Carlo Fruttero, insieme a Franco Lucentini, non raccontava storie ma costruiva spazi e per creare spazi non servono idee ma utensili.
Vi ripropongono un testo tratto da un libro involontario su I ferri del mestiere, mai concepito dai due scrittori ma pensato e curato da Domenico Scarpa.#
Note per un racconto didattico
di Carlo Fruttero e Franco Lucentini
E cosi, è arrivato anche in Italia, prevedibilmente a Milano, il creative writing. Non abbiamo assistito al corso tenuto in quella vivace metropoli dal nostro amico Pontiggia, ma le sue lezioni saranno state di sicuro intelligenti, illuminanti. Gli abbiamo anzi suggerito di raccoglierle in volume, certi come siamo che un tal volume andrebbe a ruba. Gli iscritti - ci ha raccontato Pontiggia - erano gente già piuttosto articolata, professionisti, pubblicitari, politici, insegnanti, studenti e beninteso aspiranti scrittori, tutti consapevoli delle proprie artrosi e rugginosità linguistiche, tutti desiderosi di apprendere le ginnastiche ed eventualmente i segreti del mestiere. Numero chiuso a ottanta, ma a centinaia premevano per partecipare e non c'è dubbio che la cosa crescerà, verrà prima o poi estesa ministerialmente alle università di stato, diventerà normale materia d'insegnamento, come da decenni accade nelle università Usa.
Critici e scrittori italiani farebbero bene ad affilare fin d'ora le loro armi più cincischiate in vista del radicale dibattito che infallibilmente ne nascerà, occupando le arene un tempo riservate alla crisi del romanzo o della poesia, allo sperimentalismo, al plurilinguismo, al rapporto tra letteratura e società, ecc.
Quanto a noi, ci prepariamo a scrivere un racconto che abbiamo in mente da moltissimo tempo, da quando cioè, più di vent'anni fa, cominciammo a occuparci di fantascienza con professionale continuità. Ricevevamo e leggevamo regolarmente vari mensili e quindicinali americani del ramo, «Galaxy», «Analog», «The Magazine of F. & S. F.», ecc., in ogni numero dei quali ricorreva la pagina pubblicitaria di una scuola per corrispondenza di creative writing. La illustravano, al modo dei monumenti ai caduti davanti ai municipi di paese, fotografie formato francobollo, in bianco e nero, sia di scrittori moderatamente rinomati nell'ambiente della fantascienza, del poliziesco e del genere «rosa» (gl'insegnanti), sia di ex allievi che testimoniavano di aver cominciato a vendere lucrosamente la loro produzione appena terminato il corso. Ricordiamo una paterna e autorevole figura con la pipa, un giovane affilato in camicia a scacchi, una briosa signora con vistosi orecchini e un' altra più anziana, canuta, dall'aria dolce e volitiva insieme.
Quel campionario, ripetuto mese dopo mese, suscitava in noi una sottile tristezza cui ci sforzavamo di opporre ogni possibile argomento. La colpa - ci dicevamo - era di quella funeraria impaginazione; nonché, in buona parte, dei pregiudizi (meglio, dei riflessi) romanticamente elitari che sopravvivevano in noi. L'idea che non valesse la pena di imparare a scrivere se non per tentare di scrivere Moby Dick era ridicola e nociva, meglio questo accostamento alla letteratura, pragmatico, ragionevole, che non sboccava in lacrimosi fallimenti, non si lasciava dietro una scia di Melville mancati, ma promuoveva (era ora!) l'onesto artigianato come le analoghe scuole per elettrotecnici e stenodattilografe. D'accordo, c'era un po' troppa casalingheria in quelle facce soddisfatte, troppo tinello, troppo doppio garage, troppa coscienza dei propri limiti, troppa, come dire, normalità. Ma non c'immalinconivano forse ancora di più le facce, e le opere, segnate da salivose velleità, da sregolatezze inconcludenti, da una genialità superficiale o cosi tortuosa da confondersi con l'inettitudine? E poi, non era detto. Chissà che proprio di li, da quei ranghi operosi, diligenti, modesti...
Da quel «chissà» parte il nostro racconto, oggi felicemente sistemabile in ambiente italiano. L'eroe da seguire è un giovane senza lavoro (ma ci tenta anche il pre-pensionato), che con notevoli sacrifici, magari un prestito, paga la sua quota d'iscrizione alla scuola milanese di creative writing, non perde una lezione, una sillaba, fa domande, fa tesoro, si esercita nei lunghi tragitti sui treni di pendolari e nella provinciale indigenza di, mettiamo, Borgomanero, Mortara, sopportando la derisione o quantomeno lo scetticismo di amici, ragazze, baristi, bottegai (Macellaio, incartandogli la trippa: «Allora, allora, come vanno i Promessi Sposi?»)
Da quel «chissà» parte il nostro racconto, oggi felicemente sistemabile in ambiente italiano. L'eroe da seguire è un giovane senza lavoro (ma ci tenta anche il pre-pensionato), che con notevoli sacrifici, magari un prestito, paga la sua quota d'iscrizione alla scuola milanese di creative writing, non perde una lezione, una sillaba, fa domande, fa tesoro, si esercita nei lunghi tragitti sui treni di pendolari e nella provinciale indigenza di, mettiamo, Borgomanero, Mortara, sopportando la derisione o quantomeno lo scetticismo di amici, ragazze, baristi, bottegai (Macellaio, incartandogli la trippa: «Allora, allora, come vanno i Promessi Sposi?»)
L'interesse, per noi, di una simile vicenda starebbe, a saperlo fare, nel mimare l'evoluzione lessicale e stilistica del protagonista, che chiameremo in via provvisoria Walter (un nome d'immigrato, Carmelo o Salvatore, sarebbe forse più «giusto» per molti motivi, ma la componente meridionale implicherebbe vertiginosamente un problema già di per sé complicato). Narrazione in terza persona, più ardua ma più efficace della prima, che qui scivolerebbe per forza in una tormentosità diario-intellettualistica poco credibile.
Walter dunque maneggia all'inizio una lingua alquanto rudimentale, povera, infarcita di cliché scolastici, giornalistici, televisivi ecc.; qualche miserabile eleganza, qualche errore d'ortografia e di grammatica. Oggetti, paesaggi, persone, piccoli episodi, dialoghi, pensieri, tutto dovrebbe apparire attraverso questo velo di pattume linguistico, questa polvere desolata. Ma senza forzature sarcastiche, parodistiche. Insensibilmente, si dovrebbe passare a una fase di arricchimento, di timida e poi via via frenetica, debordante acquisizione. Gli stessi compagni di viaggio, le stesse stazioncine, le stesse risaie, le stesse pizzerie, le stesse vie di Milano, ma deformate, impreziosite da immagini barocche, similitudini ricercate, un lessico sempre più sontuoso, una sintassi sempre più funambolesca.
Un flirt ferroviario con una ragazza che frequenta una scuola di grafica o di recitazione, e che Walter di giorno in giorno, di pagina in pagina, va esaltando, idealizzando, trasfigurando, sarà probabilmente il mezzo migliore per illustrare una simile curva. Ma anche qui, le successive metamorfosi lirico-erotiche di Cinzia (o Daniela, o Loredana) dovrebbero essere il più possibile sfumate, plausibili, riducendo al minimo l'effetto meccanico di exercice de style da una parte, e dall'altra il rischio che il lettore scambi Walter per un paranoico.
Cinzia (o Deborah, o forse soltanto Annamaria) sarà inoltre assai utile per introdurre la parabola discendente. Da lei potrà partire lo sgonfiamento, il rinsavimento, il primo passo verso una maggiore sorvegliatezza e sobrietà. Pensiamo a una camera di alberghetto a Novara, con pioggia, termosifoni spenti, mozziconi, fondi di birra o Coca-Cola, e a un subitaneo orrore per quella biancheria intima scarlatta, lussureggiante di poveri pizzi. O al contrario, sarà Cinzia a infrangere bruscamente il processo espansivo implodendo in crudezze del tipo: Ma chi me lo fa fare di stare con un morto di fame che porta la maglia di lana, io mi metto con Giulio che sarà un ignorante ma va in giro in Bmw! (Ramificazione: Giulio è un pubblicitario, da cui rivalità e gelosie anche di linguaggio. Walter lo chiama, con inutile disprezzo, quel Casanova assorbente, quel don Giovanni deodorante ecc.).
Fine comunque del «bello scrivere», sparizione di fregi, volute, dorature. Tutto si asciuga, si contrae, ma avvitandosi in direzione introspettiva. Walter analizza gelidamente se stesso, non vede altro, non registra altro. Minuziosità e aridità crescenti, fino a una sorta di crisi di guarigione provocata da una casuale irruzione di realtà: minima (rottura di un tubo dell'acqua in cucina) o massima (rapina alla piccola oreficeria dello zio di Walter, un vecchio diabetico).
Fine comunque del «bello scrivere», sparizione di fregi, volute, dorature. Tutto si asciuga, si contrae, ma avvitandosi in direzione introspettiva. Walter analizza gelidamente se stesso, non vede altro, non registra altro. Minuziosità e aridità crescenti, fino a una sorta di crisi di guarigione provocata da una casuale irruzione di realtà: minima (rottura di un tubo dell'acqua in cucina) o massima (rapina alla piccola oreficeria dello zio di Walter, un vecchio diabetico).
Scrittura che torna a essere focalizzata sul mondo esterno, con dimessi intenti notarili. Abolizione della soggettività, soppressione di tutti gli aggettivi. Meticolose descrizioni degli oggetti, persone ecc. già viste. Accanimento sul dettaglio, fino all'astrazione (le circonvoluzioni di tre etti di trippa, le macchie di couperose sulle guance del macellaio).
Da questo lento, travagliato recupero dovrebbe infine emergere una lingua narrativa pulita, consapevole, elastica, viva; e (ma è la parte più difficile, due o tre righe d'esempio e via) bellissima. Perché, contro ogni probabilità, Walter diventa davvero un grande scrittore, arriva davvero al capolavoro.
Sarà ovviamente impossibile darne la «dimostrazione». La scoperta, o colpo di scena, avverrà per vie indirette, due anni dopo alla Buchmesse di Francoforte, tre anni dopo a New York, o magari in un villaggio marocchino, dove la vetrina di una cartolibreria esibisce una foto di Walter, il suo libro è stato tradotto perfino in arabo. Cinzia e Giulio la notano e risalgono sulla Bmw (il modello è ormai antiquato) litigando aspramente.
Meno soddisfacente per il lettore ma più praticabile per noi sarebbe una chiusura «in minore». Walter si rende conto di aver «imparato a scrivere», intuisce il proprio genio, progetta il capolavoro, anticipa il trionfo e la sua inesorabile, cinerea vanità, rinuncia, riprende a pensare, vedere, parlare (scrivere, dunque) esattamente come all'inizio, si rannicchia per sempre nell'oreficeria dello zio diabetico che un giorno erediterà.
Quaranta, cinquanta pagine dovrebbero bastare. O forse quattro, cinque.
[1985]
15 gennaio 2012
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Note:
# I ferri del mestiere. Manuale involontario di scrittura con esercizi svolti di Carlo Fruttero & Franco Lucentini. A cura di Domenico Scarpa, Einaudi, Torino, pp. 5-9
è proprio grazie a una tua segnalazione che mi è venuta voglia di leggere I ferri del mestiere.
RispondiEliminaRem,
RispondiEliminaricordo bene (un secolo Web fa).
A proposito di Carlo Fruttero sono stato indeciso sul testo da pubblicare poiché questo che ti cito a seguire, forse sarebbe stato più pertinente per il mondo degli architetti con e senza tetto (troverai una proposta dopo questo post):
Titolo: La parodia dell’ obbligo.
È un vero peccato che nella scuola italiana la parodia non faccia parte dei normali strumenti d'insegnamento. In Francia è un esercizio obbligatorio, al pari del tema, del riassunto o della dissertazione; e Proust, tanto per fare un nome, continuò a praticarlo con gusto e profitto dopo essere uscito dai banchi. Mentre da noi, anche negli anni delle sfrenate dissacrazioni e dei rivoluzionari esperimenti, non venne in mente a nessuno d'introdurre «l'ora di parodia».
In parte, forse, per una malintesa forma di rispetto, come se scrivere due paginette «alla maniera» di Verga o D'Annunzio equivalesse a uno sberleffo, a uno sgorbio volgare sul loro sacro monumento. In parte deve poi entrarci quel rovinoso atteggiamento che gl'italiani hanno sempre avuto verso la cultura (ma anche verso la politica, l'economia, il sindacalismo, ecc.) che gli fa apparire «serio» soltanto ciò che è altisonante, impettito, astruso, per cui, conversamente, ogni approccio di sapore pragmatico gli sembra ignobile e superficiale. Ma sospettiamo inoltre che sia la difficoltà della cosa in sé a trattenere gl'insegnanti; i quali trovano evidentemente più comodo discettare astrattamente di stili, strutture, moduli semantici (e far poi mandare a memoria queste loro elevate considerazioni) che non scendere nel vivo del problema.
Per parodiare un autore bisogna infatti conoscerlo belle, averlo capito e fatto capire a fondo. E qui sta appunto la grande utilità didattica della parodia, che misura meglio di qualsiasi esame il grado di familiarità che l'alunno ha con un dato testo, e che al tempo stesso sdrammatizza quel testo, lo porta a un livello meno ostico, remoto, minaccioso, noioso, lo rende affettuosamente frequentabile anche per il futuro.
Si dirà che gli studenti, con quel poco che leggicchiano, non sono in grado di individuare la cosiddetta «cifra stilistica» di un autore, e tantomeno di ripeterla a comando in chiave ironica. Ma potrebbero esser messi sulla strada, invitati a raccontare il coinvolgimento di Renzo in un concerto rock o la visita di Lucia al supermercato, a descrivere una strage mafiosa in un bar con le cadenze di Gozzano, a comporre un' ode carducciana al totocalcio.
Senza contare che questo tipo di esercitazione si presta mirabilmente al lavoro di gruppo, perseguito con assurda demagogia in altri settori ma che qui darebbe i suoi veri frutti educativi. Perché, se appena i parodisti cominciassero a prenderei gusto, non si fermerebbero alla letteratura, passerebbero a rifare il verso ai generi più correnti d'espressione, dibattiti congressuali e dichiarazioni programmatiche, comunicati pubblicitari, teleinterviste e teledibattiti, confessioni di stars, allocuzioni ministeriali, ecc. Un modo ideale, forse l'unico, per distaccarsi da quel pattume, espellerlo dal proprio sistema linguistico.
Scherzi di tale natura hanno sempre circolato tra compagni di scuola, ma in modo sporadico e improvvisato, sotto forma di battute, foglietti e recite di classe, senza mai meritare altro che la sprezzante qualifica di «irriverenze goliardiche». Eppure quei facili lazzi, se coltivati e raffinati, potrebbero dare a ciascuno una durevole sensibilità lessicale, che significa anche: igiene mentale, resistenza al fumo dogmatico, concretezza, abitudine a guardare le cose da diversi punti di vista, tutte cose di cui il nostro Paese non si può dire che che abbondi.
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RispondiEliminaMa già sappiamo che il ministro, chiunque egli sia, alzerà il dito e obietterà solennemente: «Nel quadro ... » (ragazzi, continuate voi).
Sviluppo agghiacciante. Il ministro prende alla lettera queste nostre righe, istituisce la «parodia dell'obbligo», nel giro di pochi anni milioni di giovani ne diventano esperti, alcune migliaia espertissimi, al Quirinale il Capo dello Stato consegna un gelato al più bravo. Seri settimanali e importanti editori si contendono quei manoscritti, i critici proclamano che quei pastiches giocosamente assemblati con farine altrui rappresentano una forma espressiva autonoma di enorme interesse, e anzi l'unico tipo di letteratura ancora praticabile nel nostro tempo (ciò che è già avvenuto con la pittura, la scultura, in parte la musica, in parte la poesia). Nascono collane di parodie, settimane della parodia, premi termali della parodia, e si tiene un grande convegno nazionale sul futurista Luciano Folgore, Dante della parodia italiana, sotto l'alto patronato del ministro. Costui, chiunque egli sia, tiene il discorso inaugurale cominciando con: «Nel quadro ... » (Squallore e vanità di qualsiasi insegnamento).
[1984]
Cari AST,
RispondiEliminache ne dite d’indire un nuovo concorso?
Bisogna solo individuare un luogo rappresentativo della nostra ‘Italia’ ad esempio Pontida o Vigata e far progettare il ‘museo del nulla’ ovvero il museo secondo le foto delle riviste cartacee o Web, perfette, senza gente, senza geografia e pulite.
L’unico vincolo è l’imposizione della parodia con una doppia variante o secondo il linguaggio di un architetto X noto o senza linguaggio cercando di capire quello che i dotti chiamano ‘vernacolo’.
Mi spiego meglio, noi architetti senza e con tetto abbiamo studiato gli stili che i ‘potenti o se vuoi i borghesi’ hanno pagato e fatto veicolare. Non conosciamo l’architettura del popolo che serviva e costruiva le case dei potenti. Per semplificare il bordo delle città, le abitazioni che giravano intorno ai centri del potere (questo ‘girare-fera’ ‘ intorno-peri’ oggi è chiamato ‘periferia’).
Che ne pensate?
Saluti,
Salvatore D’Agostino
caro Salvatore,
RispondiEliminami sembra tanto che questo "museo del nulla" già ci sia, penso alle tante architetture di Incompiuto siciliano.
A proposito di architettura vernacolare, qui a Pescara c'era Paolo Bettini che chiedeva agli studenti di progettare "alla maniera di", un modo per conoscere i linguaggi architettonici senza pregiudizi.
Rem,
RispondiEliminadiverse volte nelle mie ricerche mi sono imbattuto nel sito di Paolo Bettini condivido il suo approccio. Le lettere al fratello Theo di Vincent Van Gogh è un manuale per capire il significato di "alla maniera di".
A proposito delle incompiute è incredibile la vitalità informale che c'è intorno al mega campo da Polo costruito a Giarre, da visitare senza guida turistica.
Su questo luogo Jacopo Fo si è inventato una storia. Leggi/vedi qui .
Saluti,
Salvatore D'Agostino