalla pubblicità, l'effetto del nuovo, voglio dire il phatos della novitas, è già contenuto nell'attesa del nuovo: quando il nuovo appare esso è già consumato (questo è tipico della pubblicità cinematografica: quando il film entra in programmazione per me è già consumato dalla propaganda precedente, dagli sketch pubblicitari, etc.); quindi si aspetta immediatamente l'altro nuovo per cui l'opera in presenza diventa quasi secondaria.
Questo è lo scopo della scienza pubblicitaria e il progetto è la pubblicità dell'architettura e dell'urbanistica. 

Allora questo diviene il ruolo di progetti come quelli per il concorso della Bicocca?

Diciamo che la pubblicità progetto in questo caso, cioè il concorso fatto con le stars, architetti internazionali, è funzionale all'innesco del programma, non funzionale alla sua realizzazione, ed è fatto con molto oculatezza dalla Pirelli.
Bisogna pensare che il programma Pirelli non è un progetto, è un programma che se avrà realizzazione, più o meno completa, questo avverrà verso il 2030.
Questo rende abbastanza schematici quelli che noi vediamo come progetti d'architettura perché in realtà lì si tratta di un programma che non può assolutamente essere fissato.
È qualche cosa di totalmente labile, anzi direi che è proprio quest'apertura il dato più interessante di quel programma: il fatto che nessuno sappia che cosa sia un parco tecnologico e scientifico, né che sia come si trasformerà perché innesca una serie di effetti.
Conosciamo solamente il lancio della bomba, ma niente degli effetti.

Quale grado di previsione è possibile allora per la città futura?

Io direi che non andrebbe tanto considerato come sarà la città, poiché non ci interessa: se potessimo prevedere quella città, saremmo ansiosissimi di fissarla al 1986, qualsiasi cosa noi prevediamo è una fissazione al nostro tempo.
Diciamo quindi che c'è da un lato un'ansia di futuro, dall'altro l'ansia che il futuro non venga perché se posso prevederlo il futuro non mi dà sorpresa.

Invece direi che bisognerebbe cominciare a staccare l'architettura, il pensiero sull'architettura, dalle considerazioni che si fanno sulla città, perché la città non è fatta dagli architetti, ma da chi la programma; mentre si pensa troppo al pensiero dell'architetto sulla possibile città.
Invece se ragioniamo sulla città dovremmo vedere quali sono le grandi trasformazioni che sono già avvenute, che dovrebbero essere lette in una serie di fatti estremamente in subbuglio e contraddittori che riguardano alcune punte avanzate con dei contraccolpi anche notevoli perché non fatte da qualcuno che le pensa, ma da una serie di mutamenti fondamentali delle grandi domande.

Per quanto riguarda i mutamenti fondamentali delle grandi domande potremmo fare, per esempio, alcune considerazioni su Manhattan o sulla città di New York, perché direi che ciò che sta avvenendo nella giungla metropolitana di questa città è qualche cosa di molto diverso da quello che accade in Europa o in Italia, ma andrebbe considerato con grande attenzione: in primo luogo non esiste più nemmeno un vago pensiero di progettazione unitaria anche a livello di schema di massima, secondariamente abbiamo un annullamento di tutti i programmi pubblici che guidino perlomeno lo housing per le classi medie e alte; a questo segue una grande crisi che ha investito New York fino al 1979/80. Dovremmo quindi seguire la ripresa, quello che viene propagandato dalla città di New York come il ritorno alla città: se andiamo a vedere come avviene questo ritorno dovremmo pensare piuttosto che a un ritorno alla città, a un fortissimo spostamento all'interno della città di ceti che si addensano e si diradano senza toccare però la sostanza della città stessa. Abbiamo grandi zone nelle quali avviene un intervento semiprivativo previsto per le classi altissime che non tocca nessun interesse delle aree consolidate (per esempio Hadrifax City perché sull'acqua); nello stesso tempo l'addensarsi in zone, che prima erano per classi medie, delle stesse classi ad altissimo reddito comporta una espulsione delle classi a basso reddito persino da zone che prima erano ghettizzate o semighettizzate, dovuto al semplice calo delle lotte sociali.

Data una minima tensione noi abbiamo uno spostamento, cioè un invasione delle classe medie, con un disegno economico abbastanza preciso: se la ricchezza non viene in città, la città non può rispondere a nulla tant'è vero che questo corrisponde a una contrazione eccezionale di tutti quanti i servizi pubblici.

È quindi un disegno per attirare classi tassabili che diano reddito. Questo comporta naturalmente una privatizzazione a grande maglia cioè, vale a dire, che ciò che viene fatto in una zona o in un'altra zona della città non solo non è interrelato in maniera pianificata, non è detto che sia una critica, ma ciò che si riesce ad ottenere a partire dai servizi, come concessioni, è dovuto semplicemente ad una contrattazione continua tra il gruppo o il singolo imprenditore e le forze della municipalità.
Questo non implica il fatto che l'architetto non serva, ma spesso assume un ruolo di promotore pubblicitario, come nel recente progetto per la rivalorizzazione del fronte occidentale dell'Hudson affidato a Bob Venturi. Questa è una tipica forma di architettura pubblicitaria; tant'è vero che dopo le critiche il progetto fu ritirato; ciò non significa niente per l'America, lo potremmo vedere realizzato tra cinque anni in maniera diversa.

Se andiamo a vedere ciò che avviene in Italia, noi abbiamo logicamente dei problemi diversi, come per esempio la chiusura della città; vale a dire una notevole diminuzione demografica, uno svuotamento delle industrie dal centro, e addirittura uno svuotarsi abitativo.

Nello stesso tempo abbiamo un fortissimo stock di abitazioni e una carenza di case e quindi continueremo ad avere una situazione patologica. Quello che è abbastanza tipico è che esistono delle tendenze a non creare premesse di grandi interventi da parte dell'operatore pubblico che non possiamo ancora valutare perché dovremmo dare un giudizio molto ambiguo. Da un lato potremmo dire che l'operatore pubblico comincia a disinteressarsi dei grandi problemi, almeno in alcuni centri, tipico è il caso di Roma, concentrandosi su una serie di progetti che regolarmente poi vanno a mare e che invece di toccare i grandi problemi strutturali tocca i problemi sovrastrutturali, come per esempio il problema dei Fori Imperiali e cose di questo genere, quasi aspettando che l'imprenditore privato risolva o meglio intervenga in qualche modo in altri settori.

Dall'altra parte dobbiamo dire che interventi come quelli dei recenti concorsi Lingotto e Bicocca, la FIAT in maniera ambigua e la Pirelli in maniera più chiara, fanno vedere chiaramente un ruolo portante del privato al di fuori o addirittura contro le previsioni create dall'operatore pubblico, tipo il progetto Pirelli che modifica notevolmente le linee di pianificazione milanese, sulla base di precisi calcoli d'impresa e sulla base di un certo realismo dell'impresa stessa. Quindi abbiamo una tendenza che perlomeno si sta delineando, ma di cui non conosciamo la durata, di una eccezionale ripresa della programmazione mirata per punti, per luoghi, per macchie, con una fortissima concorrenzialità in un sistema in qualche modo neoliberista che si instaura a grande scala nelle città con un calo terribile di potenziale politico e nello stesso tempo con una eccezionale confusione di idee all'interno dei partiti politici stessi.

In questa nuova situazione quale dovrebbe essere il ruolo dell'architetto e rispetto a quali modelli di riferimento, pensando anche alle trasformazioni messe in atto dalla cultura telematica? 

Direi che sono temi molto differenti, perché una cosa è il tema di una serie di recuperi che stanno avvenendo in maniera più o meno disordinata dentro la città in cui c'è la decompressione, un'altra è invece il tema delle grosse operazioni che non partono esclusivamente dal riuso, ma al contrario da una idea che non riguarda direttamente la città bensì l'impresa: poi il fatto che l'impresa abbia bisogno di ricollegarsi alla città fa parte del contratto politico.
Quindi va capito bene questo, cioè quando una grande impresa ha in mente di fare una grande operazione, tutto il problema degli agganci alla situazione urbana fa parte del contratto che questa deve fare con la città. Ora io non so se parlerei di ruolo dell'architetto; una cosa chiarissima è che l'architetto non deve gestire nulla, anzi gli è sottratta qualsiasi possibilità di gestire.

È molto chiaro ciò che viene richiesto ad un grande architetto o a un notevole progetto: viene chiesto un marchio, vale a dire un marchio di fabbrica che deve essere perfettamente aderente al tipo di progetto che viene fatto.
Nel caso della Bicocca abbiamo un tuffo nell'età telematica e un estremo bisogno di Pirelli di arrivare presto ad un primo passo realizzativo in una corsa concorrenziale con altri possibili progetti.
Poiché a Milano è concepibile solo un parco scientifico, ma non lo può fare la Pirelli, lo deve fare una aggregazione di imprese in un terreno che è il meno favorevole soprattutto dal punto di vista degli accessi e dei collegamenti; per questo diventa importantissima la qualità dell'Architettura aderente all'età della telematica quindi un'Architettura che sia riconoscibile, ma labile allo stesso tempo.

Uno degli elementi più importanti del contratto Pirelli-città è il parco perché è l'elemento sociale: immediatamente i rappresentanti degli enti locali hanno posto l'attenzione su quale architetto avesse progettato un vero parco, un parco che colpisse.

Come si può vedere, il parco è l'elemento più labile, e ha avuto grande successo il progetto di Valle per il parco perché leggibile e studiato da Pizzetti. Però questo momento di forte marchio riguarda solamente la partenza dell'operazione; l'architetto del 2020 che farà probabilmente le cose più importanti sarà completamente sganciato dall'idea iniziale e farà un frammento del progetto. Quindi possiamo dire che sono due scale: una in cui si prevede molto, ma si realizza poco, e in cui l'impianto è più importante della forma architettonica, chiamiamola così in termini tradizionali; e un secondo momento in cui i vari frammenti hanno poi una loro indipendenza. Il primo momento vede gli architetti spiazzati! Essi sono stati abituati a ragionare molto, a chiudere molto il loro arco di considerazioni sull'oggetto e di fronte a qualche cosa che invece non riguarda oggetti cercano di dilatare l'oggetto, come Meier o Botta, facendo qualcosa che non corrisponde al marchio, perché l'età della telematica è l'età dei flussi continui, del mutamento continuo del soft mentre lì abbiamo un hard continuo, una continua durezza delle previsioni.

Quindi ciò che in questo momento questi grandi progetti chiedono all'architetto è qualcosa che lo vede molto sbilanciato perché anche le funzioni sono imprevedibili: più fisso le funzioni e più il mio progetto è rigido rispetto alle trasformazioni, meno rispondente a ciò che chiede la committenza.

Nello stesso tempo l'architetto pubblicizza il progetto stesso, ma non lo gestisce perché naturalmente se dovesse gestire tutto questo farebbe un pasticcio incredibile. 

Però l'architetto potrebbe fornire un modello per queste trasformazioni. 

Ma non dipende dalla forma, non c'è nessun modello: direi anzi che proprio casi di questo genere, che a mio parere si moltiplicheranno, implicano un'imprevedibilità assoluta. Noi siamo abituati a pensare: c'è una funzione, si può cambiare qualcosa ma esiste un planovolumetrico che organizza. Dovremmo invece cominciare a pensare come a dei campi magnetici in cui l'azione, l'impulso che io do genera una serie di scombinamenti e ricombinazioni, che non posso prevedere, e quindi implica delle previsioni, chiamiamole architettoniche secondo la vecchia scala, a brevissima e non a lunga durata.

Più la piccola scala è limitata, più è sana.

Io credo che bisognerebbe sempre partire da un fatto: qualsiasi progetto oggi venga sul tappeto non è qualcosa che voglia una realizzazione. Un progetto principalmente è una piattaforma contrattuale e in quanto tale non è che il progetto cambi, esaurita la contrattazione ha semplicemente svolto la sua funzione, dopo di che può essere totalmente annullato, lo si può far cambiare completamente.

Non ne sono sicuro, però mi sembra che gli architetti invece siano ancora molto legati a una concezione di progetto-realizzazione mentre invece sono molto poco abituati a considerare ciò che loro fanno, una base contrattuale per forze che sono totalmente al di fuori dal loro angolo visuale; cioè l'architetto è l'architetto di qualcuno, non di una collettività, anzi direi che è sempre più l'architetto di quel gruppo, di quel committente, di quell'impresa, come un avvocato.

Ma l'architetto, pur essendo l'architetto di qualcuno o di qualcosa, può essere portatore di una cultura collettiva della società, di quel momento storico?

Questo termine che viene aggregato in maniera così tranquilla, società, io invece lo vedrei completamente disaggregato, cioè dire società implica annullare tutta la conflittualità in gioco, se invece dico che l'architetto è di parte, di qualcuno, implica invece una forte conflittualità e l'obbligo per lui di tener conto di ciò che sta facendo, per chi lo fa e quali ne sono i fini.

Io credo che ci sia ancora molto idealismo sul termine architetto, perché questo tema per un avvocato non si porrebbe mai: l'avvocato è l'avvocato del delinquente o dell'innocente; se il suo discorso è carico di retorica ciceroniana o si riferisce più a Quintiliano, è indubbio che lui può essere l'uno o l'altro, però bisogna vedere se quel discorso di fronte a un giudice completamente disincantato funziona o no.

In questo caso l'architetto non può avere una sua utopia, può solo farsi carico di un'utopia esterna.

Mi sembra che qualsiasi utopia oggi sia una zavorra non certo un aiuto, questo non significa che un architetto non abbia una poetica, questo è un altro discorso, solo che la poetica dell'architetto indubbiamente entra all'interno di programmi che lui non può controllare, cioè va staccata dai programmi, accuratamente disgiunta. Si può avere un programma totalmente negativo dal punto di vista di alcuni gruppi sociali e avere un altissimo livello formale: è quanto di più antiutopico si possa pensare. D'altronde è accaduto per esempio a Detroit, dove il progetto di Mies è una eccezionale opera architettonica dietro cui c'è una delle più sporche speculazioni su aree, alla fine degli anni cinquanta, negli USA. 

Ma le trasformazioni che comunque avvengono, mettono in atto dispositivi correttivi della città contemporanea o possono caricarsi di un valore utopico verso una città altra.

La correlazione implica un errore. Io credo che dietro questa posizione ci sia un pensiero di questo genere: la città è malata, questa malattia è sanabile o non sanabile? Quello che in questo caso si chiama utopia sembra la medicina generale per questa città malata; però il concetto di malato o di sano applicato alla città non mi sembra il più adatto per esprimere ciò che la città è, perché se noi consideriamo la città come un corpo malato noi viviamo dentro un quadro culturale di lunga data, che aveva come modello alternativo un modello contadino di stabilità. La città appare malata ad una cultura contadina, naturalmente quando dico cultura contadina non intendo qualcosa di semplice, di basso, intendo la grande cultura della piccola città tedesca per esempio, comunque una cultura basata sulla stasi e gli equilibri, mentre la città per sua natura è squilibrio e conflitto, è anzi l'eccitazione di tutti i conflitti.

Ora correggere il conflitto che è tipico della città significa eliminarla e questo non è dato da un operatore, perché qualcuno ci ha provato e si chiamava Hitler. Il quadro di una città totalmente equilibrata è solo nella testa di quell'uomo, persino neanche nelle forze che lui tentava di gestire era presente un'idea del genere.
Nella sua idea c'era invece proprio il tentativo di chiuderla, di darle una forma, di riequilibrarla.
In qualche modo anche la Mosca della fine degli anni trenta cerca di fare una operazione di questo genere.

Ecco io credo che le grandi utopie abbiano la conclusione nella Berlino di Hitler e nella Mosca di Stalin: quella è la conclusione storica del tentativo di frenare il tempo, di imbrigliarlo.
Questo non significa che il tempo sia buono, implica solo che quel tentativo di imbrigliarlo ha dato quei risultati.
Mentre invece proprio il sistema dei conflitti che noi chiamiamo città implica l'abbandono di qualsiasi tentativo complessivo di sintesi della natura della città stessa o della metropoli o di ciò che la metropoli sta diventando.
Per cui sento con molta diffidenza il termine utopia o modello, perché sono proprio quelli che pongono resistenze.

Io credo che buona parte del pensiero utopico abbia sovrapposto la lettura della situazione al bisogno di cambiarla: sono due momenti completamente diversi: intendo dire che si è fatto molto spesso una lettura acceleretassima per dare molto più tempo allo sforzo di cambiare una struttura mal letta sovrapponendo continuamente i due momenti.

Invece una cosa è leggere e una cosa è il momento del giudizio che spesso è solo sentimentale e non tiene conto del fatto che tutti i momenti aggregati oggi hanno sempre meno senso. Quando noi diciamo massa o pubblico parliamo di astrazione perché è proprio lo spazio metropolitano che consente una miriade di pubblici che non hanno quasi nessun contatto tra loro; quando noi facciamo una qualsiasi operazione produttiva, un'architettura, un film, un quadro, una conferenza, non ci rivolgiamo mai ad un pubblico, ci rivolgiamo ad un preciso pubblico che è ritagliato.
Abbiamo sempre dei cinema d'essai mai una massa perché il processo metropolitano ha sempre più frazionato la massa in piccoli gruppi molto spesso osmotici, per cui anche l'architetto non si rivolge mai ad una comunità, si rivolge ad un gruppo; proprio l'architetto più bravo si rivolge ad un gruppo selezionato, a un suo pubblico come uno scrittore di poesie.

Ma se l'architetto può fornire buoni risultati alla piccola scala, non dovrebbe essere forse la figura dell'urbanista a gestire le grandi scale?

Io credo che bisogna abituarsi a capire che non tutto ciò che viene chiesto all'architetto è un'opera d'architettura; nei casi appunto dei grandi progetti non si tratta d'architettura ma si tratta di un servizio che l'architettura fa.
Gli urbanisti non hanno la possibilità di rispondere, perché se io devo gestire un milione di dollari ho bisogno per la vendita della mia idea di un marchio di qualità. È una questione di marchio di qualità naturalmente e quando parliamo di qualità ci dobbiamo rivolgere a diversi pubblici.

La responsabilità che è dietro ad un'operazione di questo genere è molto chiara, mentre invece spesso l'architetto,soprattutto quello europeo, ponendosi a grandissima distanza da qualsiasi programma, rischia di continuo di rimanere totalmente emarginato dai processi che avvengono.
Mi colpisce molto che gli architetti indubbiamente di qualità che sono oggi vicini ai cinquant'anni, abbiano realizzato qualche casetta sparsa per l'Italia: penso che sia colpa del loro atteggiamento, molto legato ad un'astrazione, come se l'architettura non avesse né committente né pubblico. È molto più difficile cercare di fare passare ugualmente una buona qualità architettonica tenendo conto del pubblico e del committente. Questo riguarda anche i grandi complessi extraurbani perché non si può dire che in Italia non ci sia stato un grossissimo sforzo di tensione verso questo.

Se pensiamo proprio agli anni settanta, quando comincia la realizzazione di grandi interventi come il Gallaratese, il Corviale, il Matteotti a Terni, indubbiamente bisogna dire che c'è stata una forte tensione nel tentativo di ridefinire il rapporto tra architetto e il grande intervento suburbano, e le risposte sono state date su un tentativo di controllare il più possibile con l'eccezionalità della forma tutto questo: la forma di aggregazione del Corviale con l'edificio lungo un chilometro era anche un tentativo di far compiere un salto ai grandi enti committenti.

Io penso che qualsiasi giudizio noi diamo su queste operazioni, dobbiamo anche tener conto che sono operazioni fatte partendo molto dall'interno del laboratorio dell'architettura e cercando di proiettarlo all'esterno il più possibile, cioè di condizionare il più possibile dall'interno dell'officina del mago l'ente esterno; indubbiamente c'erano buone ragioni dato che gli enti dell'edilizia popolare non sono certo i più coordinati, i più illuminati.

È indubbio che nella situazione attuale noi vediamo molta più qualità concentrata nel piccolo intervento piuttosto che nel grande. 

23 febbraio 2012
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Note:
1 Testo pubblicato nel primo numero – ed unico – della Rivista di Architettura Utopica, edita a Venezia dalla sezione EASA (European Architectural Students Assembly) di Venezia e realizzata dallo Staff di redazione. Uno staff composto da: Sergio Famà Tringalli, Raul Pantaleo, Massimo Lepore, Emanuela Not. Anno di pubblicazione: 1988.

5 commenti:

  1. Chiaro e cristallino come non avevo mai letto Tafuri.
    Ci sono spunti per riflettere su tutto: il ruolo dell'architetto, dei committenti privati e pubblici, gli urbanisti e la città come campo di osmosi e contrattazioni.
    Grazie per aver condiviso questa preziosa intervista.

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  2. Ciao, Wilfing Architettura è su Blog Importanti! Saluti dal team.

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  3. Rem,
    Tafuri in questa intervista è veggente.
    Anticipa tutti gli urli di qualche antropologo o architetto demagogo attuale con una chiarezza estrema.
    Ci consegna alcuni aspetti da analizzare con più coerenza ‘analitica e critica’:
    la debolezza dell’architettura ‘effetto’ (usata dagli speculatori edili e politici);
    l’architetto come avvocato a servizio del cliente (l'avvocato lavora sia per il delinquente sia per l'innocente);
    le contraddizioni della ‘grande scala’ dell’architettura a favore di piccola scala non utopica.
    la città open source (scusa la forzatura) non pensata dall’architetto ‘guru’ ma modificata da tutti.
    Infine che tenerezza il termine ‘telematica’.

    Saluti,
    Salvatore D’Agostino

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  4. Team Blog Importanti,
    grazie due volte perché sfogliando il vostro elenco ho scoperto il blog ‘Dice che a Roma…’

    Saluti,
    Salvatore D’Agostino

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  5. premetto che non sono un architetto ma un semplice appassionato di tutto ciò che riguarda l'architettura e la città, ho letto con interesse l'intervista del 1988 a M. Tafuri da parte di Utopia pubblicata sul suo blog: dopo aver parlato del progetto Bicocca Tafuri parla delle grandi trasformazioni delle città americane ( in particolare di New York), a un certo punto parla di "Hadrifax City": io ho cercato invano in internet a cosa si riferisce ma non ho trovato risposta.
    Si tratta di un progetto non realizzato? lei ne sa qualcosa? La ringrazio anticipatamente per la risposta.

    cordiali saluti RFano

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