22 aprile 2009

0006 [FUGA DI CERVELLI] Colloquio Sudafrica ---> Italia con Louis Kruger

di Salvatore D'Agostino 
Fuga di cervelli è una TAG non una definizione. La TAG è contenitore di diversi 'punti di vista'. 

L'Italia vista e progettata dai migranti.


Adelfia (BA)

Salvatore D’Agostino Louis Kruger di anni..., originario di..., migrante a, ...qual è il tuo mestiere? 

Louis Kruger quest'anno compio 50 anni. Mezzo secolo, metà trascorso in Sudafrica, sono nato a Johannesburg e l'altra metà in Italia ad Adelfia, un paesino vicino a Bari.
Faccio l'architetto, anche se preferisco il modo di dire in inglese: sono un architetto. 

Perché hai lasciato il Sudafrica? 

Principalmente per motivi politici. Sono andato via negli anni in cui lo scontro tra la politica repressiva dell’apartheid e la lotta per la liberazione dei neri stava raggiungendo l'apice. Sebbene Boero, cioè bianco afrikaner, come chi aveva instaurato il regime segregazionista, ero assolutamente contrario alle loro idee politiche, pur non sentendomi parte del movimento di lotta attiva per l'abbattimento del regime. Ho preferito andare via come disertore, rifiutando di prestare servizio militare che all'epoca significava combattere chi voleva un Sudafrica libero.



Qual è stata la tua formazione professionale in Sudafrica?

Mi sono laureato all'università del Witwatersrand a Johannesburg, una facoltà che insegnava col metodo Bauhaus, teoria pratica, mirata sempre verso la produzione, verso il mondo del lavoro. La creatività non fine a se stessa, non un oggetto di culto, ma qualcosa a portata di tutti. L'intero quarto anno del nostro piano di studi prevedeva il lavoro presso uno studio di architettura, per poi ritornare altri due anni all'università, cosciente della professione che ci attendeva. 
La facoltà aveva docenti che in passato erano in stretto collegamento con Le Corbusier, portando "International Style" in Sudafrica, mitigandolo in seguito in un'architettura più regionale con influenza di Marcel Breuer, di Richard Neutra, di Rudolf Schindler e sopratutto di Oscar Niemeyer. 
Amancio D'Alpoim Guedes, membro del CIAM e dopo del Team 10 era il preside della facoltà. 
Leon Van Schaik, il mio professore di progettazione, ha il merito di aver portato la facoltà di architettura di Melbourne , prima come preside e dopo come Innovation Professor, a essere considerata una delle 10 migliori facoltà di architettura nel mondo.
Anche mio padre era un architetto ed è morto in un incidente stradale quando avevo dieci anni. Sono nato nella casa di un architetto, cresciuto in case di architetti e ho progettato la mia prima casa all'età di ventuno anni. Una nuova casa per il secondo matrimonio di un cliente di mio padre. In Sudafrica chiunque può presentare un progetto e farlo approvare al comune e chiunque può realizzare la propria abitazione. Non so se la burocrazia è arrivata nel frattempo anche lì.

Qual è stato invece il tuo percorso in Italia?

In un certo senso è stata la mia rivoluzione privata, mi sento di aver espiato, in parte, le colpe del mio popolo di origine, con tutte le difficoltà che ho dovuto affrontare. Appena arrivato in Italia ho scoperto che la mia laurea non era riconosciuta, non c'erano rapporti di reciprocità tra l'Italia e il Sudafrica.  Ottenere questo riconoscimento non è stato facile. Il sacrificio maggiore è stato affrontare la burocrazia per ottenere l’iscrizione alla facoltà di architettura. Studiare è stato più semplice. 
Nel frattempo ho imparato la lingua italiana e contemporaneamente la burocrazia italiana. Ora, con la lingua me la cavo, con la burocrazia ancora poco. 
Dopo quasi tre anni, un travaglio lunghissimo, mi sono iscritto alla Facoltà di architettura di Pescara, l'università più vicina, all'epoca non c'era ancora quella di Bari. 
Sin dal mio arrivo in Italia ho cominciato a lavorare in uno studio tecnico a Bari, rilasciando regolari fatture come "disegnatore" una fortuna, vedendo e capendo lentamente la situazione italiana. Quindi studiavo e lavoravo. 
Un po’ per il mio carattere, ma sopratutto influenzato dalla mentalità italiana, mi sentivo incapace di muovermi, cambiare, trovare di meglio avevo perso quell'incoscienza con cui ero venuto, o meglio, quell'ingenua fiducia con cui i giovani credono che tutto sia possibile. 
Mi sono laureato nel 1989, ho superato lo scoglio dell'abilitazione e mi sono iscritto all'ordine degli architetti. 
Da un lavoretto all'altro, ho incominciato lentamente la libera professione. 
La prassi era ancora di considerare il geometra o l'ingegnere come i progettisti e l'architetto come "abbellitore" d’interni e, qualche volta, di facciate esterne. 
Con la mia formazione e con il mio operato sul territorio sono riuscito a convincere (altrettanto lentamente) i miei clienti privati e in seguito qualche impresa di costruzione, del ruolo diverso dell'architetto. 
Non è stato facile essere concorrenziale con geometri e ingegneri (richiede pazienza e umiltà) e non è stato facile essere convincente sul valore che possa avere in più l'opera architettonica (richiede una passione e una dedizione totale) e senza che costi necessariamente di più, o che sia più complicata da realizzare (richiede una coerenza e una responsabilità), ora sono nelle condizioni di poter esprimere e ricercare uno stile personale: essere contemporaneo in un contesto internazionale, ma sopratutto attento alle condizioni locali, di un'architettura legata alla storia, al clima, ai materiali e alle tecnologie e metodi costruttivi del luogo e molto condizionata dal concetto di architettura che ha la gente, rendere dinamico questo concetto. 
Attraverso il processo d’integrazione in un contesto locale, l'immigrante è in grado di identificare, rispettare e confermare le particolarità delle condizioni locali, svolgendo un ruolo reazionario ma è soprattutto grazie alla sua condizione di estraneità, che l'immigrante riesce a individuare le limitazioni locali, e (im)portare le necessarie innovazioni, svolgendo un ruolo liberatorio.

Come?

Questa dialettica è presente in tutti i miei lavori, a volte concretamente, a volte solo nel processo creativo tra me e i miei clienti. Per ovvi motivi, è più evidente nella casa che ho realizzato per la mia famiglia ad Adelfia:

  • la tipologia e l'impostazione volumetrica, con la facciata a filo strada, relativamente chiusa e solida è contestuale, integrata con gli edifici circostanti;
  • il rivestimento di lamiera ondulata funziona come facciata tecnologica, ma è sopratutto il materiale per eccellenza usato nel Sudafrica coloniale, un materiale importato dell'Inghilterra (rivoluzione industriale/prefabbricazione) un materiale indistruttibile e riutilizzabile, che caratterizza la bidonville in tutto il mondo. L'estraneità/precarietà;
  • l'impostazione spaziale è decisamente modernista (Adolf Loos, Le Corbusier, Mies Van Der Rohe) eppure, salendo le scale da un dislivello all’altro, molti mi chiedono se è stato un recupero con ristrutturazione di un'abitazione esistente;
  • l'uso dei materiali è familiare qui ad Adelfia: il tufo a vista, la pietra a secco, la pietra per terra, materiali tradizionali che però, insieme al cemento a faccia vista rappresentano i materiali della mia infanzia, quel brutalismo di mio padre e i suoi colleghi in Sudafrica, riferendosi ai materiali di Le Corbusier a Chandigarh e l'architettura di Ricard Neutra, Marcel Breuer e Rudolf Schindler, architetti europei immigrati in America.
Credi che la trasversalità delle culture dei migranti in Italia possa migliorare in positivo la nostra visione politica?

Dipende in quali circostanze. Credo che sia troppo presto per dire: «Non ci sono ancora le condizioni giuste.» Bisognerebbe attendere ancora moltissimo per poter parlare di un processo integrativo, figuriamoci il tempo che richiederà il processo culturale interattivo a cui ti riferisci. Per ora la politica è ancora alle prese con la definizione delle regole di convivenza, spinta da problemi di intolleranza e di possibili conflitti.
Possiamo parlare per ora solo di modi di convivenza, lontano ancora dalla valorizzazione del pluralismo culturale.

Leon Van Schaik sostiene che il ruolo innovativo delle architetture1 si trova nei contesti locali, luoghi dove l’architetto deve saper mediare tra lo spirito internazionale e le esigenze locali. In questi contesti più che nelle grandi città, nasce la vera sfida per l’architettura.

Certamente non un’architettura vernacolare, ma un'architettura in grado di mediare, come dici tu, esigenze non soltanto fisiche (materiali, clima, metodi di costruzione, tecnologia, ma sopratutto quelle umane, di chi vive l'architettura (anche chi la produce), dei luoghi specifici e gruppi di persone specifici. Spesso nelle situazioni in cui si incontra una certa resistenza alla creatività personale, si affinano nuove capacità particolari, mettendo spesso in dubbio valori che sono, o rigurgitati come verità, o importati senza nessun'occhio critico da altrove. Sono convinto anch'io, che nei piccoli contesti più che nelle grandi città, nasce una delle sfide più interessanti per l'architettura, le sfide sono tante.

22 aprile 2009
Intersezioni ---> Fuga di cervelli

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1 definita al plurale in contrapposizione all'architettura degli ambienti accademici, architetture spesso ignorate. Leon Van Schaik, 'Mastering Architecture, Becoming a Creative Innovator in Practice', Wiley & Sons, Chicheste, 2005.

Foto archivio Louis Kruger

4 commenti:

  1. ho appena letto il colloquio fra te e louis. forse perché ne conosco la storia personale, o perché lo considero in molti sensi un fratello maggiore, che tanto mi ha insegnato sull'architettura e sulla vita, anche ma non solo nelle nottate passate a disegnare per il concorso per southbank, in pieno agosto, mentre tutti pensavano solo alle vacanze...ma ho trovato questo colloquio quasi commovente. il tema dell'emigrazione, come sai, mi tocca personalmente, e questa storia, tanto diversa dalla mia (che sono partito da una situazione di svantaggio per approdare in un "porto felice"), mi dà da riflettere su quello che forse avrei potuto fare nella mia terra se fossi stato più caparbio, o se il sistema non mi avesse "preso per fame", per dirla alla de andré.
    È un peccato che tu non possa pubblicare foto dell'interno di casa di louis, e che le foto non ne possano rendere la complessità spaziale, il continuo compenetrarsi dei livelli e degli spazi che ti impediscono di dire che esiste un piano terra, un primo piano... quel raffinato brutalismo che ti fa apprezzare anche i materiali poveri, che rende anche una parete intonacata a cazzuola una sorta di quadro astratto. e soprattutto che non si possa rendere il processo di rielaboraizone continua che fanno della casa dell'architetto, di louis nel caso specifico, un non finito in continua evoluzione.

    Michele Moschini

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  2. Bhè, oltre all'ammirazione per il progetto della propria casa, che trovo almeno dal prospetto molto interessante (poi leggendo il commento di Michele Moschini mi viene ancora più curiosità) trovo che Louis Kruger sia veramente uno degli ultimi eroi! Pochi hanno il coraggio e la costanza di ricominciare completamente da capo, ricostruire la propria vita, ricominciare a laurearsi, fare il pendolare addirittura tra due regioni... Una "storia" di architettura veramente interessante!

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  3. ---> Michele,
    grazie per il tuo commento anch’io ho provato la tua stessa emozione.
    Ho già fatto un’eccezione nel pubblicare la foto della casa, se è possibile, vorrei distaccarmi dalla tendenza di accostare a uno scritto un’immagine esemplificativa, amo la narrazione aperta e non quella didascalica.
    Infine grazie per il tuo lavoro, non dolerti viviamo in un’Italia ingrata (senza retorica).
    Saluti,
    Salvatore D’Agostino

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  4. ---> Peja,
    semplicemente concordo.
    Saluti,
    Salvatore D’Agostino

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