Cristiano de Majo sul mensile Diario di questo mese ha scritto un lungo articolo ponendo delle domande alle ultime generazioni di sinistra, dal 68' in poi: «Perché nessuna di queste persone si preoccupa di misurare le proprie responsabilità? In nome di cosa continuiamo a sentirci migliori?»
A mio parere c'è una generazione vincente che ha eletto la più giovane presidente della Camera della storia italiana, Irene Pivetti, a soli 31 anni; Mara Carfagna, Ministro per le Pari Opportunità a solo 33 anni; Daniele Capezzone, portavoce del Popolo della Libertà a 37 anni e Mariastella Gelmini, Ministro dell'Istruzione, Università e Ricerca a 36 anni, una generazione importante che non può essere dileggiata e sottovalutata dagli intellettuali di sinistra.
Recentemente Eugenio Scalfari sulla Repubblica, del 19 aprile 2009, "Chi canta fuori dal coro è comunista"1 conclude così: «Bisogna resistere per costruire il futuro.». Una frase antica e perdente ricorda il monito dell'allora procuratore capo di Milano Francesco Saverio Borrelli: «Resistere, resistere, resistere»2
Da troppi anni, si resiste, senza agire. È arrivato il momento di uscire fuori dalla trincea dello snobismo culturale e sporcarsi un po' le mani.
«Spostate quei soldi, per favore, nella scuola e nella televisione. Il Paese reale è lì, ed è lì la battaglia che dovremmo combattere con quei soldi. Perché mai lasciamo scappare mandrie intere dal recinto, senza battere ciglio, per poi dannarci a inseguire i fuggitivi, uno ad uno, tempo dopo, a colpi di teatri, musei, festival, fiere e eventi, dissanguandoci in un lavoro assurdo?»3 (Alessandro Baricco)
Occorre spostarsi nel paese reale e non continuare a compiacerci senza assumerci le responsabilità, dice Cristiano de Majo. Con il suo consenso pubblico l'articolo sopracitato.4
Buona lettura.
1Eugenio Scalfari 'Chi canta fuori dal coro è comunista', La Repubblica, 19 aprile 2009.
2s. a. Borrelli, Appello ai giudici 'Resistere come sul Piave', La Repubblica, 12 gennaio 2002.
3Alessandro Baricco, 'Basta soldi pubblici al teatro meglio puntare su scuola e tv', La Repubblica, 24 febbraio 2009.
4Mail di contatto:
Cristiano,
letto. Mi piacerebbe pubblicare l'intero articolo sul mio blog per tastare, attraverso i commenti, gli umori.
Che ne pensi?
Aspetto tue notizie a tal proposito.
SD
Inviato: lunedì 20 aprile 2009 18.19
caro salvatore, puoi pubblicare l'articolo quando vuoi.
ciao e grazie
Inviato: lunedì 20 aprile 2009 19.55
5Antonio Moresco, 'La restaurazione', sito Nazione Indiana, 22 marzo 2005: http://www.nazioneindiana.com/2005/04/09/la-restaurazione/
A mio parere c'è una generazione vincente che ha eletto la più giovane presidente della Camera della storia italiana, Irene Pivetti, a soli 31 anni; Mara Carfagna, Ministro per le Pari Opportunità a solo 33 anni; Daniele Capezzone, portavoce del Popolo della Libertà a 37 anni e Mariastella Gelmini, Ministro dell'Istruzione, Università e Ricerca a 36 anni, una generazione importante che non può essere dileggiata e sottovalutata dagli intellettuali di sinistra.
Recentemente Eugenio Scalfari sulla Repubblica, del 19 aprile 2009, "Chi canta fuori dal coro è comunista"1 conclude così: «Bisogna resistere per costruire il futuro.». Una frase antica e perdente ricorda il monito dell'allora procuratore capo di Milano Francesco Saverio Borrelli: «Resistere, resistere, resistere»2
Da troppi anni, si resiste, senza agire. È arrivato il momento di uscire fuori dalla trincea dello snobismo culturale e sporcarsi un po' le mani.
«Spostate quei soldi, per favore, nella scuola e nella televisione. Il Paese reale è lì, ed è lì la battaglia che dovremmo combattere con quei soldi. Perché mai lasciamo scappare mandrie intere dal recinto, senza battere ciglio, per poi dannarci a inseguire i fuggitivi, uno ad uno, tempo dopo, a colpi di teatri, musei, festival, fiere e eventi, dissanguandoci in un lavoro assurdo?»3 (Alessandro Baricco)
Occorre spostarsi nel paese reale e non continuare a compiacerci senza assumerci le responsabilità, dice Cristiano de Majo. Con il suo consenso pubblico l'articolo sopracitato.4
Buona lettura.
In nome di cosa continuiamo a sentirci migliori?
Che cos’è il potere? Se un giorno mio figlio dovesse rivolgermi questa domanda, dilaniato dagli scrupoli, finirei per dargli una risposta evasiva. Per evitare condizionamenti di qualsiasi genere, formulerei un aforisma prêt-à-porter, un esercizio pedagogico interlocutorio in attesa che cresca: Il potere, figliolo, è la cosa che cerca in tutti i modi di impedire la tua espressione personale e professionale, qualunque cosa o persona ti scelga come nemico. Inventerei qualcosa del genere, senza fare nomi e senza chiamare in causa i massimi sistemi. E comunque eviterei accuratamente di prospettargli la possibilità di cambiare le cose. A questo mio figlio che non esiste ancora cercherei infondere disillusione a priori. Quella che io, durante la mia infanzia, non ho avuto. Perché ho sempre saputo da che parte stare fino a che non è arrivato il futuro.
Nato nella metà degli anni Settanta, faccio parte di una generazione cresciuta sotto l’ombrello di troppe certezze e che, per contrappasso, si è trovata risucchiata nei buchi neri di un’incertezza cosmica. Fin dalla più tenera età sono stato indottrinato, ma in un modo naturale, involontario, visto che non ci potevano essere dubbi su quale fosse la verità e dove risiedesse. A cinque anni leggevo Repubblica e Paese Sera seduto in braccio a mio padre. E più o meno a quell’età ho imparato la fondamentale distinzione tra bene (sinistra) e male (destra, centro, religione, Andreotti).
Mi tornano in mente le domeniche, quando ascoltavamo Banana Republic, il live del mitico tour De Gregori - Dalla del 1979, mentre nel nostro appartamento venivano celebrate rievocazioni ufficiali della contestazione. Ero fiero che i miei genitori, come dicevano loro, avessero fatto il Sessantotto e che mia madre avesse partecipato ai gruppi femministi di autocoscienza e che per un certo periodo avesse distribuito Lotta Continua all’università. Mi piaceva sentire quelle storie, che mi facevano venire voglia di tornare indietro nel tempo per contribuire alla causa a modo io, o anche solo per poter dire di esserci stato. A quattordici anni ero lo spettatore della Notte della Repubblica che tifava contro Sergio Zavoli.
D’estate andavamo in campeggi sulla costa greca frequentati esclusivamente da gente di una certa frangia. Erano giornalisti del Manifesto, insegnanti universitari con fantomatici trascorsi nei Nap, psichiatri antistrutturalisti che avevano fatto i candidati nelle liste di Democrazia Proletaria. Sentivo come il privilegio di essere parte di un’elite di migliori. I peggiori non li avevo mai visti. Ma immaginavo si nascondessero nel potere, la forza oscura che aveva impedito all’utopia di avverarsi.
Agli inizi degli anni Novanta ero abbastanza grande per assistere coi miei occhi alla stagione del cambiamento. L’implosione del potere reazionario che per cinquant’anni aveva tenuto in pugno l’Italia stava lasciando enormi spazi vuoti che sarebbero stati riempiti con dosi massicce di speranza. A Napoli, la mia città, l’elezione di Antonio Bassolino fu salutata come un momento di profondo rinnovamento, una specie di rivoluzione elettorale che avrebbe persino spinto qualcuno a intonare The times They’re a-Changin’. Se ci penso adesso, è incredibile come nella figura di un uomo di apparato – un uomo che avrebbe fatto dell’esercizio del potere la propria ragion d’essere politica – si concentrassero un miscuglio di aspettative così campate in aria. Di certo nessuno si aspettava il sovvertimento del sistema capitalista, ma nelle persone che conoscevo, nei miei genitori e nei loro amici, potevo intravedere un luccichio negli occhi, un senso di risarcimento per tutte le battaglie perse, le delusioni, le soddisfazioni che il potere aveva loro negato. Quella elezione, insieme ad altre, fu anche una specie di rimborso generazionale. E quindi, ancora una volta, un investimento di illusioni, fatto di quel tipico sentimento di speranza estraneo alla realpolitik che, in modo del tutto incongruo, continua, anche oggi ma più flebilmente, a percorrere lo spirito di certe manifestazioni del Pd o della sinistra radicale. Si percepisce negli inni di Fossati che risuonano, nelle bandiere che sventolano quando qualche oligarca ancora ben voluto sale sul palco di una piazza, nell’abbigliamento dei ragazzi, figli di famiglie di sinistra, passate senza soluzione di continuità dal culto di Marcuse a quello di Dario Franceschini.
Quando qualche volta mi capita di parlare con i miei genitori e i loro amici, sessantenni delusi ed estranei a qualsiasi tipo di partecipazione che veleggiano sulle acque calme delle gratificazioni spirituali ed enogastronomiche, e affronto la delicata questione del giudizio su ciò che di buono la loro generazione ha fatto, finisco quasi sempre per litigare con tutti. La loro versione della storia non mi convince, continua ad assomigliare troppo a una fiaba senza lieto fine dove i buoni avrebbero potuto vincere se non fosse stato per i cattivi (che hanno sempre la meglio). Quello che rimprovero loro è il sottrarsi a qualsiasi ammissione di responsabilità. Di solito mi rispondono che almeno ci hanno provato a fare le battaglie che andavano fatte e hanno comunque contribuito a migliorare il Paese, mentre noi – la generazione di cui faccio parte – non abbiamo neanche tentato di fare qualcosa. La mia obiezione è che il senso di quelle battaglie va letto alla luce di cosa è successo dopo. E, sotto questa luce, le famose battaglie non sembrano avere avuto molto senso se si pensa all’Italia berlusconiana o alla condizione disperatamente priva di prospettive che la maggior parte dei miei coetanei si trova ad affrontare. Sono anche loro – la generazione dei Veltroni, dei D’Alema, dei Cacciari, baby boomer passati dalle più ambiziose utopie al pragmatismo prussiano – ad avere lasciato ai propri figli quest’Italia, un luogo brado e senza futuro dove vige la legge del più forte e l’ingiustizia sociale è una prassi consolidata.
Qualche tempo fa, proprio nel corso di uno di questi rendez-vous intergenerazionali, sfinito da una discussione su Berlusconi come unica causa dei nostri guasti, mi sono messo a urlare: «Siete degli ingenui». Qualcuno mi ha urlato di rimando: «Allora spiegacelo tu cos’è il potere».
Ho capito che il problema era il diverso significato che stavamo attribuendo alla parola. Pur continuando a identificare in modo quasi automatico la parola potere con l’immagine del volgare imprenditore brianzolo tirato e abbronzato mentre passeggia con la bandana a Porto Cervo, il mio modo di relazionarmi al potere aveva cessato di essere un fatto puramente astratto. Avevo conosciuto un potere familiare e insospettabile, elegante e colto, che in qualche modo aveva demolito le mie ultime certezze.
Per fare capire ai miei genitori e ai loro amici cosa cercavo di dire, avrei potuto consigliare la lettura delle Lettere a nessuno di Antonio Moresco, quadro avvilente, tragico, grottesco del potere culturale italiano, uscito nel 1991 per Bollati Boringhieri e di recente ristampato da Einaudi.
È un libro in cui, attraverso appunti, stralci e lettere, Moresco racconta pezzi della sua vita, dagli anni Settanta, Ottanta, fino al momento della rinascita come scrittore celebrato e odiato, stimato e villipeso. La parabola delinea in modo preciso e disperato un’estenuante lotta donchisciottesca contro il potere. Dapprima, con l’impegno politico in un gruppuscolo della sinistra extraparlamentare – una vita di stenti, delusioni, frustrazioni, e fiducia mal riposta – e poi, con i tentativi di fare leggere i suoi scritti, o quantomeno di farsi ascoltare, da alcuni illustri esponenti della cultura italiana (i nessuno del titolo). Quali che siano il contesto storico e lo scenario, Moresco appare sempre come una formichina alle prese con cose titaniche e impossibili da combattere. Ma le sue lettere a Giovanni Raboni, Maria Corti, Goffredo Fofi e il fastidio o – nel migliore dei casi – il silenzio che riceve in cambio danno esattamente la misura di come le articolazioni del potere siano multiformi e mascherate. Ne esce fuori il ritratto di un Paese dove pubblicare un libro senza uniformarsi alla logica dominante – la logica delle amicizie e delle leccate di culo, dei libri scritti per andare incontro al gusto del pubblico – può risultare utopistico come realizzare una nuova rivoluzione d’ottobre.
Leggendo mi è venuto da pensare che per chi non si adegua all’esistente è sempre dietro l’angolo il rischio di fare la parte del martire. Così come lo diventa Moresco, la cui figura nel corso della lettura assume proprio la forma di un martire laico che a un certo punto si convince della sua santità. Ma bisognerebbe ribaltare la prospettiva, perché, parafrasando un vecchio adagio di sinistra, è proprio questo il caso in cui il personale deve diventare politico.
In Italia la cultura continua a essere un campo sostanzialmente di sinistra – l’ultimo settore monopolizzato dalla sinistra – ma se si volesse descrivere onestamente lo stato attuale dell’industria culturale con lo stesso grado di severità che impieghiamo per descrivere la situazione politica, si potrebbe utilizzare una lista di aggettivi simili: disastroso, dittatoriale, populista, ambiguo.
Anche qui siamo nel regno delle diseguaglianze e del conformismo, dello sfruttamento e della doppia morale. Siamo in un sistema che non è in grado di riconoscere a un testo un adeguato valore economico, a meno che l’autore di quel testo non sia uno scrittore di successo che abbia già sfondato il mercato. Nello stesso tempo abbiamo un mercato che dimostra una grande ostilità nei confronti dei prodotti difficili e quindi – da un punto di vista letterario, cinematografico, televisivo – finisce per scommettere sempre sul sicuro, sull’opera media. Viviamo, peraltro, una sindrome da trincea, in ragione della quale finiscono per essere privilegiati gli autori e le opere schierati aprioristicamente, rispetto agli sguardi obliqui, dissonanti, disturbanti, realmente anticonformisti.
La mia esperienza, che del resto è simile a quella delle persone che conosco e che fanno il mio stesso lavoro – e che quindi non è martirologica ma sistemica – delinea il quadro di una cultura autoritaria, forte con i deboli e in definitiva non libera.
Innanzitutto perché lavorare nel campo della cultura – nei giornali, nelle case editrici – molto spesso, a meno di non essere scrittori di best seller, significa abituarsi a non essere pagati, oppure a essere pagati a piacere, il che è un terribile sintomo di come la cultura stessa sia considerata un optional, una ginnastica mentale per gente ricca di famiglia, qualcosa di cui in definitiva si può anche fare a meno.
E poi ci sono le case editrici – assolutamente di sinistra – sempre più assetate di libri «freschi» e «divertenti», che possano «stuzzicare il lettore» senza essere «troppo pesanti». E che dunque a quest’atmosfera nazionale che – ne sono certo – si spingerebbero a definire plumbea, opprimente, fascistoide, volgarmente incolta, offrono la risposta dell’Intrattenimento, della volatilità, della facilità spacciata per cultura sopraffina. Che poi è la logica che guida manifestazioni come lo Strega, l’unico premio letterario al mondo dove a essere ricompensata non è la qualità o l’eventuale novità di un testo, ma la sua vendibilità.
Infine i metodi della cooptazione, che sono ancora una volta praticati attraverso lottizzazioni, corsie preferenziali, conoscenze, adulazioni. Letteralmente impossibile realizzare la normalità di essere ricevuti da chicchessia a seguito di invio del curriculum.
Lo stesso Moresco, che in un celebre articolo scritto qualche anno fa, intitolato La restaurazione5 ce fonte di molte polemiche sui blog letterari, diceva cose simili, ha giustamente fatto notare che mentre è pacifico sostenere che l’Italia sia un Paese affetto da una «intossicazione delle forme economico-politiche e democratiche», non lo è altrettanto sostenere che quest’intossicazione riguardi anche la cosiddetta cultura.
Deve essere per colpa di questa cecità che a un tratto ho incominciato a sviluppare un odio viscerale per i miti mediatici della sinistra contemporanea. Propugnatori della qualità come Fabio Fazio e Roberto Benigni e Giovanni Floris e Serena Dandini. Ognuno a suo modo ha coltivato la propria arcadia televisiva, ritenendosi esente da qualsiasi contagio, e continuando la sua opera di pedagogia delle masse. Nessuno di loro ammetterebbe di essere stato inoffensivo, o addirittura funzionale alla macchina del potere. Eppure ci dev’essere un motivo se in questo cosiddetto ventennio berlusconiano hanno continuato a lavorare, a percepire stipendi milionari, a occupare il loro spazio di potere, stabilendo cosa dovesse essere letto (Paolo Giordano), ascoltato (Giovanni Allevi), visto (Ferzan Ozpetek) – ancora intrattenimento spacciato per elevato nutrimento che soltanto loro sanno offrire – e proteggendo le loro reti di amicizie, e identificando nella destra la causa di tutti i mali, o esercitando sulla sinistra un giudizio dolcemente critico, bonario e di prammatica, come un rimprovero paterno.
Tutte queste persone di sinistra si troverebbero senz’altro d’accordo sul fatto che l’Italia sia oppressa da un’odiosa forma di potere, ma ancora una volta qual è il loro contributo? Perché nessuna di queste persone si preoccupa di misurare le proprie responsabilità? In nome di cosa continuiamo a sentirci migliori?
© Cristiano de Majo
Articolo pubblicato sul mensile Diario, aprile 2009, anno XIV n.6
Consiglio:
da ascoltare una puntata di radio tre, programma Fahrenheit, 'I trentenni dell'era Berlusconi' del 8 aprile 2009. Ospite Cristiano de Majo.
Mi tornano in mente le domeniche, quando ascoltavamo Banana Republic, il live del mitico tour De Gregori - Dalla del 1979, mentre nel nostro appartamento venivano celebrate rievocazioni ufficiali della contestazione. Ero fiero che i miei genitori, come dicevano loro, avessero fatto il Sessantotto e che mia madre avesse partecipato ai gruppi femministi di autocoscienza e che per un certo periodo avesse distribuito Lotta Continua all’università. Mi piaceva sentire quelle storie, che mi facevano venire voglia di tornare indietro nel tempo per contribuire alla causa a modo io, o anche solo per poter dire di esserci stato. A quattordici anni ero lo spettatore della Notte della Repubblica che tifava contro Sergio Zavoli.
D’estate andavamo in campeggi sulla costa greca frequentati esclusivamente da gente di una certa frangia. Erano giornalisti del Manifesto, insegnanti universitari con fantomatici trascorsi nei Nap, psichiatri antistrutturalisti che avevano fatto i candidati nelle liste di Democrazia Proletaria. Sentivo come il privilegio di essere parte di un’elite di migliori. I peggiori non li avevo mai visti. Ma immaginavo si nascondessero nel potere, la forza oscura che aveva impedito all’utopia di avverarsi.
Agli inizi degli anni Novanta ero abbastanza grande per assistere coi miei occhi alla stagione del cambiamento. L’implosione del potere reazionario che per cinquant’anni aveva tenuto in pugno l’Italia stava lasciando enormi spazi vuoti che sarebbero stati riempiti con dosi massicce di speranza. A Napoli, la mia città, l’elezione di Antonio Bassolino fu salutata come un momento di profondo rinnovamento, una specie di rivoluzione elettorale che avrebbe persino spinto qualcuno a intonare The times They’re a-Changin’. Se ci penso adesso, è incredibile come nella figura di un uomo di apparato – un uomo che avrebbe fatto dell’esercizio del potere la propria ragion d’essere politica – si concentrassero un miscuglio di aspettative così campate in aria. Di certo nessuno si aspettava il sovvertimento del sistema capitalista, ma nelle persone che conoscevo, nei miei genitori e nei loro amici, potevo intravedere un luccichio negli occhi, un senso di risarcimento per tutte le battaglie perse, le delusioni, le soddisfazioni che il potere aveva loro negato. Quella elezione, insieme ad altre, fu anche una specie di rimborso generazionale. E quindi, ancora una volta, un investimento di illusioni, fatto di quel tipico sentimento di speranza estraneo alla realpolitik che, in modo del tutto incongruo, continua, anche oggi ma più flebilmente, a percorrere lo spirito di certe manifestazioni del Pd o della sinistra radicale. Si percepisce negli inni di Fossati che risuonano, nelle bandiere che sventolano quando qualche oligarca ancora ben voluto sale sul palco di una piazza, nell’abbigliamento dei ragazzi, figli di famiglie di sinistra, passate senza soluzione di continuità dal culto di Marcuse a quello di Dario Franceschini.
Quando qualche volta mi capita di parlare con i miei genitori e i loro amici, sessantenni delusi ed estranei a qualsiasi tipo di partecipazione che veleggiano sulle acque calme delle gratificazioni spirituali ed enogastronomiche, e affronto la delicata questione del giudizio su ciò che di buono la loro generazione ha fatto, finisco quasi sempre per litigare con tutti. La loro versione della storia non mi convince, continua ad assomigliare troppo a una fiaba senza lieto fine dove i buoni avrebbero potuto vincere se non fosse stato per i cattivi (che hanno sempre la meglio). Quello che rimprovero loro è il sottrarsi a qualsiasi ammissione di responsabilità. Di solito mi rispondono che almeno ci hanno provato a fare le battaglie che andavano fatte e hanno comunque contribuito a migliorare il Paese, mentre noi – la generazione di cui faccio parte – non abbiamo neanche tentato di fare qualcosa. La mia obiezione è che il senso di quelle battaglie va letto alla luce di cosa è successo dopo. E, sotto questa luce, le famose battaglie non sembrano avere avuto molto senso se si pensa all’Italia berlusconiana o alla condizione disperatamente priva di prospettive che la maggior parte dei miei coetanei si trova ad affrontare. Sono anche loro – la generazione dei Veltroni, dei D’Alema, dei Cacciari, baby boomer passati dalle più ambiziose utopie al pragmatismo prussiano – ad avere lasciato ai propri figli quest’Italia, un luogo brado e senza futuro dove vige la legge del più forte e l’ingiustizia sociale è una prassi consolidata.
Qualche tempo fa, proprio nel corso di uno di questi rendez-vous intergenerazionali, sfinito da una discussione su Berlusconi come unica causa dei nostri guasti, mi sono messo a urlare: «Siete degli ingenui». Qualcuno mi ha urlato di rimando: «Allora spiegacelo tu cos’è il potere».
Ho capito che il problema era il diverso significato che stavamo attribuendo alla parola. Pur continuando a identificare in modo quasi automatico la parola potere con l’immagine del volgare imprenditore brianzolo tirato e abbronzato mentre passeggia con la bandana a Porto Cervo, il mio modo di relazionarmi al potere aveva cessato di essere un fatto puramente astratto. Avevo conosciuto un potere familiare e insospettabile, elegante e colto, che in qualche modo aveva demolito le mie ultime certezze.
Per fare capire ai miei genitori e ai loro amici cosa cercavo di dire, avrei potuto consigliare la lettura delle Lettere a nessuno di Antonio Moresco, quadro avvilente, tragico, grottesco del potere culturale italiano, uscito nel 1991 per Bollati Boringhieri e di recente ristampato da Einaudi.
È un libro in cui, attraverso appunti, stralci e lettere, Moresco racconta pezzi della sua vita, dagli anni Settanta, Ottanta, fino al momento della rinascita come scrittore celebrato e odiato, stimato e villipeso. La parabola delinea in modo preciso e disperato un’estenuante lotta donchisciottesca contro il potere. Dapprima, con l’impegno politico in un gruppuscolo della sinistra extraparlamentare – una vita di stenti, delusioni, frustrazioni, e fiducia mal riposta – e poi, con i tentativi di fare leggere i suoi scritti, o quantomeno di farsi ascoltare, da alcuni illustri esponenti della cultura italiana (i nessuno del titolo). Quali che siano il contesto storico e lo scenario, Moresco appare sempre come una formichina alle prese con cose titaniche e impossibili da combattere. Ma le sue lettere a Giovanni Raboni, Maria Corti, Goffredo Fofi e il fastidio o – nel migliore dei casi – il silenzio che riceve in cambio danno esattamente la misura di come le articolazioni del potere siano multiformi e mascherate. Ne esce fuori il ritratto di un Paese dove pubblicare un libro senza uniformarsi alla logica dominante – la logica delle amicizie e delle leccate di culo, dei libri scritti per andare incontro al gusto del pubblico – può risultare utopistico come realizzare una nuova rivoluzione d’ottobre.
Leggendo mi è venuto da pensare che per chi non si adegua all’esistente è sempre dietro l’angolo il rischio di fare la parte del martire. Così come lo diventa Moresco, la cui figura nel corso della lettura assume proprio la forma di un martire laico che a un certo punto si convince della sua santità. Ma bisognerebbe ribaltare la prospettiva, perché, parafrasando un vecchio adagio di sinistra, è proprio questo il caso in cui il personale deve diventare politico.
In Italia la cultura continua a essere un campo sostanzialmente di sinistra – l’ultimo settore monopolizzato dalla sinistra – ma se si volesse descrivere onestamente lo stato attuale dell’industria culturale con lo stesso grado di severità che impieghiamo per descrivere la situazione politica, si potrebbe utilizzare una lista di aggettivi simili: disastroso, dittatoriale, populista, ambiguo.
Anche qui siamo nel regno delle diseguaglianze e del conformismo, dello sfruttamento e della doppia morale. Siamo in un sistema che non è in grado di riconoscere a un testo un adeguato valore economico, a meno che l’autore di quel testo non sia uno scrittore di successo che abbia già sfondato il mercato. Nello stesso tempo abbiamo un mercato che dimostra una grande ostilità nei confronti dei prodotti difficili e quindi – da un punto di vista letterario, cinematografico, televisivo – finisce per scommettere sempre sul sicuro, sull’opera media. Viviamo, peraltro, una sindrome da trincea, in ragione della quale finiscono per essere privilegiati gli autori e le opere schierati aprioristicamente, rispetto agli sguardi obliqui, dissonanti, disturbanti, realmente anticonformisti.
La mia esperienza, che del resto è simile a quella delle persone che conosco e che fanno il mio stesso lavoro – e che quindi non è martirologica ma sistemica – delinea il quadro di una cultura autoritaria, forte con i deboli e in definitiva non libera.
Innanzitutto perché lavorare nel campo della cultura – nei giornali, nelle case editrici – molto spesso, a meno di non essere scrittori di best seller, significa abituarsi a non essere pagati, oppure a essere pagati a piacere, il che è un terribile sintomo di come la cultura stessa sia considerata un optional, una ginnastica mentale per gente ricca di famiglia, qualcosa di cui in definitiva si può anche fare a meno.
E poi ci sono le case editrici – assolutamente di sinistra – sempre più assetate di libri «freschi» e «divertenti», che possano «stuzzicare il lettore» senza essere «troppo pesanti». E che dunque a quest’atmosfera nazionale che – ne sono certo – si spingerebbero a definire plumbea, opprimente, fascistoide, volgarmente incolta, offrono la risposta dell’Intrattenimento, della volatilità, della facilità spacciata per cultura sopraffina. Che poi è la logica che guida manifestazioni come lo Strega, l’unico premio letterario al mondo dove a essere ricompensata non è la qualità o l’eventuale novità di un testo, ma la sua vendibilità.
Infine i metodi della cooptazione, che sono ancora una volta praticati attraverso lottizzazioni, corsie preferenziali, conoscenze, adulazioni. Letteralmente impossibile realizzare la normalità di essere ricevuti da chicchessia a seguito di invio del curriculum.
Lo stesso Moresco, che in un celebre articolo scritto qualche anno fa, intitolato La restaurazione5 ce fonte di molte polemiche sui blog letterari, diceva cose simili, ha giustamente fatto notare che mentre è pacifico sostenere che l’Italia sia un Paese affetto da una «intossicazione delle forme economico-politiche e democratiche», non lo è altrettanto sostenere che quest’intossicazione riguardi anche la cosiddetta cultura.
Deve essere per colpa di questa cecità che a un tratto ho incominciato a sviluppare un odio viscerale per i miti mediatici della sinistra contemporanea. Propugnatori della qualità come Fabio Fazio e Roberto Benigni e Giovanni Floris e Serena Dandini. Ognuno a suo modo ha coltivato la propria arcadia televisiva, ritenendosi esente da qualsiasi contagio, e continuando la sua opera di pedagogia delle masse. Nessuno di loro ammetterebbe di essere stato inoffensivo, o addirittura funzionale alla macchina del potere. Eppure ci dev’essere un motivo se in questo cosiddetto ventennio berlusconiano hanno continuato a lavorare, a percepire stipendi milionari, a occupare il loro spazio di potere, stabilendo cosa dovesse essere letto (Paolo Giordano), ascoltato (Giovanni Allevi), visto (Ferzan Ozpetek) – ancora intrattenimento spacciato per elevato nutrimento che soltanto loro sanno offrire – e proteggendo le loro reti di amicizie, e identificando nella destra la causa di tutti i mali, o esercitando sulla sinistra un giudizio dolcemente critico, bonario e di prammatica, come un rimprovero paterno.
Tutte queste persone di sinistra si troverebbero senz’altro d’accordo sul fatto che l’Italia sia oppressa da un’odiosa forma di potere, ma ancora una volta qual è il loro contributo? Perché nessuna di queste persone si preoccupa di misurare le proprie responsabilità? In nome di cosa continuiamo a sentirci migliori?
© Cristiano de Majo
Articolo pubblicato sul mensile Diario, aprile 2009, anno XIV n.6
Consiglio:
da ascoltare una puntata di radio tre, programma Fahrenheit, 'I trentenni dell'era Berlusconi' del 8 aprile 2009. Ospite Cristiano de Majo.
intersezioni --->SPECULAZIONE
Come usare WA ---------------------------------------------------Cos'è WA__________________________________________
1Eugenio Scalfari 'Chi canta fuori dal coro è comunista', La Repubblica, 19 aprile 2009.
2s. a. Borrelli, Appello ai giudici 'Resistere come sul Piave', La Repubblica, 12 gennaio 2002.
3Alessandro Baricco, 'Basta soldi pubblici al teatro meglio puntare su scuola e tv', La Repubblica, 24 febbraio 2009.
4Mail di contatto:
Cristiano,
letto. Mi piacerebbe pubblicare l'intero articolo sul mio blog per tastare, attraverso i commenti, gli umori.
Che ne pensi?
Aspetto tue notizie a tal proposito.
SD
Inviato: lunedì 20 aprile 2009 18.19
caro salvatore, puoi pubblicare l'articolo quando vuoi.
ciao e grazie
Inviato: lunedì 20 aprile 2009 19.55
5Antonio Moresco, 'La restaurazione', sito Nazione Indiana, 22 marzo 2005: http://www.nazioneindiana.com/2005/04/09/la-restaurazione/
Spostare i soldi alla scuola. eppure sono , siamo, siete, ridurre a spostare la più grande protesta popolare e studentesca degli ultimi 10 anni , quella per una scuola sana, libera e di qualità, alla lotta terribile per il lavoro dei precari, cosa nobile, ma che finisce per annoiare chi precario non ... Visualizza altroè. Sono, siete, siamo, riusciti a spegnere la meravigliosa onda per la difesa della cultura e della coscienza in modo misero, limitato, inutile. a me viene da urlare quando giro per le scuole e vedo i visi spenti dei miei colleghi, perchè lasciati soli in una battaglia che non doveva essere solo la loro. Ecco perchè la sinistra perde. E non esagero. Perchè ha abbandonato il mondo della cultura. La difesa di quel mondo. Ha abbandonato di combatterla con quei ragazzi in quei giorni. Tranne qualcuno, che lasciato solo si è preso solo gli insulti.
RispondiEliminaEppure tanti di quei precari, tantissimi, sono la cosidetta "base" del pd, di rc, di pdrc, e sono degli eroi, lasciatemelo dire, che ancora lottano, organizzano, protestano, ancora adesso che sembrano matti agli occhi dei tutti che ripetono "tanto ormai"; e sono loro che devi taggare, non alcuni dei nomi che leggo taggati; loro sì hanno il titolo ... Visualizza altrodi essere chiamati "sinistra" , loro si che si stanno battendo per la cultura, ed è con loro che io mi sento di stare per strada, nelle loro battaglie, nelle classi, nelle strade, nell'azione. non mi sento nemmeno di essere solidale a scalfari, o a tante firme eccellenti...che parlano, parlano, parlano..si è vero: la parola è un atto concreto. ma se la parola non diventa azione, come diceva hannah arendt, è nulla.
Mila Spicola
---> Mila,
RispondiEliminacondivido occorre taggare altre persone, spostare con forza le nostre energie sulle vere fonti di cultura, ma con logiche nuove.
Se puoi leggi anche l’articolo di Cristiano De Majo, parla di una generazione che non si vuole più porre domande? Mi piacerebbe il tuo punto di vista su questo tema.
Saluti,
Salvatore D'Agostino
Una generazione che non si vuole più porre domande non esiste. cogito ergo sum. io non ci credo che non si pongono domande. semmai comincio a pensare altro: questa generazione qualcuno la ascolta? De Majo ci parla con questi ragazzi? Così..tanto per capire la distanza tra chi "scrive" ed "elabora" e chi invece ... Visualizza altroè soggetto di quelle elaborazioni. Com'è che a me ne fanno a centinaia di domande? chiunque, dai 9 anni ai 20... e domande da strapiombare indietro, altrochè. e poi di quale genrazione? di quale latitudine? di quale contesto sociale?
RispondiEliminacon che grado di generalizzazione?
Mila Spicola
Concordo con Mila Spicola: perchè si parla tanto e si fa così poco (anzi, niente)?
RispondiEliminaMi ricordo durante l'università a Bologna il tentativo di manifestare ad ingegneria contro la riforma Moratti oppure contro la legge 30 (chiamata impropriamente "Biagi") conclusosi con una decina di partecipanti: che tristezza!
Alle volte (stron....mente) penso che tutti quelli che sono co.co.qualcosa in fondo se lo meritano, perchè ad esempio in Francia per un provvedimento molto più blando della legge 30 hanno fatto il diavolo a quattro.
Non è vero che è solo colpa dei politici: fino a prova contraria siamo una repubblica e quindi parrebbe lecito ribellarsi come cittadini. Non solo: bisognerebbe pure incazz... con quelli che stanno sempre e solo a guardare le cose succedere.
A presto.
Matteo
P.S. Volevo solo sottolineare che non vorrei essere frainteso, ma non sono un "rosso".
----> Mila,
RispondiEliminal’articolo di Cristiano (apparso sul numero di aprile di Diario) a mio parere poneva delle domande senza generalizzazioni. Articolo dibattuto anche su radio tre durante la trasmissione fahrenheit.
Perché le ultime generazioni di sinistra continuano ad autocompiacersi avendo perso tutte le recenti battaglie politiche?
Dovresti leggere anche il suo ultimo libro ‘Italia 2. Viaggio nel paese che abbiamo inventato’ per capire che è una persona che s’interroga camminando, ma che non vuole più prendersi in giro con il ‘fashion’ della sinistra.
Mila, in nome di cosa continuiamo a sentirci migliori?
Saluti,
Salvatore D'Agostino
----> Matteo,
RispondiEliminanon credo che in Italia ci sia un malcontento diffuso.
Sono convinto invece che ci sia una generazione vincente che sta governando.
Altrimenti qualcuno s’incazz…
Io non m’identifico con il populismo di destra (cattivo), ma neppure con la sinistra (buono) intelligente senza peso politico.
Per i ‘rossi’ occorre trovare un’altra strategia senza prendersi più in giro.
Per la politica ‘italiana’ occorre una generazione senza la cancrena della contrapposizione a tutti i costi, una generazione che comprenda la bellezza di una sana alternanza.
Saluti,
Salvatore D’Agostino
Più che altro a me piacerebbe avere una classe politica in cui rispecchiarmi; una classe politica colta, informata, sensibile, pronta al dialogo; non quattro analfabeti che non fanno altro che urlarsi contro tutto il giorno...
RispondiElimina----> Matteo,
RispondiEliminail tuo pensiero di non ‘rosso’ è anche la mia speranza. Delle classi politiche contrapposte colte, informate, sensibili che sappiano governare.
Una politica ‘Wiki’ guidata e aiutata dalla gente e non gestita da un potere oligarchico.
Per gli architetti ‘un’architettura contratta’, una mia teoria nata attraverso dei commenti blog con Emmanuele Pilia e Marco +.
Spero prima dell’estate di scrivere questo pezzo che ho promesso a Peja.
Ne riparleremo.
Saluti,
Salvatore D’Agostino
Come non condividere l'articolo di De Majo. Ti parla una persona educata in una famiglia di centrodestra nell'esatto modo in cui De Majo descrive quanto crede dirà un giorno ad un suo figlio. Nata disillusa, sto acquisendo chiarezza e fiducia con il tempo. In totale controtendenza con l'apparente senso delle cose, è evidente.
RispondiEliminaMa è che fondamentalmente penso che oggi esista chi dell'antico manicheismo è capace di fottersene grandemente, di guardare avanti, anzichè perder tempo a capire a quale dei due lati si sta avvicinando e a correggere il tiro prima ancora di capirne il perché.
Dalle mie parti, a Bari, qualcosa di nuovo si sta creando.
Come recita l'adagio cinese: «per quanto la notte sia lunga, il giorno non mancherà».
V'invito a leggere una risposta di Ugo Rosa sul suo blog:
RispondiEliminahttp://fioridizucca.blog.kataweb.it/2009/05/10/17/
----> Rossella,
RispondiEliminasono convinto che l’idea manichea sia infantile.
Come succede agli infanti, si perde il gusto della diversità.
Mi piace invece la sensazione che ci possa essere una nuova generazione che se ne “fotte grandemente”, ovvio non in senso qualunquista.
Mi racconti delle novità Baresi?
Saluti,
Salvatore D’Agostino
---> Una nota di Aldo Grasso sull'articolo di Cristiano De Majo, apparso sul 'Magazine' del Corriere della Sera il 4 giugno 2009:
RispondiEliminaGiro di vite di Aldo Grasso
Audience su, voti giù
PROPUGNATORI DI UNA SORTA DI PEDAGOGIA DELLE MASSE, I FAZIO, I BENIGNI, I FLORIS E LE DANDINI COLTIVANO LA PROPRIA ARCADIA TELEVISIVA. NESSUNO DI LORO AMMETTEREBBE DI ESSERE STATO FUNZIONALE ALLA MACCHINA DEL POTERE. EPPURE...
Se uno parla male di Serena Dandini (non di lei, del suo programma) diventa, ipso facto, berlusconiano. Se uno azzarda un commento poco favorevole sui tg di Clemente Mimun è un comunista. Ormai lo scontro culturale si è radicalizzato su queste vecchie miserie ideologiche. E giù insulti, contumelie o musi lunghi, pesanti come un'accusa di vilipendio.
Forse in Italia, a partire dai grandi scontri ideologici del dopoguerra, è sempre stato così: solo che allora non c'era il web e spedire un insulto comportava, quanto meno, un francobollo e qualche conoscenza della lingua italiana. L'impressione è che le battaglie fossero anche un po' più importanti di quelle attuali, specie a sinistra. Perché Einaudi non pubblica le opere complete di Nietzsche? Perché bisogna stroncare i film di Hollywood? È necessario deprecare sempre e comunque l'industria culturale? Bisogna mettere una bomba al grattacielo Pirelli?
Su Diario di aprile (un giornale che certo non può essere accusato di simpatie berluscorniane) è passato quasi sotto silenzio un importante articolo di Cristiano de Majo "dedicato a chi pensa che Berlusconi sia l'origine di tutti i mali". Si chiama "In nome di cosa continuiamo a sentirci migliori?" e analizza sia le nuove articolazioni del potere, così multiformi e così mascherate, che le intossicazioni della cultura. Ne cito un brano particolarmente significativo: «Deve essere per colpa di questa cecità che a un tratto ho incominciato a sviluppare un odio viscerale per i miti mediatici della sinistra contemporanea. Propugnatori della qualità come Fabio Fazio e Roberto Benigni e Giovanni Floris e Serena Dandini. Ognuno a suo modo ha coltivato la propria arcadia televisiva» ritenendosi esente da qualsiasi contagio, e continuando la sua opera di pedagogia delle masse. Nessuno ammetterebbe di essere stato inoffensivo, o addirittura funzionale alla macchina del potere. Eppure ci dev'essere un motivo se in questo cosiddetto ventennio berlusconiano hanno continuato a lavorare, a percepire stipendi milionari, a occupare il loro spazio di potere, stabilendo cosa dovesse essere letto (Paolo Giordano), ascoltato (Giovanni Allevi), visto (Ferzan Ozpetek)... o esercitando sulla sinistra un giudizio dolcemente critico, bonario e di prammatica, come un rimprovero paterno».
Anche la solerzia educativa rischia di sclerotizzarsi nelle forme poco rallegranti del potere dei migliori: più audience ma meno voti, a sinistra.