16 ottobre 2009

0071 [OLTRE IL SENSO DEL LUOGO] Archiwatch di Giorgio Muratore

Salvatore D’Agostino:
  • Qual è l’architetto noto che apprezza e perché?
  • Qual è l’architetto non noto che apprezza e perché?
Qui l’articolo introduttivo


Archiwatch di
Giorgio Muratore

Carissimo D’Agostino, avevo messo da parte la sua lettera di qualche giorno fa e in cuor mio speravo proprio che si fosse dimenticato di quelle sue terribili domande che, da quando le ho ricevute, mi frullano in mente come mosche impazzite: l’architetto più noto, quello meno noto … con tutti i loro complessi perché?

Le ho tentate tutte in questo pur breve lasso di tempo per non risponderle, magari facendo finta di non aver ricevuto la sua richiesta, ma con tutti i marchingegni di oggi lei sicuramente sapeva che avevo letto il suo messaggio con tutti i dettagli, ora, data, …

Che fare allora? Scriverle che non me la sentivo di rispondere? … peggio che mai … avrebbe sicuramente (e giustamente) messo in rete la mia risposta e avrei fatto comunque la figura del pirla … di quello che si caga sotto …

Poi, oggi [1], ricevo il suo sollecito … una specie di affettuoso ultimatum, … definitivo, … ineludibile …

Provo, quindi, a dare un seguito alle sue domande … difficilissime: …

“Qual è l’architetto noto, che apprezza e perché?

Qual è l’architetto non noto che apprezza e perché?”

Per rispondere alla prima scelgo la via breve, e anche la più banale e, tra i tanti nomi possibili, scelgo quello di Peter Zumthor, … l’ultimo Pritzker, … il falegname … che, a prescindere dalla sua recente incoronazione internazionale, ha dimostrato, e lo ha fatto concretamente, non a chiacchiere, che si può fare architettura di qualità pur non frequentando il rutilante circuito delle archistar della Formula Uno, … ma magari appartandosi in un prato dell’Eiffel e ragionando discretamente … pochi metri cubi … qualche tronco arrostito … e … un’idea … fulminante; … altrettanto aveva fatto, tempo fa, a Vals … una sorgente … qualche pietra; … bastano poche cose e neanche tanto cospicue per definire un grande … architetto … poche pennellate per un grande artista.

Più difficile rispondere alla seconda domanda …

che, d’altronde, ha, implicita, anche una sua crudele risposta:

se quell’architetto non lo conosce nessuno … ci sarà pure qualche ragione … magari, non ultima, … il fatto che sia una sega … e allora è meglio così … perché ce ne sono già troppe in giro …

Sarebbe, quindi, stato il caso di rispondere, come mi è altre volte capitato, per scantonare di fronte ad analoga domanda, tout court: Antonio Belvedere, … ma neanche questo è ormai più possibile … ché questa mia virtuale figura di architetto immaginario ideato, per puro accidente retorico, in occasione di una lontana Biennale veneziana, concretamente, esiste … e sarebbe quindi imbarazzante attribuirgli tutti quei valori che mi sarebbe piaciuto, la mia creatura possedesse davvero.

Dovrei quindi ripiegare su qualche architetto vero, magari un amico che non ha avuto fortuna, uno sfigato che ritengo “bravissimo” … una parola … mi toglierebbe comunque il saluto perché Lui … a prescindere … si sente il più paraculo del mondo intero e poi mi farei pure nemici tutti gli altri … che, naturalmente, non sono da meno …

Vede … caro D’Agostino … lei con quella semplice domanda … mi ha messo, davvero, nei guai …

Nota:
[1] mail del 25 giugno 2009 12.35

Prof,
non è per piaggeria ma l'inchiesta non può partire senza le sue risposte.
L'inchiesta coinvolge solo blogger/architetti.
Capisco le domande le sembrano semplici/stiche, a lei una risposta a t(u)ono.
Vorrei riflettere sul doppio equivoco italiano: archistar/edilizia e centro storico/periferia.

La prima inizia da queste semplici domande.
Per uscire fuori dall’opinionismo, vorrei mettere in sequenza le vostre riposte, al momento ne ho raccolto circa quaranta.
Una storia blog: complessa, variegata e non banale.
Per questo motivo non posso iniziare senza la sua risposta. Mancherebbe il pioniere.
Con stima (anche se i nostri punti di vista sembrerebbero distanti),
Salvatore D’Agostino

P.S.: La storia la conosco sono stato alunno di sua moglie nella bolgia reggina :-)

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8 commenti:

  1. Prima parte:
    Giorgio (Muratore),
    una piccola nota le do del tu perché è convezione dei blogger usare un tono confidenziale con gli avventori dei blog.
    Vorrei farti alcune domande, ma che sia chiaro non m’interessano le contrapposizioni ideologiche estenuanti che trascurano i problemi concreti.
    Tu hai assistito e partecipato (da critico) all’evoluzione architettonica degli ultimi quarant’anni.
    Una piccola nota statistica «dal 1956 al 2001 la superficie urbanizzata del nostro Paese è aumentata del 500%» (Dato tratto dal ‘Dossier sul consumo del suolo del WWF Italia’)
    È possibile che quest’ondata di cemento senza tregua (ad eccezione di una fase che va dagli anni 70-80) sia stata trascurata dalla critica?
    È possibile che si sia fatto finta di niente?
    Io credo che gli architetti e i critici più autorevoli siano da denunciare in toto per omissione di soccorso nei confronti del paesaggio italiano.
    Con la tua risposta si conclude questa inchiesta non so perché ma mi è venuto in mente un capitolo dell’ultimo libro di Franco Purini, La misura italiana dell’architettura (Laterza, 2008) dal titolo ‘Le dialettiche generazionali’. Per chiarezza ti cito i punti salienti (scusa la lunghezza):

    «Primo progetto culturale.
    Il primo progetto culturale riguarda gli architetti dai settanta agli ottant'anni e oltre. Si tratta di un gruppo di progettisti - a cui appartenevano anche Roberto Gabetti, Aldo Rossi e Gianugo Polesello - tra i quali Vittorio Gregotti, Gae Aulenti, Guido Canella, Glauco Gresleri, Enzo Zacchiroli, Aimaro Isola, Valeriano Pastor, Alberto Gatti, Pietro Barucci, Paolo Portoghesi, Renzo Piano, Luciano Semerani, Alessandro Anselmi, Salvatore Bisogni, Umberto Riva, Aurelio Cortesi, Guido Canali. Si tratta di achitetti le cui opere si pongono tutte sotto il segno di un rapporto autonomo e consapevole nei confronti dell'architettura moderna.
    […]
    Secondo progetto culturale.
    Il secondo progetto culturale è stato proposto e sviluppato dagli architetti la cui età va dai sessanta ai settantenni, la generazione di chi scrive, di Adolfo Natalini, Pierluigi Nicolin, Giangiacomo D'Ardia, Gianni Accasto, Daniele Vitale, Marco Peticca, Emilio Battisti, Sergio Grotti, Lucio Altarelli, Rosario Pavia, Giancarlo Carnevale, Dario Passi, Francesco Cellini, Paolo Melis, Francesco Venezia, Antonio Monestiroli, Ariella Zattera, Meri Angelini, Claudio D'Amato, Luigi Calcagnile, Pietro Derossi, Massimiliano Fuksas, Franco Zagari, Lucio Barbera, Umberto Cao, Laura Thermes, Paolo Martellotti, Massimo Carmassi, Culotta-Leone, Giovanni Rebecchini, Augusto Romano Burelli, Massimo Scolari, Danilo Guerri. In continuità con la generazione precedente, insieme alla quale hanno dato vita a un confronto costante, a volte polemico, gli architetti citati si sono misurati sostanzialmente con il problemi linguaggio, all’interno di quella nuova condizione che determinò la loro formazione, ovvero la scuola di massa. Una scuola che richiese parole d'ordine pensate come slogan a comprensione istantanea e a vocazione omologante.
    […]
    Terzo progetto culturale.
    Il terzo progetto culturale è quello formulato dagli architetti che hanno oltrepassato da poco i cinquant'anni. È la generazione di Pippo Ciorra, Carmen Andriani, Aldo Aymonino, Nicola di Battista, Pino Scaglione, Mirko Zardini, Italo Rota, Mosè Ricci, Cino Zucchi, Pietro Carlo Pellegrini, Carlo Terpolilli, Paolo Desideri, Michele Beccu, Mario Cucinella, Gianfranco Neri, Francesco Taormina, tanto per citare solo alcuni dei protagonisti di questa fascia d'età. Si deve a questa generazione, o almeno a una sezione molto consistente di essa, una scelta inconsueta e, per più di un verso, discutibile: la brusca e improvvisa rottura della continuità con quella precedente, e più in generale con le tematiche italiane.

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  2. Seconda parte:
    […]
    Quarto progetto culturale.
    Rifiutando l’identità italiana, prima ancora che la stessa idea d'architettura italiana, gli architetti tra i quaranta e i cinquant'anni, tra i quali Francesco Garofalo, Stefano Boeri, Efisio Pitzalis, Renato Partenope, Livio Sacchi, Gianna Parisse, Antonello Stella, Cherubino Gambardella, Nicola Marzot, Marco Casamonti, Paolo Zermani, Fabrizio Rossi Prodi, Luca Molinari, hanno fatto proprio, con lievi correzioni e pochissime, ma significative, eccezioni orientate a un'innovativa reinterpretazione dell'identità dell'architettura italiana, il progetto culturale dei loro immediati predecessori. La loro è stata la prima generazione che si è confrontata con la rivoluzione digitale, vivendola, però, più come l'ambito di un rinnovamento strumentale della disciplina che come l'occasione di una sperimentazione avanzata, relativa a nuove prospettive teoriche per la cultura di progetto.
    […]
    Quinto progetto culturale.
    Il progetto culturale dell'ultima generazione oggi attiva, quella che annovera architetti dai trenta ai quarant'anni, come Luca Galofaro, Maria Claudia Clemente, Gabriele Mastrigli, Vincenzo Corvino, Giovanni Multari e quelli dello studio Metrogramma, la cosiddetta generazione dell'Erasmus, si pone m competizione, si pone in competizione, ma sullo stesso terreno, con quello descritto nel precedente paragrafo. Ancora una volta il problema di ricucire lo strappo effettuato dalla seconda generazione non viene sentito e si continua a ritenere che nel migliore dei casi l'architettura italiana sia una buona anamorfosi locale di problematiche estranee e lontane.
    […]
    Finale.
    Solo ricostruendo una vera e operante continuità tra i cinque progetti culturali l’architettura italiana o, se si preferisce, l’architettura che si costruisce in Italia, potrà infatti ritrovare, ancora intatta, la sua capacità creativa».

    Ho preso Purini come paradigma di un modo di fare critica che sembra avulsa dalla storia reale e materica del nostro paesaggio, ma mi riferisco alla critica in italiana in generale.
    Una scuola critica che non può fare a meno di utilizzare la tassonomica semplificazione dei portatori sani d’idee architettoniche.
    Una scuola che non vede e non vuol vedere la vera architettura italiana (quella costruita) di questi ultimi quarant’anni.
    Tu fai bene a non pronunciare il nome dell’architetto non noto perché temi le ripercussioni degli amici esclusi ma ti confesso che non esiste un architetto non noto ma esistono una moltitudine di gente che non essendo nelle corde del critico 'IN' lavorano ostinatamente per creare qualche isola architettonica (o meno) felice.
    Capisco che, per il critico da divano del centro storico (e non mi riferisco a te parlo sempre in generale), sia difficile camminare in luoghi ameni.
    Come capisco che per te in questi anni è stato difficilissimo poter osservare quello che molti chiamano ‘sacco di Roma’ (con giunte di sinistra) poiché avevi un annoso problema con quella nefandezza che deturpa Roma: l’Ara Pacis.
    Non è un’accusa, per carità, è una semplice e spero errata osservazione.
    Poiché qualcosa è andato storto credo che occorra rivedere i sistemi e liberarsi dalla tassonomia come strumento critico.
    Sarà difficile poiché si cade e scade nella solita tragedia dello scontro generazionale, vedi citazione precedente.
    Mi devi credere, non voglio fare polemica, io mi pongo una sola domanda come ricostruire quest’Italia distrutta dagli ignavi Ego accademici/architetti manifesti?
    Un caro saluto,
    Salvatore D’Agostino

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  3. Grazie per la citazione, fotografia molto interessante degli architetti e del modo di vedere gli architetti.
    Sulla devastazione del territorio (mi permetto di intervenire prima della risposta di Muratore), il primo sommovimento interiore è certo di appoggio e compatimento per la morte del paesaggio e della città. Da un po' di tempo però, sospetto che ci sia una tara diffusa nella visione collettiva delle cose; ciò che appare brutto, incongruente, squallido è ciò che poi la vita non idealizzata fa concretamente e quotidianamente suo. Il tutt'i giorni si appropria della brutta edilizia, la digerisce e piega alla fisica della vita delle famiglie e delle masse pur non smettendo mai di rinnegarla.
    Faccio un esempio in parallelo con la rete: il sito myspace.com è probabilmente il meno funzionale, pesante, schizofrenico, graficamente viziato che ci sia online, eppure rimane fra i più (forse il più) usati in assoluto su internet: il grafico e l'architetto aborriscono, la vita mangia e cambia. Dobbiamo ricominciare a guardare il brutto per scoperchiarne le corde intime e vibranti sotto un'altra estetica?

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  4. Condivido il commento di DVDV: in fondo si riscopre una specie di "élan vital" anche nell'architettura più pessima, in cui gli ignari fruitori cercano di piegare questi obrobri in qualcosa di più vivibile a seconda delle loro possibilità.
    D'altronde non sono nemmeno il primo a considerare l'auto-recupero come uno dei fondamenti possibili di un nuovo modo di intendere l'edilizia e la costruzione di spazi autonomi, generati dalle necessità degli individui, piuttosto che dalle menti di qualche architetto/pianificatore...

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  5. ---> DVD,
    a giugno, Stefano Boeri, su abitare scrisse un articolo dal titolo ‘Ci siamo dimenticati dell’Italia’ invitava l’università a proporre dei corsi per leggere il paesaggio italiano.
    Condivido in parte l’analisi (aggiungerei altri poeti, scrittori e registri che sanno raccontare bene l’Italia) ma mi ha colpito il ‘ci siamo’ e soprattutto questo passaggio: «O forse, più probabilmente, il loro difetto era tutt’uno con la loro pigrizia intellettuale, con la scelta di preferire la fedeltà della descrizione al coraggio della visione, nel non capire che una geografia complessa come quella italiana non va solo scoperta, ma anche progettata. Perché se non li si esplora con tecniche analitiche sperimentali, e soprattutto se non li si investe con le proiezioni di scenari e prospettive inediti, i territori abbandonati dell’Italia non parlano, non reagiscono, restano muti e silenziosi sotto una coltre di stereotipi e di pregiudizi».
    Link: http://www.abitare.it/featured/ci-siamo-dimenticati-dellitalia/langswitch_lang/it/

    Io abito nel vuoto dell’Italia e ciò che vedo è l’incapacità delle città a essere territorio d’incontro culturale.
    Sarebbe un grave errore guardare l’Italia dimenticata investendoli con progetti e ‘proiezioni di scenari e prospettive inediti’. Ogni comune va rigenerato senza la cultura ‘estetica’ del cittadino. In questi luoghi il PIL, l’unico motore della politica e dell’imprenditoria, è un concetto inesistente poiché in questi luoghi consumiamo più che produrre.
    I piccoli centri da sempre guardano le grandi città perché non vogliono perdere il passo con la contemporaneità.
    T’invito a entrare nelle case per capire come si alimenta l’architettura da rivista di arredamento.
    Qui non c’è solo da guardare l’Italia dimenticata dagli stessi operatori culturali (la nota di Sergio Polano del 1992 per quest’inchiesta ricorda molto questo tema), qui c’è da rivedere e ricostruire le città principali dell’Italia.

    Ad esempio:

    Milano, da sempre innovatrice, oggi si sta prestando all’ultima deriva dell’architettura (brand) iconica. Un’architettura che da qualche tempo è stata messa profondamente in discussione.

    Roma logorata dalla contrapposizione snobistica degli architetti da ‘divano del centro storico’ si è dimenticata di guardarsi intorno.

    Napoli un crogiolo di umanità senza speranza che balla una strana danza macabra.

    Palermo è il centro della politica poiché alcuni uomini potenti hanno messo sotto ricatto l’uomo che ci governa. Vedi l’obolo ‘Ponte di Messina, un’opera atta a foraggiare il sistema corruttivo.

    Mi chiedo qual è l’Italia dimenticata?
    Condivido il tuo pensiero, quella brutta edilizia (visione estetizzante e poco concreta) accudisce molte delle nostre famiglie cioè una grande fetta di popolazione italiana.
    Reputo perfetto il tuo esempio 'myspace' poiché non possiamo pretendere che il nostro senso estetico s’imponga su tutto.
    Infine concordo con la tua chiosa: Dobbiamo ricominciare a guardare il brutto per scoperchiarne le corde intime e vibranti sotto un'altra estetica?

    P.S.: difficilmente risponderà Giorgio Muratore poiché la sua scrittura sospesa da ogni giudizio e complicità, non prevede l’interazione con i commentatori.

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  6. ---> Matteo,
    «Mai chiamarle “borgate” di fronte agli assessori, ricordarsi che sono “periferie”. Ti impongono anticamere moderate, sono affabili, si scusano: illustrano con legittimo orgoglio le realizzazioni raggiunte, mascherano le diffidenze, reclamizzano i risultati di integrazione. I poli di sviluppo, i parchi pubblici ricavati dai sequestri alla criminalità organizzata; gli abbattimenti degli ecomostri, i centri anziani, i teatri decentranti, le antiche fabbriche di birra o i vecchi pastifici trasformati in laboratori multifunzionali; case della musica, serre creative, archivi dell’immagine. Ti regalano il loro atlante (ora anche in rete), strumento del rapporto paritetico e bilaterale fra gli amministratori e i cittadini, con le sue legende, i toponimi, gli indicatori di qualità urbana e i piani attuativi. Ma i Municipi sono ritagliati a spicchio, dal centro, come per le fette di una torta: ogni Municipio comprende sia zone centrali che periferiche, nessuno è esclusivamente periferia; quindi, anche ai fini statistici, i dati delle borgate sono nebulizzati, shakerati, confusi nei dati generali del Municipio. Delle Borgate restano appunto i toponimi, scritti in giallo: Pietralata, Fidenze, Torre Angela, Finocchio».
    Questo è l’inizio del capitolo ‘Urbanistica’ del libro di Walter Siti ‘Il contagio’.
    Il curatore dei ‘meridiani’ dedicati a Pier Paolo Pasolini nonché scrittore i suoi romanzi non sono semplice letteratura perché lui vive le storie che racconta.
    La Roma di questo libro è la Roma delle borgate luogo in cui sé trasferito e fatto contagiare.
    Ecco uno scrittore che Stefano Boeri (vedi commento precedente) si è dimenticato perché ha una visione poco edulcorata o forse per ignoranza (che ignora).
    Forse occorre capire che in quelle aree vivono persone, gente che va ascoltata e non redenta solo attraverso la politica e l’architettura.
    Fai bene a richiamare gli osservatori ‘dell’auto-recupero’ io seguo con attenzione il lavoro di Eddy Cruz al confine tra gli Stati Uniti e il Messico.
    Servono nuovi codici e soprattutto non serve l’enfasi mediatica.
    Parafrasando il vecchio Guy Debord la ‘società non può essere spettacolo’.
    Saluti,
    Salvatore D’Agostino

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  7. Per la seconda domanda, se non si vuole fare il nome dell'architetto "sconosciuto", in questo caso se GM non può farlo, è sufficiente indicare la realizzazione di un "ignoto"... Sconosciuto infatti è colui che non si conosce ma la sua opera sì.

    pasquale cerullo

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  8. ---> Pasquale,
    resta il problema della ‘critica’ italiana impantanata nei propri giardini ‘culturali’.
    Possiamo dire che hanno la sindrome NIMBY sia in entrata che in uscita.
    Saluti,
    Salvatore D’Agostino

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