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6 febbraio 2010

0037 [SPECULAZIONE] Viaggio nel paese che abbiamo inventato

di Salvatore D'Agostino
«Camminare è un soggetto che porta sempre a divagare». (Rebecca Solnit) [1]
   Credo che questa frase potrebbe essere l’epigrafe del libro di Cristiano De Majo e Fabio Viola ‘Italia 2 - Viaggio nel paese che abbiamo inventato’ [2] . Contraddicendo il sottotitolo questo libro non è un racconto di viaggio ma una narrazione ad alta voce sui luoghi comuni dell’immaginario collettivo. Ai due scrittori non interessa descrivere ciò che vedono ma semplicemente divagano, il loro racconto è un accumulo di sensazioni e idee, dove lo sfondo spesso mediaticamente ‘perfetto’ si decompone. L'Italia che tutti pensiamo di aver visto e di conoscere sembra non esistere.

   De Majo e Viola si disinteressano delle descrizioni antropologiche e soprattutto non danno istruzioni per l'uso, scelgono dei luoghi, li raggiungono, camminano e divagano.
Il luogo così osservato perde la didascalia e diventa sedimentazione narrativa.

Salvatore D’Agostino Italia 2, più che un racconto di viaggio è un’iniziazione per diventare ‘abitante’ italiano, alla fine del vostro peregrinare Cristiano De Majo ritornerà nella sua Napoli perché, come afferma nel libro, ha capito che da lì occorre ricominciare e Fabio Viola andrà via dall’Italia, a Osaka in Giappone
, sostenendo: se l’Italia è diventata un’immagine stereotipata dai luoghi comuni meglio vivere dove la finzione non è subdola retorica ma stile di vita. Ancora valido il vostro epilogo? 

Cristiano De Majo Sì, è ancora valido. Siamo rimasti intrappolati nella fine del nostro libro, io a Napoli e Fabio in Giappone. Il discorso su autentico e inautentico e su vero e falso continua a essere un'ossessione per me. Sto battendo altre piste rispetto a quelle di Italia 2, ma in qualche modo continuo a occuparmene.

Fabio Viola Io ho smesso di pormi certe domande perché ho l'impressione che sia uno sforzo inane. Preferisco non contrapporre le due cose - autenticità contro inautenticità - ma vedere come si abbracciano e interagiscono, come siano l'una un miraggio dovuto all'altra.
C'è da dire comunque che l'Italia, adesso, non è che abbia molte attrattive, nemmeno fingendosi turista - e non sto fingendo di essere cinico. È per questo che ancora non ci torno: mi fa paura, mentre il Giappone mi tranquillizza (anestetizza).

Italia 2 è il resoconto a quattro mani di un viaggio, fatto tra l'ottobre 2006 e il febbraio del 2007, dove si osserva l'Italia: vista attraverso i media: la casa del Mulino Bianco e la villetta di Cogne; dei luoghi religiosi: la federazione del Damanhur e la chiesa di Padre a Pio; della memoria: la Risiera di San Sabba e Predappio; del turismo: Venezia, Roma e Matera. Dopo la lettura si ha la sensazione che avete attraversato una nazione dove gli abitanti sono in transito. Nessuno sembra abitare un luogo ma l'immagine di essa. «Ci basta poco per capire che le foto che stiamo facendo, tutte foto molto ispirate peraltro, sono foto di turisti che fanno foto».[3]
Dove abita l’italiano?

Foto di Fabio Viola
CDM Il nostro è un viaggio anche dentro certi simboli, quindi non può essere considerato una mappa dell'abitare in senso stretto. I luoghi che abbiamo scelto offrivano, a nostro avviso, una rappresentazione o una proiezione del Paese, specie per quanto riguarda alcuni aspetti. D'altra parte il primo capitolo che tu hai citato si occupa esattamente di case, o della casa italiana per eccellenza: il Mulino Bianco e il suo rovescio oscuro: la villetta di Cogne. Dunque, rispondendo alla domanda, su un piano più reale l'italiano abita in maggioranza in palazzi affogati in altri palazzi nei quartieri dormitorio delle grandi città, in un territorio che da un lato è distrutto dall'abusivismo, e dall'altro è bloccato da uno stupido ossequio nei confronti della storia, ragione per cui basta qualche pietra vecchia di duemila anni per impedire le naturali trasformazioni di una città, che dovrebbe sempre tendere a rispecchiare il tempo in cui si vive, cosa che in Italia non succede, o almeno non da un punto di vista architettonico. Dall'altro su piano simbolico, io e Fabio abbiamo immaginato che l'italiano abitasse ancora in queste casa ideale, che sembra il disegno di un bambino delle elementari: il tetto a punta, il comignolo, il focolare, ma ovviamente è insieme perfezione e orrore.

FV L'italiano non abita ma occupa. E lo fa in uno spazio maltrattato che a mio avviso andrebbe espropriato. Ciò che l'Italia è adesso è il frutto di anni di sciatteria, e se da un lato si assiste a un'esplosione di metastasi (tessuto sociale in frantumi, classe politica marcia e volgare, violenza verso il territorio, disinteresse per tutto e alienazione - tutte cose di cui si parla da tanto ma che di anno in anno sembrano sempre più in esaltazione), dall'altro mi sembra che queste metastasi vengano nascoste da una prominenza della finta vocazione turistica del Paese. Attraverso il turismo, banalmente, si mette in atto una sceneggiata, e si vende un'Italia che gli italiani non vedono o in cui non credono (più).
Nel libro non parliamo solo di questo, ma penso che il capitolo su Roma, Venezia e Matera racconti chiaramente questa Italia tumefatta.

Roberto Saviano compie un viaggio nella sua Napoli, per dopo finire esiliato, ciò che vede è socialmente scomodo, non poteva immaginare che l’ultima frase del suo libro «Maledetti bastardi, sono ancora vivo!»[4] sarebbe diventato il suo grido mattutino.
Walter Siti per qualche anno si trasferisce in una borgata romana, vive senza pregiudizi, il suo nuovo stato di abitante ne uscirà cambiato o meglio contagiato:

«L’appassionata analisi di Pasolini, vecchia di oltre trent’anni, andrebbe rovesciata: non sono le borgate che stanno imborghesendo, ma è la borghesia che si sta “imborgatando”. Al di là dell’esperienza biografica di pochi individui sbrancati, o dell’arroganza esibizionista di qualche ricco che gioca al sottoproletario (“se hai soldi, una bella macchina e un po’ di cocaina, puoi scopare chiunque” è un motto del carcere ammirato e condiviso da Fabrizio Corona) – al di là dei casi singoli, vige un’effettiva solidarietà strutturale: nel continuum indifferenziato di chi il mondo non sa più vederlo intero, è l’ideologia di quelli che una volta si chiamavano gli esclusi (i lumpen, i sub-culturali) a risultare egemone».[5]
Gianni Biondillo, nato e vissuto a Milano nel quartiere Quarto Oggiaro, è ossessionato dalla semplificazione giornalistica e dai film girati nel suo quartiere che accomunano spesso Quarto Oggiaro a Scampia:
«Quarto Oggiaro, così come tutte le altre periferie meneghine, è dove vive il popolo che ha partecipato ad un sogno di emancipazione collettiva costruendo la ricchezza di una Milano che ora, irriconoscente, non salda il conto. Non so per quanto ancora, però, gli elegantissimi morti viventi che popolano la cerchia dei Navigli potranno dare le spalle alla sua cintura periferica. Quarto Oggiaro esiste anche nel resto dell’anno, e se non troviamo una politica insediativa e culturale degna di una città civile, se non avremo una politica che esca dai salotti buoni abituati, insomma, la catastrofe sarà imminente. Noi siamo abituati all’emergenza, ma, mi chiedo, e voi?»[6]
Più che racconti sono urla di dolore che provengono dal cuore di Napoli, Roma e Milano. Urla che l’italiano sembra non ascoltare.
A che serve scrivere?

FV Scrivere non serve a niente, o serve a pochissimo, e in particolare scrivere della società, criticarla, ribellarsi, eccetera. Scrivere fiction può servire al singolo, ma il mondo si muove in massa in direzioni prevedibili e un libro non cambia nulla. I libri più rivoluzionari sono stati inutili o talvolta dannosi. I movimenti e le correnti ispirate o mosse da un libro, una canzone, un'idea sono finiti nel nulla. Penso ai pacifisti degli anni Sessanta. Ai comunisti. Addirittura agli acquariani de "La Profezia di Celestino", che quando uscì sembrava dover cambiare il mondo tanto grande fu il successo.
Insomma scrivere fa sentire meglio o peggio il singolo, e i cambiamenti che mette in moto la scrittura sono marginali quanto è marginale un essere umano. Se il singolo essere umano è tutto ciò che conta, allora scrivere serve a qualcosa. Altrimenti è un esercizio di idealismo.
Per quanto riguarda il nostro libro, be', per me è una questione estetica più che politica o sociale. L'estetica del vuoto mi affascina, l'aderenza a un ruolo o una maschera di una persona o di un luogo sono questioni più rilevanti per me dello sforzo di criticare la società o cambiarla con la parola scritta. Se sono cinico è perché vivo in Giappone da tre anni e l'Italia si sta sgretolando con più impegno del solito.

CDM Sono anch'io convinto dell'inutilità pratica della scrittura come di qualsiasi altro prodotto culturale. E nutro un profondo sospetto nei confronti di tutti quelli che pensano, scrivendo, di cambiare il mondo. I libri che hanno modificato il corso delle cose - per esempio la Bibbia o il Capitale - sono quasi sempre testi a carattere sapienziale o messianico o politico e non hanno molto a che fare con l'idea della scrittura e dello scrittore che si è affermata dalla modernità in poi. Vedo piuttosto gli scrittori come delle antenne che dovrebbero avere una maggiore o più profonda capacità di percepire le cose, di penetrarle, oppure come dei costruttori di modelli che rappresentano il modo in cui l'uomo attraversa quest'esperienza che chiamiamo vita. E non mi sembra poco. Non credo affatto che la mia missione sia quella di migliorare qualcosa o qualcuno. Credo sia invece di raccontare quello che vedo, quello che mi fa pensare, quello che mi fa commuovere.

Il vostro libro si presenta come un viaggio ma non lo è. Manca il percorso, quell’andare da A a B che lo caratterizza, il vostro è un procedere per punti. L’evidente parafrasi sottintesa nel titolo ‘Italia 2[7] è il perno del vostro interesse, pianificate tappe legate più all’immaginazione mediatica, alla fede, alla memoria che ai luoghi.
La vostra premeditazione si evidenzia nella meticolosa preparazione, spesso coadiuvata da letture portate nel vostro bagaglio a mano.
A mio avviso, occorrerebbe leggerlo sfrondando il testo dalla metaprogettazione del viaggio, poiché le parti interessanti e credo coraggiose sono i vostri dialoghi o appunti visivi. Ciò che osservate non corrisponde a ciò che avevate immaginato. Vi accorgete che non è più possibile raccontare l’Italia con il tono romantico dei viaggiatori del passato che definivano attraverso il linguaggio e in modo perentorio i luoghi. Poiché, come spesso scrivete, ci sono cose che non si possono spiegare.
Alla fine il vostro peregrinare appare catartico, vi liberate dall’idea dominante della nostra epoca mediatica: la semplificazione.

CDM Tutto molto giusto, soprattutto l'ultima cosa che dici sulla semplificazione. Alcuni dei luoghi che abbiamo visitato si sono proprio ammalati di quella che potremmo chiamare una sindrome da semplificazione. Oltretutto la semplificazione è in un certo senso la clava del turista, e anche quando tutti noi cerchiamo coscienziosamente di problematizzare la nostra presenza in un luogo estraneo, finiamo per semplificare seguendo schemi un po' manichei e autoconsolatori (turista cattivo vs. turista responsabile). La nostra battaglia contro la semplificazione abbiamo cercato di combatterla con una scrittura problematica fino al paradosso, una scrittura di sole domande senza risposte in un paese dove l'abitudine consolidata è dare risposte senza che sia stata formulata prima una domanda. Come dicevi tu, ci sono cose che non si possono spiegare, ma questo non vuol dire che dobbiamo rinunciare a raccontarle.

FV Non direi che ciò che abbiamo osservato e ciò che immaginavamo prima di partire siano due cose così distanti. La scelta che abbiamo fatto al momento della progettazione del libro è stata una scelta ponderata. Sapevamo che i luoghi sarebbero stati funzionali al nostro discorso. In questo anche noi, come i viaggiatori del Settecento, partivamo in cerca di qualcosa, di conferme visive a immagini astratte, nella speranza che la "realtà" rendesse stabile la nostra ideologia. Inconsciamente però, io credo, Cristiano e io siamo voluti passare dalla cartolina alla diapositiva. Una diapositiva però vista al buio, senza luce o proiettore, e quindi vagamente tridimensionale.
Infine, alla luce di ciò che ha scritto Cristiano poco fa, è interessante notare come queste nostre ultime siano state proprio risposte a una non domanda. All'italiana, per così dire.
 

6 febbraio 2010
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Note:
[1] Rebecca Solnit, Storia del camminare, Bruno Mondadori, Milano, 2002, p. 9
[2] Cristiano De Majo e Fabio Viola ‘Italia 2 - Viaggio nel paese che abbiamo inventato’, Minimum fax, Roma, 2008
[3] Cristiano De Majo e Fabio Viola, op. cit., p. 253
[4] Roberto Saviano, Gomorra, Mondadori, Milano, 2006, p. 331
[5] Walter Siti, Il contagio, Mondadori, Milano, 2008, p. 313
[6] Gianni Biondillo, Metropoli per principianti, Guanda, Parma, 2008, p.153
[7] Italia 2 allude alla Milano 2 costruita negli anni ottanta da Silvio Berlusconi

3 novembre 2009

0001 [CON GIUSTIZIA] Città a crescita zero

di Salvatore D'Agostino
 
Colloquio con Domenico Finiguerra sindaco di Cassinetta di Lugagnano in Provincia di Milano autore del primo 'Piano Strutturale Comunale' a crescita zero in Italia.

Salvatore D'Agostino Nel 2005 si sono stimati in Italia 10,9 milioni di edifici a uso abitativo e 1,9 milioni di edifici aventi altre funzioni (tot 12,8 milioni) dati ISTAT [1].
  • 12,8 milioni di edifici realizzati cronologicamente: il 19,2 % realizzato prima del 1919 ovvero 2.457.000 edifici per 38.000.000 di abitanti (1921) 
  • il 12,3% tra il 1920 e il 1945, ovvero in 25 anni sono stati costruiti 1.574.000 edifici per un aumento demografico pari a 10.000.000 abitanti (1951)il 50% tra il 1946 e il 1981 ovvero in 35 anni 6.400.000 edifici nuovi per un aumento demografico pari a 8.500.000 abitanti (1981) 
  • l'11,5% realizzato tra il 1982 e il 1991 ovvero in 9 anni 1.472.000 edifici per un aumento demografico pari a 250.000 abitanti (1991) 
  • il 7% realizzato dal 1992 al 2005 quindi in 13 anni 896.000 edifici per un aumento demografico pari a 1.750.000 abitanti (2005)
Di cui 1.300.000 abitazioni non utilizzate con oltre 80.000 edifici rurali (CENSIS 2003) [2]

L'agenzia del territorio sta aggiornando le mappe catastali e, con l'ausilio delle fotoidentificazioni e la banca dati nel gennaio del 2008, ha reso noto un primo parziale risultato sui 4.238 comuni censiti (su 8100 in totale) sono stati scoperti 1.247.584 di abitazioni non accatastati. [3]

Nel 2002 sei diventato sindaco del comune di Cassinetta di Lugagnano con una semplice ma chiara idea: «Qui si fa un programma urbanistico a crescita zero, si recupera quello che c'è, si cresce si ma solo all'interno del paese». [4]

Quali sono state le tue prime iniziative?

Domenico Finiguerra Sono state quelle di incominciare a pensare ad un diverso modo per tenere in piedi il bilancio di Cassinetta di Lugagnano senza ricorrere alla monetizzazione del territorio. Fin dall'inizio si è avviato un duro lavoro di emancipazione del bilancio stesso dagli oneri di urbanizzazione. Tagliando tutto il superfluo, razionalizzando le spese e ispirando tutte le azioni del Comune a maggiore sobrietà.

Parallelamente si è avviata una grande campagna di reperimento contributi a fondo perduto per trasformare Cassinetta di Lugagnano nella Perla del Naviglio Grande, investendo sul turismo e sulla bellezza paesaggistica, architettonica e ambientale del nostro comune.

Che cosa intendi per monetizzazione del territorio?

I comuni versano in condizioni economiche precarie. Entrate in diminuzione e uscite in aumento producono bilanci in costante e forte squilibrio. In assenza di una reale autonomia finanziaria, per un sindaco e la sua giunta, è sempre più difficile far quadrare i conti, realizzare le opere pubbliche, garantire ai cittadini servizi indispensabili e costruire e consolidare il consenso degli elettori.

Se poi l’attività amministrativa è ispirata da manie di grandezza diventa ancora più difficile trovare le risorse necessarie (molti sindaci si sentono obbligati a dover lasciare la loro impronta, vogliono e promettono oltre misura: palazzetti, piscine, centri civici, bowling, rotonde, eventi e appuntamenti autoreferenziali). 

Quindi, come riuscire a chiudere il bilancio in pareggio, realizzare opere pubbliche (necessarie o meno) e organizzare eventi culturali e servizi alla persona (necessari o meno)? Come finanziarie il bilancio comunale in perenne squilibrio e come costruire o consolidare il proprio consenso?
La risposta a questa domanda, purtroppo, è molto semplice. 
Grazie al combinato disposto di due fattori, (1) la legge, che consente di applicare alla parte corrente dei bilanci gli oneri di urbanizzazione e (2) la disponibilità di territorio in una area geografica dove l’edilizia rappresenta un valido investimento, si pratica la monetizzazione del territorio. 
Un circolo vizioso che, se non interrotto, porterà, anzi sta già portando al collasso intere zone e regioni urbane.
Un meccanismo deleterio, che permette di finanziare i servizi ai cittadini con gli oneri di urbanizzazione, con l’edilizia. Un meccanismo che di fatto droga i bilanci comunali, finanziando spese correnti con entrate una tantum che però, prima o poi, finiscono.

Due giovani scrittori Cristiano de Majo e Fabio Viola, tra il 2006 e il 2007 percorrono l’Italia dei luoghi mediatici, religiosi e storici: il mulino Bianco, la villetta di Cogne, la Federazione del Damanhur, la chiesa di Padre Pio, la Risiera di San Sabba, Predappio, Venezia, Roma e Matera. 
Dopo una conversazione su Venezia con lo scrittore Tiziano Scarpa scrivono:
«Mentre Scarpa si allontana, Cristiano chiede a Fabio, dovendo a questo punto considerare la vera anima di Venezia la sua immagine trasmessa ai turisti, come considerare invece Scarpa. Un aspetto di quest’immagine? Una guida turistica per turisti che osservano i turisti? Ma Fabio non risponde, si preme le dita sulle tempie e dice soltanto: “L’Italia fa schifo”. La verità è che ha voglia di trasformarsi definitivamente in turista». [5] 
Perché i sindaci italiani progettano l’anima turistica del proprio paese e non costruiscono le città per gli abitanti?

Perché la quasi totalità della classe politica, preferisce l'opzione che produce effetti immediati sul consenso, in grado di far vincere le elezioni successive. Così, in campo urbanistico, ma non solo, si cerca sempre di ottenere il massimo risultato subito. Mettendo in secondo piano o addirittura senza considerare i beni comuni. Siano essi la terra, l'acqua oppure il patrimonio paesaggistico e architettonico.

L’Italia è il paese più bello del mondo. Quante volte ci siamo riempiti la bocca con questa frase. Abbiamo un enorme patrimonio artistico. Città meravigliose, piazze mozzafiato, borghi suggestivi. Siamo pieni zeppi di palazzi reali e di castelli. Di rovine. Di tombe e necropoli. Di teatri e anfiteatri. Di ville imperiali. Di cattedrali e basiliche romane, gotiche, barocche. In ogni angolo d’Italia è possibile trovare testimonianze dal passato. Appunti di viaggio della storia dell’uomo su e giù per lo stivale. Dall'antica Etruria al Rinascimento. Roma Imperiale e Magna Grecia. Abbiamo spiagge bianche, rosa, nere. Montagne e laghi. Parchi e riserve naturali di rara bellezza.

Siamo seduti su una miniera d’oro. Ma spesso e volentieri, la utilizziamo come latrina di lusso. E per rispondere direttamente alla domanda, i sindaci spesso, somigliano a quelle signore un po' robuste all'ingresso delle toilette in autostrada...

Come se l’Italia andasse in asincrono, ama a parole la sua storia ‘di cose antiche’ ma non le rispetta. Un’asincronia ancora più esplicita nelle nuove costruzioni, spesso parafrasi maldestre di linguaggi architettonici del passato. 
Cosa ci può mostrare Cassinetta di Lugagnano tra dieci anni?


Cassinetta ha cercato di recuperare il patrimonio esistente. Attraverso un enorme sforzo amministrativo abbiamo cercato di recuperare piazzette, angoli, passeggiate che il cemento o l'abbandono avevano "deteriorato".
Farei parlare le immagini:


Via Cavour,

Via Capo di sopra,

Via Roma

e Villa Birago-Clari-Monzini (questo è proprio commerciale).

L’ultimo video è interessante anche se rispecchia la brutta abitudine italiana di rispettare l’involucro esterno e stravolgere gli interni ma, si sa, amiamo farci prendere in giro dal falso antico, una brutta storia di normativa e codici accademici.
Passeggiando per Cassinetta di Lugagnano, oltre il piccolo nucleo in prossimità del Naviglio, non troviamo piazzette, angoli pubblici, parchi e passeggiate ma solo case recintate, un continuum di muri a protezione delle numerose abitazioni private.

Queste vie non hanno la conformazione della città occidentale, le case non dialogano con il tessuto connettivo strada, incrocio, piazza e parco. Inoltre le abitazioni/villette non hanno particolari qualità edilizie.

Più che un paese sembra un rifugio per metropolitani in fuga con la nostalgia dell’aria pura della campagna.

Perché?


Cassinetta di Lugagnano è un comune piccolo. La Piazza del Teatro, la Passeggiata dell'Amore con la Stanza dei Profumi, l'Imbarcadero, il Parco Comunale De Andrè, la Pro Loco, il nuovo sagrato della Chiesa, la nuova Piazza del Comune, la nuova Piazza 25 Aprile e la Piazza Falcone e Borsellino.
Sono tutti spazi pubblici realizzati negli ultimi 7 anni e pensati proprio per essere fruiti dalla cittadinanza e dai visitatori di Cassinetta di Lugagnano. Anche le corti di antica formazione e le cascine sono aperte e invitano all'ingresso. Le Ville del '700 che si affacciano sul Naviglio, ad eccezione del Palazzo Comunale, sono residenze private, e quindi di norma chiuse al pubblico. Però, grazie alla politica culturale e al coinvolgimento dei privati stessi ad opera dell'assessorato alla cultura, in un paio di occasioni all'anno, le ville sono visitabili e diventano la quinta scenica di rappresentazioni teatrali o concerti.
Quanto alle recinzioni e ai muri (per la verità pochi) delle villette, questi sono il risultato del modello di società che si è consolidato. Tutti tendono a chiudersi in se stessi. Ed è qui che sta la sfida più importante. Modificare, anche per mezzo della programmazione urbanistica, gli stili, le abitudini e gli stati d'animo che si rispecchiano anche nel modo di costruire i propri luoghi dell'abitare e del vivere. E fare in modo che il rifugio diventi piazza pubblica e culla di comunità. 

Quali sono le normative urbanistiche o edilizie che compromettono la qualità urbana o l’operato del sindaco e il suo programma elettorale?

La possibilità di applicare gli oneri di urbanizzazione alla parte corrente del bilancio comunale è sicuramente una delle cause del degrado e della cementificazione.
Ma credo che comunque, in ultima analisi, sia la volontà politica a segnare le buone o le cattive sorti di un territorio.

Il 26 settembre 2009 sei stato chiamato a fare un intervento all'Accademia dei Colloqui di Dobbiaco.
Riprendo un passo: «Cantieri che spuntano anche in posti impensabili, senza risparmiare parchi, zone protette e sottoposte a vincoli, di natura ambientale, paesaggistica o architettonica.
Anzi, solitamente, più le aree sono pregiate, più sono appetibili per il mercato: si pensi che in alcuni tratti della costa ligure si è incominciato a costruire nel mare!
Il dissesto idrogeologico è sempre più manifesto. Piangiamo tutti gli anni decine di sue vittime.
Ma poi, passata la bufera, ritorniamo ad idolatrare le gru o le suggestive grandi opere». [6]
È un suggerimento per i sindaci a prendersi cura di se stessi?

Una chiamata alla responsabilità. I sindaci e gli amministratori devono prendere maggiore consapevolezza circa il loro ruolo di responsabili del futuro. Non si tratta di sola urbanistica. È politica a tutto tondo. Perché progettare e gestire il territorio significa definire l'ambiente in cui vivranno i nostri figli. Vogliamo un futuro fatto di svincoli e centri commerciali? È li che vogliamo vivere? Oppure vogliamo imboccare una nuova strada, che porti al ripristino di un corretto equilibrio tra uomo, natura, arte e paesaggio?


Che cosa significano: sobrietà, fantasia e fiscalità?

Sobrietà è uno stile di vita, che può, anzi deve anche diventare uno stile politico. Che eviti lo spreco e che sia rispettoso del diritto di tutti ad avere una parte giusta di risorse a disposizione. La sobrietà del politico, poi, deve essere anche di esempio, e tracciare una via da seguire.

La fantasia è una delle caratteristiche che più mancano in politica. Ed è spesso sostituita dalla pigrizia. Non ci si sforza più di immaginare percorsi alternativi, uno sforzo che potrebbe e dovrebbe essere obbligatorio quando ci si trova a operare in situazioni di scarsità delle risorse.

La fiscalità è un terreno evitato ad arte dai politici. Perché ritenuto scivoloso, perché pericoloso per il mantenimento o il consolidamento del consenso. Ma chi svolge funzioni pubbliche deve, se vuole davvero rimettersi in sintonia con il significato originario della parola politica, misurarsi seriamente con il tema delle tasse. Oggi le tasse sono al centro del dibattito solo in quanto le parti in campo si misurano sulla ricetta migliore per abbassarle. La vera politica, invece, dovrebbe discutere di tasse misurando le diverse ricette su come restituire ai cittadini servizi e qualità della vita proporzionali al livello di tassazione imposto.

3 novembre 2009
(ultima modifica: 5 novembre 2009)


Intersezioni ---> CON GIUSTIZIA
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Note:
[1] Tabella elaborata attraverso i dati ISTAT e il 'DOSSIER SUL CONSUMO DEL SUOLO IN ITALIA' redatto dal Prof. Bernardino Romano (docente di analisi e valutazione ambientale e pianificazione territoriale presso la Facoltà di Ingegneria Ambiente e Territorio e Scienze Ambientali all'Aquila) e il WWF nel 2009. Qui
[2] CENSIS, Rapporto annuale 2003, La valorizzazione del patrimonio di edilizia storica, 5 Dicembre 2003. Qui
[3] Stefano Latini, Giù il velo dai tetti di oltre 1 milione di case italiane, 12 febbraio 2008. Articolo originario prelevato dal sito dell'agenzia dell'entrate ora leggibile. Qui.
[4] Rai tre, Report, Il male comune, puntata del 31 maggio 2009. Qui
[5]
Cristiano de Majo e Fabio Viola, Italia 2 - Viaggio nel paese che abbiamo inventato, Minimum fax, 2008, p. 267. Qui un'intervista di Wilfing Architettura.
[6] Domenico Finiguerra, Terra un bene comune da preservare. Scaricabile qui


9 giugno 2009

0033 [SPECULAZIONE] Santo cemento di Cristiano De Majo - 2° parte

Santo cemento

L’asse mediano, il Doppio senso

Ancora edilizia, edilizia, edilizia. Abusi, abusi, abusi. La provincia sono soprattutto le sue strade. Vie di scorrimento interno che attraversano e disegnano questo paesaggio da megalopoli del Terzo mondo. Il cosiddetto Doppio senso (o Strada degli americani). L’asse mediano. Una teoria di case morte, concessionari di macchine, venditori di statue, negozi di mobili, spazzatura. I manifesti di Cesaro compaiono a ogni angolo, svettano sulle dune di terra corrosa, incorniciano gli insediamenti abitativi sparsi a macchia di leopardo su questa pianura metallica. Riprendiamoci la dignità.
Un’altra statua di Cristo compare mentre camminiamo sul Doppio senso. Enorme. Candidamente bianca. Con le braccia alzate e mazzi di fiori ai piedi. Dev’essere l’altare di un incidente mortale. Dietro la figura gigantesca, il nostro pan di zucchero è lo scheletro di un palazzo non completato. E non si capisce se la statua stia dicendo agli automobilisti «andate piano», oppure gridi agli uomini «guardate cosa avete fatto».
Qualche chilometro e ci fermiamo davanti a un manifesto pubblicitario, che in realtà non è quello che sembra. C’è la foto di una donna e di una bambina incorniciata da un cuore. Accanto, una lettera sdolcinata rivolta a un uomo, rispettivamente marito e padre. Un regalo di compleanno autostradale. Ti amiamo da impazzire. Anche la cartellonistica è affidata allo spontaneismo.
Sfiliamo sull’asse mediano in direzione del mare, attraversando il territorio del comune di Giugliano, il terzo più popolato della Campania. Il cemento si dirada progressivamente e in certi tratti la campagna resiste ancora. Ma a Varcaturo ritorna il far west. Una lunga strada costeggiata da fantasiose architetture di tutti gli stili, dal neoclassico al moresco. Saloni per cerimonie. Negozi di articoli da spiaggia. Caseifici. Fino all’orizzonte.
La spiaggia è una sequenza ininterrotta di stabilimenti balneari chiusi. Sulla costa piatta a perdita d’occhio, casupole di lamiera e cemento brillano sotto la luce viola del sole che sta per tramontare. Varcaturo d’estate è uno dei posti di mare più frequentati. È vicino alla città. Si prende il sole senza fare il bagno. Si fa un grande uso di docce, visto che in certi periodi l’acqua del mare assume una strana tonalità rossastra.
Questa spiaggia non mi è mai sembrata così bella come ora in questo crepuscolo purgatoriale. È un pianeta inesplorato di qualche lontana galassia. Gli unici esseri umani nel raggio di alcuni chilometri sono una coppia di ragazzi che si rotolano sul bagnasciuga a uso di un paio di fotografi. Stanno preparando il servizio del loro matrimonio. E mentre si abbracciano spruzzati dalle onde, sembra stiano tentando di immaginare come sarebbe l’amore dopo la fine del mondo.

Il Vulcano Buono

Ci spostiamo all’interno verso sud. È sera e l’interporto di Nola (il CIS) è una foresta di lampioni, una fitta giungla di alberi elettrici. Accanto sorge il Vulcano Buono l’ennesima opera monstre calata dall’alto. Autore: l’incommensurabile Renzo Piano.
Non che sia così manifestamente violenta. Al contrario, vista dalla strada, è perfettamente mimetizzata col paesaggio. Un vulcano ricoperto di verde che rende invisibili negozi, merci, scale mobili contenuti nel cratere. Ne sono certo, non scoppierà.
Il problema semmai è il senso: c’era bisogno di un altro gigantesco centro commerciale in un territorio i cui unici spazi di condivisione sono centri commerciali? Dovremmo ridimensionare l’aura di sensibilità che avvolge certi artisti della progettazione. Vengono convocati come eroi culturali nei talk show che contano, ma sono in realtà esecutori in bello stile di un’arte regimentale, senza più nessuna consapevolezza della loro funzione sociale.
E però, per quanto spaventoso sia, non è difficile comprendere chi viene qui, al Vulcano Buono, per sentirsi a proprio agio, finalmente sicuro. L’ordine del consumo infonde una specie di calore neutro, qualcosa in grado di tranquillizzare rispetto ai disastrosi paesaggi dopobomba dell’esterno. L’interno non è più un freddo non luogo, ma la materializzazione di un’utopia familiare, una piattaforma di felicità media.
Stanchi e appagati, mangiamo anche noi un panino naturale e scivoliamo sui corridoi lucidi e semivuoti come personaggi di un plastico a grandezza naturale. Fino alla chiusura.

L’inceneritore di Acerra

Ci ritroviamo di mattina presto al termovalorizzatore di Acerra. L’aria è sporca di umido, nebbiosa. La struttura si profila in lontananza come un oggetto non identificato. Un minaccioso robot di metallo atterrato sulle distese d’insalata dell’ex Campania felix, una tra le terre più fertili d’Italia.
L’atmosfera è improntata alla segretezza. L’esercito ad armi spianate veglia sulla distruzione. Dall’esterno appare come un’area riservata di inimmaginabili esperimenti. Cosa starà succedendo di così importante e riservato? Semplicemente: si brucia spazzatura.
Passiamo dentro i campi di verdura che circondano il termovalorizzatore e dove, a qualche metro dal recinto militare, un gruppo di contadini sta lavorando la terra. Abbiamo bisogno di un caffé e capitiamo davanti a un chiosco parcheggiato nel deserto della zona industriale. Un posto a tal punto assurdo che neanche Aki Kaurismaki sarebbe riuscito a concepirlo.
Ci mettiamo a parlare con due persone, anche loro provvisori clienti di questo bar nel niente. Uno è titolare di un’azienda agricola, l’altro un autista di camion della spazzatura. Se avessi voluto organizzare un dibattito sull’emergenza rifiuti non sarei riuscito a riunire due figure tanto rappresentative.
Parliamo dei vecchi tempi e della cultura rurale. Di come, mi dicono, l’inaugurazione del termovalorizzatore sia stato «un mezzo imbroglio». L’autista sostiene che al momento non sta funzionando e mi indica la ciminiera da cui, in effetti, non esce fumo.
Bassolino ha sbagliato, dicono tutti e due, ma si è trasformato in una specie di capro espiatorio. Aveva chiuso le discariche e cercato un dialogo con le popolazioni. Berlusconi, l’uomo che ha risolto il problema anche agli occhi di alcuni illuminati opinionisti della stampa nazionale, ha semplicemente imposto la forza, ma intanto la raccolta differenziata continua a latitare e se non c’è differenziazione, i rifiuti che dovrebbero bruciare sono quelli sbagliati.
La trascorsa emergenza rifiuti è il tema caldo della campagna. Il centrodestra usa le surreali immagini di quei giorni per ricordare all’elettorato che potrebbe ancora succedere. Il centrosinistra cerca di far dimenticare le sue responsabilità producendo facce nuove. In questa battaglia navale l’elettore di sinistra si trova decisamente spaesato.
Consapevole che la sua astensione darebbe in qualche modo il via libera a uno dei personaggi più inquietanti che si siano visti in questi anni, prova una certa sofferenza ad avallare con il suo voto un quindicennio di politiche fallimentari che non hanno portato nessun miglioramento reale, a parte alcuni impulsi iniziali, subito soffocati da uno stolido esercizio del potere. Lo slogan che caratterizza la campagna affissione di Nicolais – Ei tu! Vota la provincia – aumenta se possibile il sospetto. È l’ennesima chiamata a raccolta non si capisce per fare che, se non opporsi ottimisticamente ma senza alcuna idea alla calata dei barbari.

La spiaggia di Pozzano

Fuggiamo ancora più a sud, lungo la costa. Attraversiamo la vecchia periferia industriale di San Giovanni a Teduccio e affrontiamo il litorale vesuviano. Una successione ininterrotta di agglomerati urbani alla pendici di un vulcano che potrebbe esplodere da un momento all’altro. La bella linea rocciosa del versante avrebbe fatto la fortuna turistica di qualsiasi località. Qui, invece, il mare è ancora un’estensione urbana, una strada non trafficata che delimita il paesaggio arrugginito.
A Castellammare di Stabia passeggiamo sul lungomare chiedendoci quale disastro si sia abbattuto sulla città. La spiaggia sembra uno di quei luoghi fotografati dopo lo tsunami nel sud-est asiatico. È una distesa di cartacce, plastiche, rifiuti di qualsiasi tipo. Sembra tutto morto, mentre i vivi camminano, indifferenti all’infernale dimensione visiva, passeggiando sul selciato della villa comunale. Sono questi i fantasmi?
Il confine della metropoli forse è qui, sulla spiaggia di Pozzano, a pochi chilometri da Castellammare. Un piccolo lembo di sassi che guarda verso Napoli e domina il golfo. Alle nostre spalle il vecchio cementificio trasformato in un improbabile albergo a quattro stelle. Subito dopo la dimensione urbana si dissolve. Vico Equense, Seiano, Sorrento. E più avanti Massa Lubrense, Termini, Sant’Agata sui due golfi.
Senza accorgertene ti ritrovi in una paradiso per turisti tedeschi dove è facile dimenticare la bruttezza. Questa è anche la residenza estiva della borghesia napoletana da cui traspare lo splendore della riserva esclusiva.
Guardando Capri dall’alto mi chiedo se anche questa è Napoli. La risposta l’avrò qualche ora dopo, mentre seduti a un bar di Sant’Agata, qualcuno ci racconterà del progetto di trasformare la Costiera in una Repubblica indipendente. «Sorrento come San Marino», lo sentirò con le mie orecchie.

© Cristiano de Majo

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5 giugno 2009

0032 [SPECULAZIONE] Santo cemento di Cristiano De Majo - 1° parte

Esmeralda Calabria, Andrea D'Ambrosio, Peppe Ruggiero nel 2007 girarono un film in Campania 'Biùtiful cauntri' un viaggio con telecamera in spalla. La loro guida era Raffaele Del Giudice, un uomo che lotta ogni giorno contro i mali di quella terra. Volevano documentare l’illegalità diffusa e i continui sversamenti dei rifiuti tossici, nelle mille discariche abusive di quel territorio.
Del Giudice non si aiutava di informatori o spie segrete, ma si orientava attraverso l'olfatto, seguiva l'odore della munnezza.



Cristiano De Majo mi ha autorizzato a pubblicare il suo articolo scritto per Il diario, maggio 2009 dedicato alla 'città' [1], ripercorre lo stesso paesaggio, ma l'odore che più lo colpisce è quello del cemento.
Com’è stato descritto da Roberto Saviano capire il 'ciclo del cemento' è fondamentale per spiegare il nostro paese.
Recentemente in Sicilia sono stati arrestati i proprietari di un cementificio, usavano il cemento depotenziato per aumnetare i propri profitti. Tra i lavori ultimati vi sono parti dell'aereoporto di Palermo e di Trapani, il porto di Balestrate, il lungomare di Mazara del Vallo e infrastrutture dell’area industriale di Partinico. In costruzione un commissariato edificato sul terreno sequestrato alla mafia. [Link]

Mi chiedo perché gli architetti parlano dei personali luoghi comuni centro storico, periferia, archistar, villetopoli, ecomostro, non luoghi e poi si dimenticano di trovare delle sinergie per sconfiggere il vero male italiano, la cementificazione illegale e senza sosta?

Buona lettura:


Santo cemento


«Quale orrore! Quale orrore!»
Joseph Conrad – Cuore di tenebra

Più giro e più sento di perdermi. Più vedo e più faccio fatica a riconoscere. Se chiudo gli occhi continuano a scorrermi davanti le stesse immagini. Lembi di strade extraurbane, campagne distrutte, carcasse fiammeggianti, scheletri edilizi che galleggiano nel nulla. Nelle narici mi sembra di sentire l’odore del cemento, come se fossi riuscito ad annusare questa polverosa essenza di annientamento. Quando torno a casa, mi sento pesante come se avessi attraversato una colata di magma, una distesa di fango viscido, qualcosa di inafferrabile che ti può solo inghiottire.
Volevo capire cosa fosse realmente la provincia di Napoli. Vista dalla città sembrava un corpo estraneo e al tempo stesso un capro espiatorio, un concetto territoriale a cui attribuire le cause dei nostri mali. «Quelli non sono napoletani, vengono dalla provincia», avevo sentito dire spesso da persone convinte che certe cose – brutte, tremende o soltanto spiacevoli – siano ricondotte a Napoli mentre in realtà succedono in provincia originando dalle sue deformità. Io, invece, ero persuaso che non si potesse realmente separare la città dal frastagliato lago edilizio che la circonda, un continuum urbanistico che arriva a nord fino ai campi di Villa Literno, a sud lambisce la nostalgia in stile bella epoque di Sorrento, e a est s’inerpica sulle pendici del Vesuvio per disperdersi nell’Irpinia. Mi pareva che tutti gli abitanti di questa conurbazione ad alta densità si sentissero nel bene e nel male parte di una grande capitale dello spirito. E che proprio nella provincia risiedesse l’idea di una metropoli napoletana.
La realizzazione della nuova area metropolitana sembrava peraltro uno dei principali temi delle elezioni provinciali di giugno, in cui il centrosinistra sarebbe stato chiamato a una missione impossibile: ribaltare l’opinione diffusa che quindici anni di governo della città e della regione avessero prodotto soprattutto dissesto, degrado, disordine, fallimento, peggiorando, se possibile, un quadro complessivo già di per sé tragico. Per interpretare questo ruolo miracoloso, le alte sfere nazionali avevano deciso di impalmare Luigi Nicolais da Sant’Anastasia, ingegnere, ex ministro della Funzione Pubblica, ed ex bassoliniano convertito sulla via di Damasco, che proprio in ragione di questa conversione aveva potuto permettersi il lusso di presentarsi come volto nuovo. Il centrodestra aveva invece deciso di far gestire il suo netto vantaggio psicologico da un impresentabile ras dell’edilizia, tale Luigi Cesaro, uomo incapace di mettere due parole in croce, che affondava le proprie radici a Sant’Antimo nel cuore della provincia nord.

A prescindere da come sarebbe andata, ancora una volta si trattava di un programma di occupazione. Una casella da assegnare nello scacchiere del potere nazionale. La Provincia, ente di cui tutti almeno a parole auspicavano l’abolizione, poteva rappresentare un simbolo di qualche rilevanza mediatica, ma con nessuna ricaduta sulla vita degli abitanti, considerata anche la scarsità delle sue competenze. Del resto chi poteva ancora proporre con serietà cure realistiche per un territorio ridotto ormai allo stato terminale di una lunga malattia politica e umana?
Mentre con il fotografo al mio fianco viaggiavo in cerca del confine immaginario – il fossato concettuale che distingue la periferia dalla provincia, la città dalla non città – avevo pensato alla via crucis. Non ero arrivato ancora al punto da sentirmi Gesù Cristo ma si avvicinava la Pasqua e, mano a mano che prendeva forma, il percorso si conformava come una vera e propria strada di sofferenza e passione, anche se non eravamo diretti verso nessun Golgota, e non ci aspettava la morte. Le nostre stazioni sarebbero stati i luoghi salienti di questa storia di distruzione, i posti dove ci saremmo fermati perché incapaci di andare oltre o soltanto per cercare sollievo. Avremmo affrontato con il corpo e lo spirito le disordinate colpe che nel corso del tempo i nostri simili avevano fatto materializzare su questa terra.

Il rione 219 a Melito

Un giorno di inizio primavera ci mettiamo in macchina e usciamo dalla città. Circumnavighiamo Scampia intercettando con la coda dell’occhio le Vele, ectoplasmi edilizi da cui si desidera solo fuggire.
Melito è il primo comune che s’incontra lasciando Napoli in direzione nord. L’ingresso ha un’apparenza normale. Il corso principale di un paese disordinato, ma tutto sommato ancora umano, che indirizza lo sguardo verso una specie di miraggio: una bella chiesa di scuola vanvitelliana, settentesca e tondeggiante, soltanto troppo gialla. Ci raccontano che anni fa fu tinteggiata arbitrariamente da un costruttore della zona in occasione del matrimonio della figlia. (Vedi alla voce: Restauro spontaneo). Ai lati della strada, dopo anni, rivedo i contrabbandieri di sigarette e le loro facce consumate dall’assenza di aspettative. Sembrerebbe di essere in un paese dell’entroterra, se non fosse per i profili minacciosi dei mostri edilizi che sbucano oltre le case del centro storico e un senso di tensione che rimbalza qui come un’eco che esplode in tutta la periferia.
Ci avvaliamo di una guida locale – un architetto cresciuto a Melito – e ci rendiamo conto presto di quanto sia necessaria. Il paese, come tutta la zona del giuglianese, ha un’antichissima tradizione nella produzione delle mele annurche. L’insediamento nasce come casale, terra di masserie, fabbriche di frutta che riforniscono la città. Il carattere agricolo della zona viene conservato fino a tempi relativamente recenti. Tutti i melitesi che incontro fanno risalire l’inizio della loro rovina a una data fatidica, il 1980, anno del terremoto in Irpinia.
Il nostro si trasforma molto rapidamente in un tour guidato dello Scempio Edilizio. Sbancamenti, scheletri di centri commerciali che si andranno ad aggiungere ad altri scheletri stabilmente provvisori, un reticolo di strade dove si affacciano palazzine basse, la cui difformità immotivata omaggia un estremo e illogico spontaneismo costruttivo. Costeggiamo un intero complesso residenziale sequestrato (il Parco Guerra), che si erge come una specie di monumento alla violenza edilizia. Dopo il milite ignoto, il mausoleo del costruttore ignoto, un’opera costituita da quattrocentosessanta appartamenti vuoti. Il verde che a tratti affiora dall’asfalto è soffocato dalla mancanza di cura, dalle bottiglie di plastica, da una sentenza di inutilità che condanna gli spazi collettivi.

Le palazzine della 219 sono l’ennesimo fortino del degrado urbano, «il Bronx di Melito», come le chiamano. Furono messe in piedi grazie alla legge 219 dell’81, approvata per finanziare la costruzione di case popolari per i terremotati. Grazie a essa, i rioni 219 hanno progressivamente punteggiato tutta la provincia-periferia, guidando la deportazione in massa dei napoletani del centro costretti ad abbandonare le loro case fatiscenti. A proposito di effetti del terremoto, qui l’attribuzione delle responsabilità del degrado viene ribaltata. Non è colpa di quelli della provincia come pensano molti in città. Qui sono sicuri che la colpa sia dei napoletani. O di questi napoletani mandati al confino in un territorio con il quale non avevano nessun legame.

Chiusi in macchina galleggiamo in questa zona autonoma dello scissionismo non senza qualche preoccupazione. I palazzi grigi sono tristi e abbandonati ma non hanno forme disumane. Le strade sono velate da una calma ovattata, imposta. Nel silenzio acquatico un ragazzino cammina come se stesse lentamente uscendo di scena. Era stata prevista una piscina comunale. È stata distrutta. Nessuno svago è permesso. C’è gente che lavora sodo. Ci fermiamo davanti a una statua di Cristo con le mani aperte, tenuta in buona compagnia da un’altra più piccola di Babbo Natale. Vegliano (e proteggono?) un giardinetto recintato, ovvero, mi viene spiegato, una piazza di spaccio. Tre o quattro giovanotti si mettono subito in allarme. Per nostra fortuna la guida conosce uno di loro e la situazione si tranquillizza. Ci fingiamo studenti di architettura. Ciononostante ci viene impedito di scattare una foto ai palazzi. «Fateci stare tranquilli», ci chiedono, ma sembra che questo diniego sia semplicemente un modo per manifestare il loro potere. Ci raccontano orgogliosi che solo qualche giorno fa hanno cacciato una troupe di Italia 1 «a calci nel culo». Su uno dei bordi del rione, si trova un muro alto un paio di metri con un piccolo spazio al centro dove riesce a stento a passare una persona. È stato alzato, mi spiegano, ai tempi della deportazione, reclamato dagli abitanti del vecchio nucleo per tenere i terremotati idealmente lontani. Un muro per illudersi di non essere toccati dall’infezione.

Tornati al paese, Nino Masella, pianificatore territoriale e responsabile urbanistico del Pd per il comune di Melito, mi illustra in modo illuminante una possibile chiave dei rapporti tra centro e periferia: «Quando più ci siamo avvicinati alla città», mi dice, «più ci siamo allontanati da un’idea di centro».

Il palazzetto dello sport di Cesaro a Sant’Antimo

Spostandosi solo di un paio di chilometri, nel nulla più autentico, a due passi dalla stazione ferroviaria Sant’Antimo – Sant’Arpino, ai confini di un parcheggio vuoto, dove, come se ci fosse bisogno di sottolineare una differenza tra dentro e fuori, ci sono i resti archeologici di un campo di basket – quattro tabelloni senza canestri né reti, linee consumate – sorge il Centro sport benessere del Gruppo Cesaro. L’ingresso, che sembra il varco di una dogana di un paese nordeuropeo e marca in modo palese uno stacco netto con il paesaggio circostante – e ora qualcosa di completamente diverso, sembra comunicare – è affiancato da giganteschi cartelloni elettorali sui quali figurano i nomi di Berlusconi e Cesaro a caratteri cubitali. Su tutti troneggia lo slogan Riprendiamoci la dignità.

Prima di incominciare il viaggio, ero andato a curiosare sul sito di Cesaro. Non avevo trovato né un programma, né linee guida, ma la biografia del costruttore parlava chiaro. L’inizio del suo impegno politico risaliva agli anni Ottanta, il periodo in cui era incominciata la distruzione. Era stato, tra le altre cose, assessore all’urbanistica, all’ambiente, ai lavori pubblici. Da cui si faceva veramente fatica a capire quale dignità volesse riprendersi.

Ma forse per Cesaro dignità è il campo di calcio regolamentare contenuto nel suo centro benessere, sono i sofisticati apparecchi per il fitness con chiavetta usb, è il centro estetico che offre «una colata di gel a soli 25 euro». Ho la sensazione che tutte le persone che vedo impegnarsi nelle svariate attività sportive abbiano voglia di dimenticare il luogo in cui vivono. Si auto-recludono in questa pulitissima e ordinata enclave per cercare la loro dignità. Con tutta probabilità per Cesaro dignità sono anche le foto del Milan sparse ovunque nelle hall del centro, accompagnate da una lettera del team manager che si congratula per la qualità dell’accoglienza. La squadra è stata ospitata qui in occasione dell’ultima trasferta con il Napoli. Mi viene da pensare a Maldini che palleggia tranquillo e inconsapevole, mentre fuori a pochi metri prende forma l’apocalisse.
Chiediamo a un responsabile del centro di fare delle foto, ma, anche se con uno stile più istituzionale, ci viene impedito come nella 219. «Abbiamo un ufficio stampa che si occupa di tutti gli aspetti della nostra immagine coordinata, ma in questo momento non c’è», ci comunica il responsabile. E fino a quando non lasciamo il centro ci fa seguire da un suo scagnozzo, che cerchiamo di seminare inscenando un improbabile nascondino, mentre gruppi di bambini giocano a calcetto.

Fine prima parte

© Cristiano de Majo

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Leggi un altro articolo di Cristiano De Majo su WA: 0031 [SPECULAZIONE] In nome di cosa continuiamo a sentirci migliori?

[1] E-mail di contatto:
Cristiano,
vorrei pubblicare anche questo tuo scritto.
Questi appunti di viaggio senza retorica m’interessano.
Sono comparabili agli scritti di Paolo Rumiz e Franco Arminio (Wilfing Architettura a breve farà un’intervista da pubblicare in inverno, la rete perde lettori in estate) ma a me piace ricordare Sandro Onofri.
Inviato: venerdì 29 maggio 2009 ore 10.45

caro salvatore,
puoi senz'altro pubblicare l'articolo. l'unico problema è che è molto lungo. se preferisci puoi anche estrapolare degli stralci, a patto che appaiano come tali.
ti saluto, ti ringrazio e ti auguro una bella giornata,
cristiano
Inviato: venerdì 29 maggio 2009 ore 16.21

27 maggio 2009

0001 [WILFING] Sul perché Ugo Rosa si sente migliore, screditando verbalmente gli uomini di destra

La rubrica WILFING nasce per registrare alcune reazioni e dialoghi sul Web.

Recentemente un mio commento sul blog di Ugo Rosa, ha stimolato questa reazione: In nome di cosa mi sento migliore…

Ugo,
il 17 marzo Adriano Sofri ha pubblicato questa nota su
Facebook: Titolo: «Risposta alla sfida su che cos'è destra e che cosa sinistra. Gianfranco Romani, sfottendo qui la mia "smisurata cultura", del che lo perdono volentieri, mi sfida a dire "una cosa di destra e una di sinistra". Lui crede che non valga più la pena di distinguere. Io sì. Ecco un piccolo campione. Sinistra: la mano sinistra; destra: la mano destra. (Non è una battuta. E' la bella questione del mancinismo). Destra: il chiodo; sinistra: il nodo. Sinistra: il piacere della somiglianza; destra: la paura della differenza. Sinistra: la Caritas diocesana; destra: monsignor Fisichella. Destra: l'essere stati di sinistra, e il rinnegarlo; sinistra: essere stati di sinistra, e farne tesoro. Destra: credere di sapere chi si è e che cosa si vuole (e chiamarlo "identità"); sinistra: sapere chi non si è più, che cosa non si vuole più. Destra: lapidare l'adultera; sinistra: scarabocchiare col dito per terra per distogliere i lapidatori, escogitare l'espediente del "Chi è senza peccato..." per confondere i lapidatori, far scappare l'adultera. Potrei continuare molto a lungo, praticamente senza finire. Una sola appendice: di sinistra è anche ammettere che le cose che penserebbe o farebbe una buona sinistra potrebbe pensarle e farle anche qualcuna, o qualcuno, di destra. Perché ci sono più cose al mondo eccetera».

Ti sembrerà strano, concordo e mi identifico sia nell'idea di sinistra di Adriano Sofri che nei tuoi otto punti del buon uomo di sinistra.
Per dar forza a queste idee ti sottopongo la visione delle prime pagine di due contrapposti quotidiani sulla recente vicenda di cr
onaca:

Non credo che ci sia bisogno di dirci quale sia l’immagine più arguta o ironica.

Ed è proprio questa netta consapevolezza che mi ha stancato, in questi anni ho visto centinaia e migliaia di bestiari scritti dalle più brave penne del giornalismo di sinistra, ma spesso finivo per apprezzare l'arroganza della rubrica il “Riempitivo” sul Foglio di Pietrangelo Buttafuoco, perché privo di buonismo intellettuale da educatore sociale.
Sono stanco di un linguaggio e di una politica aggettivante, caratteristica principale di tutti i tuoi post, aggiunte di parole che girano a vuoto su un problema creato ad arte dalla destra: la contrapposizione contro gli uomini per evitare un serio confronto sulle idee.

Gesualdo Bufalino raccontava come nella cultura siciliana ci fosse un senso profondo di antistatalismo, un tacito accordo tra cittadini, facendo notare come era in uso segnalare i possibili pericoli istituzionali appena si ravvisavano - Carabinieri, Polizia, Guardia di Finanza - facendo dei gesti di allerta alle persone che s’incontravano.
Una cultura che non sembra essere solo dominio di quella siciliana. Opporsi a questa idea dominante con i semplici presupposti immorali è inutile. Non capire che la nostra cultura è intrisa dell’amore incondizionato nei confronti degli uomini di potere e non dal senso dello stato è uno sbaglio che la sinistra perpetua a fare senza soluzione di continuità.

Recentemente ho letto un libro scritto da un ignorante e quasi analfabeta di nome Vincenzo Rabito, viveva a Chiaramonte Gulfi in Sicilia narra la sua storia: «Questa è la bella vita che ho fatto il sotto scritto Rabito Vincenzo, nato in via Corsica a Chiaramonte Qulfe, d’allora provincia di Siraqusa, figlio di fu Salvatore e di Qurriere Salvatrice, chilassa 31 marzo 1899, e per sventura domiciliato nella via Tommaso Chiavola. La sua vita fu molta maletratata e molto travagliata e molto deprezata».#1
 



La sua vita è stata una perenne rincorsa ad accaparrarsi le bontà del potere di turno, semplicemente per riuscire a mangiare.
Un asservimento raccontato senza rancore, poiché culturalmente condiviso.

Ugo,
la tua risposta da intellettuale di sinistra incattivito non mi convince, temo che sia intelligenza sprecata.
Il tuo obiettivo è chiaro, ma gli strumenti con cui fai la guerra sono inefficaci.
Il mio occhiello all’articolo di Cristiano De Majo era volutamente paradossale. Un invito a riflettere ribaltando il punto di vista.

Ed essendo tu architetto, di sottopongo un quesito:
mi è stato affidato l’incarico di progettare una casa di campagna. Per mia consuetudine chiedo ai committenti di spiegarmi ciò che intendono realizzare.

Ecco la sintesi in 25 punti:


1) piscina 6x12 + spogliatoi + doccia + gazebo;
2) corte da un lato;
3) tetto in legno, gronda a sbalzo con perlinato;
4) casa estesa solo a piano terra;
5) parcheggio esterno per 6/8 auto;
6) ingresso laterale;
7) casa adagiata a partire dalla quota del terrazzamento;
8) evitare i gradini, curare i dislivelli;
9) 100/150 mq;
10) salone ampio + forno + cucina in muratura;
11) interno rustico con travi in legno;
12) una camera matrimoniale;
13) due piccole stanze da letto;
14) un bagno;
15) ripostiglio;
16) garage separato per utensili + piccola cantina;
17) giardino naturale;
18) condizionatori;
19) approvvigionamento idrico comunale;
20) pannello solare per l’acqua calda;
21) spesa iniziale massimo euro 80.000;
22) geologo, comune e progettista (cioè io) tutti amici;
23) cisterna;
24) verande;
25) spostare palo della luce.

Questa è la cultura architettonica con cui mi confronto quotidianamente, questa è la mia sfida.
Ti chiedo a che serve dare del cretino al potente di destra di turno se il tuo messaggio non incide nella cultura popolare?
Saluti,

Salvatore D’Agostino


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#1
Vincenzo Rabito, Terra matta, Einaudi, Torino, 2007, p. 3