Salvatore D’Agostino:
- Qual è l’architetto noto che apprezzi e perché?
- Qual è l’architetto non noto che apprezzi e perché?
Qui l’articolo introduttivo
=Architettura= =Ingegneria= =Arte= di Matteo Seraceni1. L’architetto noto ancora in attività che apprezzo è sicuramente Renzo Piano. Piano è riuscito negli anni a creare attorno a se un gruppo di lavoro impeccabile: ogni realizzazione appare perentoria, senza sbavature, corretta sotto ogni punto di vista, dall’inserimento urbanistico al design degli interni; possiede una padronanza assoluta dei mezzi tecnologici che l’architettura offre e cura ogni progetto fin nel minimo dettaglioIo odio Renzo Piano. Penso sia lecito apprezzare e contemporaneamente odiare una persona (e proprio per questo ho scelto Renzo Piano). Ciò che colpisce nel repertorio del suo Building Workshop (studio di architettura risultava troppo plebeo) è l’assoluta eterogeneità dei progetti: sono diversi luoghi, forme, materiali. L’eclettismo stilistico ha come matrice di fondo una profonda attenzione per il dettaglio tecnico e per l’ambiente circostante: in tutti i casi non è la personalità dell’architetto a prevalere sull’ambiente, ma è questo che sembra inglobare e definire le opere. È lo stesso Piano a definire la sua posizione: “La maggior parte di loro [gli architetti “tradizionali”] vive nel mito della falsa creatività: sono dei sensitivi, ma non hanno nessun potere contrattuale nei confronti della società. Sono chiamati a soddisfare bisogni fasulli o marginali. […] Ma un architetto a cosa serve? Se ne può far benissimo a meno” [1] (non vado oltre nella citazione, perché Piano ha la straordinaria capacità di essere altamente soporifero nei suoi discorsi). Egli mette a disposizione un cospicuo patrimonio di cultura tecnologica con cui poter tradurre in tecnologie sempre più adeguate le richieste provenienti dalla società ma, facendo questo, deve mettere da parte il suo bagaglio culturale, la sua riconoscibilità in quanto “creatore di forme”. Per Piano ogni professionista deve essere un coordinatore, un general-manager più che un architetto vero e proprio. Non è un’affermazione stupida o una provocazione e penso dovrebbe far riflettere chi si occupa di architettura e pensa che possa bastare creatività e spirito di iniziativa per essere bravi professionisti. L’architetto “demiurgo” ha fallito su tutti i fronti (lo possiamo constatare nell’acceso dibattito contro le archistar e nelle realizzazioni fallimentari di molti volti noti) ed occorre quindi ripensare profondamente alla professione. Le soluzioni prospettate da Piano sono però opere “a se stanti”, che non inaugurano nuovi filoni di ricerca né portano avanti particolari problematiche architettoniche del passato. Valga per tutti il Beaubourg: questo incredibile ammasso geigheriano di tubi e lamiere, questa specie di astronave Borg piovuta dal cielo e radicatasi nel centro di Parigi, dialoga egregiamente con la piazza ed il contesto storico, è funzionale ed al tempo stesso rivoluzionaria. È una “machine à esposer”, un prodotto tecnologico figlio delle migliori utopie degli Archigram: proprio perché intrinsecamente tecnologico risulta così democratico, slegato da ogni discorso formale di appartenenza a qualsivoglia classe dominante. Ha inoltre il pregio di essere l’unica opera contemporanea (od almeno una delle poche) dopo la Tour Eiffell ad essere amata dai parigini (ovviamente, così come per la torre, dopo un iniziale periodo di proclami ed ingiurie). Il Centre Pompidou è certamente legato al filone di ricerca Hi-tech, ma è di così alta fattura che non è riproducibile altrove, è un punto fermo nella ricerca architettonica: come afferma lo stesso Piano, non è un costrutto tecnologico, una fabbrica seriale, ma “un gigantesco oggetto artigianale, fatto a mano, pezzo per pezzo” [2] (e la dimostrazione è data appunto del fatto che tante parti che compongono l’edificio sono pezzi fatti su misura). Tutti i progetti dell’architetto genovese sono altamente tecnologici, ma al tempo stesso “artigianali”: il suo sforzo di semplificazione e razionalizzazione dei problemi si traduce nell’estrema flessibilità ed “apertura” delle opere (secondo la formula del “work in progress”) e al tempo stesso nell’impiego di materiali eterogenei, leggeri e relativamente “poveri” (probabilmente questa sensibilità verso i materiali e l’artigianalità deriva direttamente dall’esperienza familiare). La qualità di queste architetture non risiede quindi nella ricerca formale/architettonica, ma nella grande capacità “ambientale” e spaziale che riescono a comunicare: il NEMO di Amsterdam non è solo uno spazio espositivo ma anche parte integrante della morfologia urbana, una collina artificiale da cui poter osservare lo skyline della città; il centro culturale Jean-Marie Tjibaou' a Noumèa si pone come spazio simbolico e archetipico all’interno di un vasto intervento architettonico. La grandezza ed il limite di Renzo Piano sta nel fatto che ogni opera non appare mai perfettibile e – valga per tutti l’esempio del Beaubourg – non può costituire un modello paradigmatico riproducibile altrove (soprattutto per i professionisti che non possono contare su studi di grandi dimensioni); questa architettura esibisce un controllo assoluto dei mezzi e delle tecniche e purtroppo proprio per questo insegna poco o niente, non fornisce idee o spunti progettuali. Ogni progetto è un fatto compiuto a se stante che non delinea via d’uscita possibili all’empasse in cui si trova oggi l’architettura. 2. Come architetto non noto avrei voluto scegliere me stesso: non mi conosce nessuno ed ho avuto pochissime commissioni; ma a me piace quello che faccio e credo molto nelle mie idee: a volte credo addirittura che i miei progetti siano belli. Poi mi sono ricordato di non essere un architetto… La domanda chiedeva qual è l’architetto non noto che apprezzo. Bene, l’architetto non noto che apprezzo è l’architetto Le Corbusier. A questo punto sicuramente penserete che sono completamente uscito di testa (e forse è così: sapete, lo stress matrimoniale può portare ad alterazioni permanenti nell’organizzazione sinaptica del proprio cervello). Non è una provocazione: ho voluto sottolineare la dizione “architetto” perché, parlando con colleghi ed amici, mi sono accorto che tanti scherniscono la sua opera senza essere mai andati di persona a visitarne una. Quello che permane nella coscienza comune è la macchietta descritta da Tom Wolfe in “Maledetti architetti”: l’intellettuale egocentrico con gli occhialini tondi, pontificatore, assolutista ed insopportabile. La recente vicenda dei Five Architects e del dibattito fra “bianchi” e “grigi” non ha fatto altro che acuire questa immagine. Morto l’uomo rimangono però le opere e penso che a queste unicamente dovremmo guardare, senza interporre nei nostri giudizi lo schermo deformante della biografia e dei proclami di chi le ha costruite (anche se è stato lo stesso Le Corbusier ad inaugurare la figura dell’ ”architetto demiurgo”, dello scrittore propagandista): il contributo più significativo da lui apportato all’architettura non è negli scritti, nei proclami, nei disegni, ma nella straordinaria inventiva delle sue opere. Anch’io devo ammettere di aver fatto parte per diverso tempo dei suoi detrattori, poi la visita al padiglione dell’Esprit-Nouveau ricostruito a Bologna ha rimesso in discussione le mie convinzioni, fra cui quella di considerare insana la passione per Le Corbusier del mio professore di storia dell’architettura e fautore di questa installazione (Giuliano Gresleri). Non so se avete presente il padiglione: è un quadrato con due ali semicircolari in cui è stato ritagliato un cerchio per lasciarvi crescere un albero in mezzo. Le foto e i disegni delle piante e dei prospetti delineano uno dei tanti prototipi razionalisti di abitazione minima. Visitandolo di persona invece ci si rende conto di come la qualità spaziale del progetto emerga in maniera preponderante, sia nei confronti della realizzazione formale che di quella eminentemente metaprogettuale. Lo studio sugli “standard” portato avanti dall’architetto svizzero, che risponde a motivi di efficienza, ordine e bellezza propri della realtà industriale riesce a coniugarsi con realizzazione architettonica che non ha niente di asettico e che si presta alle più svariate declinazioni. In un’ottica tradizionalista, parrebbe che l’alloggio minimo derivato dallo studio dei tipi edilizi, come quello proposto da Klein, possa declinarsi in maniera più conforme al benessere abitativo; ci si accorge invece che tali cellule non fanno altro che ridurre e sminuire i valori architettonici e proporre composizioni sterili. Il prototipo della maison Citrohan invece riesce a declinarsi in tanti modi diversi, dal padiglione dell’ Esprit Nouveau all’ Unitè d’habitation, proprio perché al di sotto dello studio intellettuale e degli interessi artistici si cela una grande mano architettonica. Il progetto dell’alloggio, partendo dalla standardizzazione industriale, viene sviluppato da un’unica personalità che avoca a sé l’intero ciclo produttivo e ne controlla la forma con un fine che trascende il dato funzionale e riconduce ogni cosa all’ambito della realizzazione artistica. Visitando villa Savoye ci si accorge che la promenade architecturale non è semplicemente un espediente architettonico, ma un’esperienza unica ed irripetibile (paragonabile in tutto e per tutto alle realizzazioni di un’altra mano felice e completamente estranee al mondo di Le Corbusier, quella di Gaudì): non a caso la rampa costituisce un elemento plastico costantemente visibile sia per chi guarda all’interno sia per chi guarda dalla terrazza-giardino del primo piano. Il movimento moderno ha dato primaria importanza alla connotazione dello spazio architettonico, ma il dibattito attuale sembra aver perso di vista questa istanza, soffermandosi unicamente sulle componenti stilistico-formali dell’architettura. Come detto sopra, le architetture di Le Corbusier andrebbero rivalutate sotto tutti gli aspetti, al fine di coglierne la qualità spaziale e vedere come la sua architettura non si possa ridurre solo a pareti bianche e pilotis: allo stesso modo la poca attenzione dedicata ad esempio dai Five Architects alle opere dell’ultimo periodo del maestro dimostrano come il fraintendimento di fondo sia consolidato. Il salto compiuto all’epoca del passaggio dalla poetica razionalista del purismo all’informale neo-espressionismo di Ronchamp non può venire spiegato solo su base estetica e senza prendere in considerazione l’evoluzione spaziale delle opere precedenti: fin dai tempi dei sui viaggi in Oriente Le Corbusier si accorge che le città in ogni tempo e luogo sono caratterizzate da una “unità” sorprendente resa manifesta da standards precisi e ripetibili. La storia non è dunque un grande calderone da cui estrarre a piacimento gli elementi che più sono confacenti alle varie architetture. A questo proposito Zevi afferma che: “Le Corbusier studiò la storia in profondità, non nei falsi manuali e precetti Beaux-Arts, ma viaggiando per anni in Oriente, Grecia e Italia, e scoprendo cosa c'era di nuovo, di moderno nel passato. Il linguaggio dei «volumi puri sotto la luce» deriva dal cubismo quanto dall'eredità ellenica. Quando Corbu rigetta questa poetica, a Ronchamp, la conoscenza dei castelli medievali francesi lo aiuta a trovare nuove espressioni. Chiunque l'abbia conosciuto, e abbia passeggiato con lui lungo le calli di Venezia, non dimenticherà mai la sua straordinaria sensibilità per il tardo-antico, per il carattere narrativo della città lagunare. […] Il disprezzo per il passato è stato un atteggiamento alla moda dell'avanguardia, ma i maestri si sono sempre nutriti di storia.” [3] Solo alla luce di un costante raffronto con la storia dell’architettura è possibile capire le varie declinazioni dell’opera di Le Corbusier e quindi la sua inesauribile capacità creativa. 3. Ho scelto volutamente due architetti che si sono rapportati costantemente con la tecnologia propria del loro tempo: Renzo Piano considera il discorso tecnologico da un punto di vista “etico”, come possibilità di soddisfare in maniera adeguata i bisogni della società di volta in volta sempre diversi; per Le Corbusier invece la tecnologia assume una valenza “estetica”, connaturata al concetto stesso di “standard”. Credo che oggi non sia più possibile prescindere dall’influenza dello sviluppo tecnologico nella pratica architettonica. Ma, come già ho affermato a proposito dei lavori di Piano, la tecnologia di per sé è sterile, senza una mano che sappia dirigerla in maniera adeguata (soprattutto all’interno di un panorama attuale così disomogeneo). Per questo motivo sono convinto che la rilettura dello spazio come elemento fondante dell’architettura sia l’unico valore da cui poter ripartire per fondare un dibattito architettonico serio; occorre deviare l’attenzione dal sensazionalismo estetico alla qualità della “vita” all’interno delle stesse architetture. Note:
[1] da un’intervista a “Il sole 24 ore”
[2] da M. Dini “Renzo Piano, progetti e architetture 1964-1983”, Electa. Milano
[3] dal discorso “Architecture versus Historic Criticism”, tenuto al RIBA il 6 dicembre 1983 (difficilmente pioverà all’interno dei suoi edifici; ogni riferimento è puramente casuale).
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