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12 agosto 2013

The city and the IT revolution - By Antonino Saggio


By Antonino Saggio

We're talking about an IT revolution. So, it's hardly surprising if the differences between a "second wave" city - as Alvin Toffler would define it - and a "third wave" or "information" city are very great. Indeed, the city is the biggest and most complex artifact created by humanity, as a system for accelerating its productive capacity. Consequently, the transition from an urban structure based on the manufacturing industry to one based on the organization, diffusion, and formalization of information brings with it profound changes.

Internet

In its formative logic, the industrial city incorporated the logic of Taylor's organization of work. This translated into choices - both organizational and physical.
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24 luglio 2013

0025 [CITTÀ] Antonino Saggio | La città e la rivoluzione informatica

di Salvatore D'Agostino

Per il geografo Franco Farinelli una città è costituita non da cose separate l’una dall'altra, ma da “cose che stanno l'una dentro l'altra”. Una città concepita per separazioni di funzioni oggi appare asfittica, incapace di dialogare con le pulsioni sociali innescate dall'invenzione del web. Non tener conto di questi impulsi, secondo Antonino Saggio, significa non avere gli strumenti necessari per progettare la città contemporanea.

Sul rapporto città e rivoluzione informatica, con il consenso dell'autore Antonino Saggio, pubblico un articolo scritto per la rivista italianieuropei, n.8/2012.*

Senza parole: tautologica immagine di copertina della rivista.






La città e la rivoluzione informatica
di Antonino Saggio

Parliamo di rivoluzione informatica. Non vi è quindi da stupirsi se le differenze tra una città della “seconda ondata” – come direbbe Alvin Toffl e una della “terza ondata” o dell’“informazione” sono molto grandi. Infatti, la città è la più grande e complessa forma di artefatto creato dall'umanità quale sistema di accelerazione delle proprie capacità produttive. Di conseguenza, il passaggio da una struttura urbana basata sull'industria manifatturiera a una basata sull'organizzazione, diffusione e formalizzazione dell’informazione comporta differenze sostanziali.

RETE


La città industriale incorporava nella propria logica formativa quella dell’organizzazione tayloristica del lavoro. Una logica che si traduceva in scelte dal punto di vista sia organizzativo che fisico.

Lo zoning, come noto, è il principio urbanistico attraverso il quale lo spazio veniva concepito, organizzato, regolato e progettato. Ogni zona della città industriale o “moderna” (come la chiamavano gli architetti dei congressi internazionali di architettura moderna) era organizzata attraverso specifici standard, densità e tipi edilizi e, soprattutto, attraverso una specifica funzione: ora residenziale, ora industriale, ora terziaria o direzionale. Ogni zona veniva messa “in serie” – come l’anello di una catena – con un’altra funzionalmente distinta, in maniera da ottimizzare la produttività generale. Se la casa è una macchina per abitare, come diceva Le Corbusier, la città è una macchina per produrre!

Ma, se ora ci domandassimo se nella civiltà dell’informazione sia ancora la catena di montaggio il modello della produzione, risponderemmo con facilità che sono oggi subentrati alla catena di montaggio la rete come strumento principe della produzione e all'automobile il computer come oggetto catalizzante. Ecco allora che da questi assunti, come fossero due molecole di DNA, tutto cambia. Se noi sostituiamo alla catena di montaggio la rete, scopriamo che i processi produttivi non sono più lineari, ma, come è del tutto ovvio, interconnessi, interrelati e interattivi, coerentemente con i modelli informatici che ne sono alla base. Anche il tempo cambia. Al tempo ciclico ruotante con gli stessi ingranaggi delle ruote dentate (ora produttivo, ora ludico, ora di riposo) la città dell’informazione tende a sostituire un intreccio che sovrappone i tempi e rende tutto disponibile, sempre e ovunque. Possiamo lavorare in ogni momento, perché questo ci permettono i nostri cordoni ombelicali informatici, possiamo al contempo lavorare e trascorrere il tempo libero, produrre e consumare e, tra non molto, potremo anche dormire e apprendere insieme. Se l’auto era lo strumento per spostarsi nelle diverse zone, il computer ci permette di essere quasi ubiqui. Non solo lavorare ovunque, ma anche trovarci ovunque ci interessi essere. Spazio e tempo si riconfigurano completamente nel nuovo sistema produttivo.


Il modello stesso di città che ne scaturisce è diverso. Se l’architettura del passato voleva essere essa stessa costruzione regolata di un tempo meccanicamente ripetitivo, la città di oggi, più che costruire, ha la tendenza ad annullare il tempo attraverso il battito del bit che ricrea continuamente informazioni e immagini sullo schermo. 

Il tempo della città contemporanea somiglia sempre più a quello che viviamo su uno schermo e sembra esistere solo nell'istantaneità. A una forma mentis lineare (prima e dopo, causa ed effetto, if and then), legata alla produzione seriale e meccanizzata, si sostituisce oggi quella della simultaneità dei processi, della ramificazione dei cicli, della compresenza delle alternative; insomma, vince il principio dell’ipotesi, del “what if”, ovvero del “che cosa succederà se modifico questo parametro o questa variabile?”. E alle linee parallele della catena di montaggio si sostituisce il triangolo ramificato della rete – che è certo internet, ma anche moltissimo altro: una rete che diffonde, interrela, interconnette e rende globale e locale lo sviluppo dei processi.

D'altronde, la spinta del sistema produttivo non è più l’uniformità e omogeneità dell’esito finale e dello standard, ma esattamente l’inverso: la personalizzazione del prodotto, sulla base di un’attivazione, ogni volta diversa, di alcune connessioni della rete informativa e produttiva.

MIXITÉ

Tutti questi fattori si traducono, dal punto di vista fisico e nel contesto della città dell’informazione, nella perdita di centralità delle idee di zoning e di omogeneità funzionale, perché la città dell’informazione tende a riaggregare, combinare, sovrapporre e intrecciare le funzioni. Uno degli aspetti fondamentali di questo cambiamento è l’affermarsi del fenomeno della mixité, per cui le parti di città, e con esse i progetti, invece di aderire a una sola funzione – la zona residenziale, la zona terziaria, la fabbrica, la scuola – come nel vecchio zoning, tendono a essere ogni volta una combinazione, un mix appunto, delle diverse attività.

I progetti mirano sempre di più ad aderire a grandi nebulose di usi diversi che, prendendo a prestito la terminologia inglese, che permette l’idea dinamica dell’espansione, possiamo chiamare dell’inhabiting (la sfera del risiedere), dell’exchanging (la sfera del commercio), del creating (la sfera dell’attività produttiva), dell’infrastracturing (la sfera delle infrastrutture) e del rebuilding nature (la sfera della nuova naturalità). Nella città dell’informazione ogni progetto presenta tendenzialmente una combinazione di questi diversi usi sia alla grande scala che alla scala dell’edificio. Basti guardare al grado di mixité che hanno oggi le stazioni o gli aeroporti, ma anche i musei o i centri commerciali o i campus universitari o gli stadi (lo stadio monofunzionale è un residuo del passato e rappresenta una perdita economica: una struttura per funzionare oggi deve servire a tanti scopi diversi).

D'altronde, il multitasking non è caratteristica saliente dei nostri pc? La città di oggi tende a somigliare ai nostri computer e a operare con le loro modalità esattamente come la città dell’industria non solo era fatta per l’automobile, ma tendenzialmente era anche basata sugli stessi processi produttivi (la catena di montaggio), sulla stessa idea di standard (la Ford nera o la Seicento per tutti!), sugli stessi principi logici e, nei casi più estremi, sugli stessi principi formali (si pensi a quanto ideato dalle avanguardie artistiche di futurismo, costruttivismo, neoplasticismo, purismo).


Ma la chiave della mixité non è solo la pura e semplice compresenza multitasking delle funzioni, quanto la capacità dell’insieme di avere la forza di una “comunicazione narrativa”, affinché l’esito sia dotato di senso, di immagine e di storia e si possa inserire nei nuovi parametri produttivi e comunicativi della civiltà dell’informazione: si tratta di una driving force ed è la caratterizzazione trainante di un progetto, tanto alla scala di un singolo oggetto di design quanto di una parte di città. La driving force deve sia essere radicata in profonde ragioni sostanziali, contestuali ed economiche che proporsi con coraggio nuove ipotesi.


In un caso la mixité si struttura attorno alla driving force di un campus per lo studio del territorio, in un altro in nuovi centri di produzione cinematografica, in un altro sviluppa la valorizzazione ambientale o dei percorsi storici, in un altro ancora affronta il tema del cibo o dell’automobile. agorà, nuovi forum pubblici in cui la “narrazione” del primato meccanico si traduce in mille declinazioni. Alcune di queste opere, come quella della Mercedes Benz a Stoccarda, sono anche capolavori dell’architettura di oggi, ma questo è un altro discorso. Quando il sistema funziona, la mano pubblica orienta i principi generali e negozia i massimi vantaggi per la collettività; il privato realizza, gestisce, dà occupazione e trae reddito. In Germania la grande cultura dell’automobile ha generato nuovi grandi progetti, che non sono affatto musei della Mercedes, dell’Audi, della Porsche o della BMW, ma vere e proprie agorà, nuovi forum pubblici in cui la “narrazione” del primato meccanico si traduce in mille declinazioni. Alcune di queste opere, come quella della Mercedes Benz a Stoccarda, sono anche capolavori dell’architettura di oggi, ma questo è un altro discorso. Quando il sistema funziona, la mano pubblica orienta i principi generali e negozia i massimi vantaggi per la collettività; il privato realizza, gestisce, dà occupazione e trae reddito.

Se volessimo sintetizzare alcune differenze tra città dell’informazione e città dell’industria, diremmo allora: reti contro catena di montaggio, mixité contro zoning, computer contro macchina e narrazione contro monofunzionalità. Questi cambiamenti comportano ulteriori e rilevanti conseguenze, alcune delle quali indichiamo qui di seguito.


BROWN AREAS E OLTRE

Il più macroscopico effetto riguarda la dismissione di enormi aree – le cosiddette brown areas – del vecchio modello della produzione industriale.

Che cosa fare, come dare a queste aree un’indicazione che sia propulsiva e coerente con l’idea di città dell’informazione è una sfida grande e interessante. Solo chi ha studiato come il mondo è cambiato può formulare ipotesi con possibilità di successo. Vi sono molti casi eclatanti di nuove possibilità legate alla dismissione delle ex aree industriali. Il più grandioso è forse rappresentato dalla città di Seul, la capitale della Corea del Sud, che ha tolto per molti chilometri l’autostrada che circondava il centro, ha fatto riemergere un canale interrato e ha creato un parco tematico sul fiume ritrovato per tutta la città. Immensi capitali si sono rivitalizzati e la città attrae sempre più lavoratori qualificati dell’informazione.

Un altro esempio molto importante è, naturalmente, la High Line a New York. Anche in questo caso un’infrastruttura industriale dismessa è stata rivitalizzata grazie all'azione dei cittadini e oggi genera ingenti aumenti di occupazione, oltre che di valore immobiliare. Alla scala degli edifici, i progetti sono numerosissimi e, per fortuna, riguardano anche l’Italia (si pensi al Lingotto di Torino), anche se il capostipite è il Museo Guggenheim a Bilbao, il quale è stato appunto creato in un’area industriale dismessa che è divenuta oggi un luogo di pellegrinaggio culturale per milioni di cittadini. Invece, per quanto riguarda gli interventi in intere parti di città, il primo esempio su larga scala in Europa è Potsdamer Platz a Berlino.

La presenza delle aree dismesse indica, tra l’altro, che invece di prefigurare una espansione infinita della città forse vale la pena infittire e intessere nuove relazioni operando all'interno. Il sottoutilizzo dei suoli e delle aree abbandonate dentro la città e il parallelo spreco di terreno agricolo all'esterno sono prassi che si continuano a perseguire per inerzia.

All'idea di far-west, cioè della conquista infinita di un territorio dove corrono inesorabili i binari paralleli della ferrovia o dell’autostrada, la città dell’informazione deve sostituire quella dell’in-between, cioè dell’operare “tra” e “nelle” cose.

Infine, qualcosa sui processi decisionali. La città razionale, industriale, meccanica e modernista si basava su un processo decisionale dall'alto verso il basso. Una ristretta élite stabiliva le linee ideologiche del nuovo approccio urbanistico (e questo, nel campo dell’architettura, avveniva principalmente nei Congressi internazionali di architettura moderna). Stabiliti i principi, seguivano le tecniche e le regole (ad esempio, la Carta d’Atene fu il documento cardine della città funzionalista e industriale). Ma la città dell’informazione può “anche” puntare alla presenza di un approccio che si muova al contrario rispetto a una ideologia imposta dall'alto, cioè dal basso, aggregando forze, ipotesi e potenzialità, in una modalità a rete e partecipativa.

È opportuno sottolineare che quando si studiano le città di maggior successo, si vedono in atto scelte strategiche e grandi indicazioni di direzione e di disegno, ma sono appunto grandi principi-quadro e non la descrizione di una situazione del tutto ipotetica che probabilmente non si realizzerà mai. Planning by doing, d'altronde, non vuol dire fare quello che capita, ma stabilire i principi e le direzioni cardine dello sviluppo e valutare le soluzioni caso per caso, non dogmaticamente, all'interno della direzione intrapresa.

Sono, questi, modi di lavorare in atto ormai da decenni nei paesi nordici e che si sono sviluppati negli ultimi anni anche con una pratica grass root (e ancora una volta ne è un esempio la High Line a New York). In una società in cui le nuove generazioni si aggregano via Facebook è possibile pensare a questi processi dal basso verso l’alto, catalizzati e sviluppati dalla rete, anche nel caso dell’architettura e della città.

INFITTIRE, INTESSERE E RICUCIRE I VUOTI URBANI

Abbiamo sin qui individuato alcune caratteristiche e differenze tra la città industriale e quella dell’informazione, ma come possiamo fare per operare concretamente? Ebbene, la risposta è tautologica: sostituendo alla catena la rete, cioè sostituendo a una maniera lineare e assemblatoria di operare una maniera olistica o, se si vuole, sistemica.

Come sappiamo, l’idea di crescita infinita legata al modello industriale comporta un progressivo depauperamento del pianeta. La città non può crescere all'infinito, non può produrre costantemente beni che poi diventano scarti. Il processo, in una parola, non può essere “input-output” ma deve essere “input-output-input”.

Le sfide della città dell’informazione risiedono, innanzitutto, nel suo avvicinamento alla scienza e alla tecnologia contemporanee. Nonostante la crisi economica degli ultimi anni, l’accelerazione delle scoperte scientifiche nel campo dei nuovi materiali, sempre più interattivi, intelligenti, depuranti ecc., o delle tecnologie delle componenti energetiche sia attive (cioè che catturano con apparati fisici energia e la trasformano) che passive (cioè che studiano le conformazioni più adatte della città e degli edifici) è impetuosa. Intere città si riconfigurano su questi principi e si muovono su queste linee.

La città di Freiburg in Germania, vincitrice di numerosi premi, dovrebbe essere meta ricorrente dei nostri amministratori. Tuttavia, anche in Italia alcune cose si muovono: basti pensare, ad esempio, alle esperienze della città di Pisa. Insomma, la scienza contemporanea deve entrare in misura preponderante in qualunque idea di città della rivoluzione informatica.

Non bisogna necessariamente cambiare tutto d’un colpo, ma mettere a sistema le situazioni. [...] Guardiamo ogni tanto all'estero, a quello che succede in tante città, da Rotterdam a Freiburg, da Lione a Copenhagen, e vediamo come idee sistemiche che legano una nuova comprensione della città dell’informazione e dell’informatica attraggono finanziamenti europei, convogliano risposte e, soprattutto, a loro volta incentivano e sviluppano la produzione.

Perché, come si diceva, la città è il più grande artefatto creato dall'umanità quale sistema di accelerazione delle proprie capacità produttive e oggi saperla capire e progettare determina valore.



24 luglio 2013
Intersezioni ---> CITTA'
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Note:
*Nell'approfondimento ‘Lo sviluppo delle città’ si possono leggere gli scritti di Roberto Della Seta, Franco Purini, Paolo Desideri, Paolo Urbani, Livio Sacchi, Alessio D’Auria, Margherita Petranzan, Paolo Marconi, Anna Lazzarini, Chiara Sebastiani, Riccardo Conti, Giovanni Caudo, Stefano Stanghellini e Vittorio Gregotti. Di quest’ultimo riporto un brano, poiché il suo dolce incanto verso una città ‘disegnata’, da barbaro mi ha commosso: 
“Certamente, nonostante tutti parlino di accelerazione nei processi di mutamento, il tempo di questa fase sembra ancora disperatamente breve per costituirsi come solido terreno di fondazione di nuove interpretazioni critiche della realtà capaci di produrre le basi di nuovi modi di essere e di nuove possibilità delle pratiche artistiche, dotate di senso della necessita. Pur entusiasmandoci sovente per i nuovi mezzi, siamo lontani dall'aver maturato non solamente processi di mitizzazione tipici delle incertezze dei barbari nei confronti del nuovo, ma persino distanze critiche capaci di proporre nuove verità e possibilità di costituzione di processi civili migliori. E in questa contesto che le difficoltà delle arti contemporanee diventano pienamente evidenti e si spiegano, anche per l'architettura, le predilezioni per la provvisorietà e le calligrafie mutevoli come valori, il ritiro da ogni dialogo con il disegno della città e della sua storia e la proposta dell'esibizione competitiva contro l'uso.  Contro ogni tentativo di costruire un disegno di paesaggio come bene comune.”
Il numero è acquistabile su iTunes, amazon o richiedere le copie attraverso mail


17 settembre 2010

...a proposito di Adriano Olivetti, Biennale di architettura e Le Corbusier...

di Salvatore D'Agostino

...Adriano Olivetti, 
Da Emanuele Piccardo
06 settembre 2010 12:04
oggetto Adriano Olivetti

Ciao Salvatore,
il premio che l'Asolo Art Film Festival ha dato al film "Lettera22" dimostra quanto sia importante diffondere il pensiero e le azioni di Adriano Olivetti che ha sempre posto al centro del suo agire l'uomo e la comunità. 
Egli ha teorizzato e realizzato in parte, un nuovo modello di società attraverso l'architettura. Ha dimostrato che l'architettura se viene usata bene consente all'essere umano di migliorare le proprie condizioni di vita.
Un esempio per tutti gli architetti che oggi mettono al centro dei loro interessi unicamente il profitto e l'egoismo.

emanuele
case per famiglie numerose di Figini&Pollini

...Biennale di architettura,
Da Salvatore Gozzo
31 agosto 2010 12:15
oggetto Cartoline da Venezia

Salvatore,
due cartoline da Venezia: una di mente, l'altra di cuore.
Saluti 


 e Le Corbusier... 
Da Martino Di Silvestro
03 dicembre 2009 10:56
oggetto Le Corbusier

Ciao [...]
Ti mando queste foto, niente di che, ma rappresentative.
È la strada dell'abitazione di Le Corbusier, la maison blanche, anzi dei genitori di Le Corbusier a La chaux de Fonds.
Passava da lì, forse ancora non aveva gli occhialoni... [...]

...e poi in quel boschetto alle spalle della maison ho trovato, irrazionalmente, questa scultura lignea vivente, perbacco!


17 settembre 2010
Intersezioni ---> ...a proposito di...
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28 settembre 2009

0056 [OLTRE IL SENSO DEL LUOGO] =Architettura= =Ingegneria= =Arte= di Matteo Seraceni

Salvatore D’Agostino:
  • Qual è l’architetto noto che apprezzi e perché?
  • Qual è l’architetto non noto che apprezzi e perché?
Qui l’articolo introduttivo


=Architettura= =Ingegneria= =Arte= di Matteo Seraceni


1. L’architetto noto ancora in attività che apprezzo è sicuramente Renzo Piano.

Piano è riuscito negli anni a creare attorno a se un gruppo di lavoro impeccabile: ogni realizzazione appare perentoria, senza sbavature, corretta sotto ogni punto di vista, dall’inserimento urbanistico al design degli interni; possiede una padronanza assoluta dei mezzi tecnologici che l’architettura offre e cura ogni progetto fin nel minimo dettaglio

Io odio Renzo Piano.

Penso sia lecito apprezzare e contemporaneamente odiare una persona (e proprio per questo ho scelto Renzo Piano).
Ciò che colpisce nel repertorio del suo Building Workshop (studio di architettura risultava troppo plebeo) è l’assoluta eterogeneità dei progetti: sono diversi luoghi, forme, materiali. L’eclettismo stilistico ha come matrice di fondo una profonda attenzione per il dettaglio tecnico e per l’ambiente circostante: in tutti i casi non è la personalità dell’architetto a prevalere sull’ambiente, ma è questo che sembra inglobare e definire le opere.

È lo stesso Piano a definire la sua posizione: “La maggior parte di loro [gli architetti “tradizionali”] vive nel mito della falsa creatività: sono dei sensitivi, ma non hanno nessun potere contrattuale nei confronti della società. Sono chiamati a soddisfare bisogni fasulli o marginali. […] Ma un architetto a cosa serve? Se ne può far benissimo a meno” [1] (non vado oltre nella citazione, perché Piano ha la straordinaria capacità di essere altamente soporifero nei suoi discorsi). Egli mette a disposizione un cospicuo patrimonio di cultura tecnologica con cui poter tradurre in tecnologie sempre più adeguate le richieste provenienti dalla società ma, facendo questo, deve mettere da parte il suo bagaglio culturale, la sua riconoscibilità in quanto “creatore di forme”. Per Piano ogni professionista deve essere un coordinatore, un general-manager più che un architetto vero e proprio.
Non è un’affermazione stupida o una provocazione e penso dovrebbe far riflettere chi si occupa di architettura e pensa che possa bastare creatività e spirito di iniziativa per essere bravi professionisti. L’architetto “demiurgo” ha fallito su tutti i fronti (lo possiamo constatare nell’acceso dibattito contro le archistar e nelle realizzazioni fallimentari di molti volti noti) ed occorre quindi ripensare profondamente alla professione.
Le soluzioni prospettate da Piano sono però opere “a se stanti”, che non inaugurano nuovi filoni di ricerca né portano avanti particolari problematiche architettoniche del passato.
Valga per tutti il Beaubourg: questo incredibile ammasso geigheriano di tubi e lamiere, questa specie di astronave Borg piovuta dal cielo e radicatasi nel centro di Parigi, dialoga egregiamente con la piazza ed il contesto storico, è funzionale ed al tempo stesso rivoluzionaria. È una “machine à esposer”, un prodotto tecnologico figlio delle migliori utopie degli Archigram: proprio perché intrinsecamente tecnologico risulta così democratico, slegato da ogni discorso formale di appartenenza a qualsivoglia classe dominante.
Ha inoltre il pregio di essere l’unica opera contemporanea (od almeno una delle poche) dopo la Tour Eiffell ad essere amata dai parigini (ovviamente, così come per la torre, dopo un iniziale periodo di proclami ed ingiurie).

Il Centre Pompidou è certamente legato al filone di ricerca Hi-tech, ma è di così alta fattura che non è riproducibile altrove, è un punto fermo nella ricerca architettonica: come afferma lo stesso Piano, non è un costrutto tecnologico, una fabbrica seriale, ma “un gigantesco oggetto artigianale, fatto a mano, pezzo per pezzo” [2] (e la dimostrazione è data appunto del fatto che tante parti che compongono l’edificio sono pezzi fatti su misura).
Tutti i progetti dell’architetto genovese sono altamente tecnologici, ma al tempo stesso “artigianali”: il suo sforzo di semplificazione e razionalizzazione dei problemi si traduce nell’estrema flessibilità ed “apertura” delle opere (secondo la formula del “work in progress”) e al tempo stesso nell’impiego di materiali eterogenei, leggeri e relativamente “poveri” (probabilmente questa sensibilità verso i materiali e l’artigianalità deriva direttamente dall’esperienza familiare).
La qualità di queste architetture non risiede quindi nella ricerca formale/architettonica, ma nella grande capacità “ambientale” e spaziale che riescono a comunicare: il NEMO di Amsterdam non è solo uno spazio espositivo ma anche parte integrante della morfologia urbana, una collina artificiale da cui poter osservare lo skyline della città; il centro culturale Jean-Marie Tjibaou' a Noumèa si pone come spazio simbolico e archetipico all’interno di un vasto intervento architettonico.

La grandezza ed il limite di Renzo Piano sta nel fatto che ogni opera non appare mai perfettibile e – valga per tutti l’esempio del Beaubourg – non può costituire un modello paradigmatico riproducibile altrove (soprattutto per i professionisti che non possono contare su studi di grandi dimensioni); questa architettura esibisce un controllo assoluto dei mezzi e delle tecniche e purtroppo proprio per questo insegna poco o niente, non fornisce idee o spunti progettuali.
Ogni progetto è un fatto compiuto a se stante che non delinea via d’uscita possibili all’empasse in cui si trova oggi l’architettura.


2. Come architetto non noto avrei voluto scegliere me stesso: non mi conosce nessuno ed ho avuto pochissime commissioni; ma a me piace quello che faccio e credo molto nelle mie idee: a volte credo addirittura che i miei progetti siano belli. Poi mi sono ricordato di non essere un architetto…
La domanda chiedeva qual è l’architetto non noto che apprezzo. Bene, l’architetto non noto che apprezzo è l’architetto Le Corbusier.
A questo punto sicuramente penserete che sono completamente uscito di testa (e forse è così: sapete, lo stress matrimoniale può portare ad alterazioni permanenti nell’organizzazione sinaptica del proprio cervello).
Non è una provocazione: ho voluto sottolineare la dizione “architetto” perché, parlando con colleghi ed amici, mi sono accorto che tanti scherniscono la sua opera senza essere mai andati di persona a visitarne una. Quello che permane nella coscienza comune è la macchietta descritta da Tom Wolfe in “Maledetti architetti”: l’intellettuale egocentrico con gli occhialini tondi, pontificatore, assolutista ed insopportabile. La recente vicenda dei Five Architects e del dibattito fra “bianchi” e “grigi” non ha fatto altro che acuire questa immagine.

Morto l’uomo rimangono però le opere e penso che a queste unicamente dovremmo guardare, senza interporre nei nostri giudizi lo schermo deformante della biografia e dei proclami di chi le ha costruite (anche se è stato lo stesso Le Corbusier ad inaugurare la figura dell’ ”architetto demiurgo”, dello scrittore propagandista): il contributo più significativo da lui apportato all’architettura non è negli scritti, nei proclami, nei disegni, ma nella straordinaria inventiva delle sue opere.
Anch’io devo ammettere di aver fatto parte per diverso tempo dei suoi detrattori, poi la visita al padiglione dell’Esprit-Nouveau ricostruito a Bologna ha rimesso in discussione le mie convinzioni, fra cui quella di considerare insana la passione per Le Corbusier del mio professore di storia dell’architettura e fautore di questa installazione (Giuliano Gresleri). Non so se avete presente il padiglione: è un quadrato con due ali semicircolari in cui è stato ritagliato un cerchio per lasciarvi crescere un albero in mezzo. Le foto e i disegni delle piante e dei prospetti delineano uno dei tanti prototipi razionalisti di abitazione minima.
Visitandolo di persona invece ci si rende conto di come la qualità spaziale del progetto emerga in maniera preponderante, sia nei confronti della realizzazione formale che di quella eminentemente metaprogettuale.
Lo studio sugli “standard” portato avanti dall’architetto svizzero, che risponde a motivi di efficienza, ordine e bellezza propri della realtà industriale riesce a coniugarsi con realizzazione architettonica che non ha niente di asettico e che si presta alle più svariate declinazioni.
In un’ottica tradizionalista, parrebbe che l’alloggio minimo derivato dallo studio dei tipi edilizi, come quello proposto da Klein, possa declinarsi in maniera più conforme al benessere abitativo; ci si accorge invece che tali cellule non fanno altro che ridurre e sminuire i valori architettonici e proporre composizioni sterili.

Il prototipo della maison Citrohan invece riesce a declinarsi in tanti modi diversi, dal padiglione dell’ Esprit Nouveau all’ Unitè d’habitation, proprio perché al di sotto dello studio intellettuale e degli interessi artistici si cela una grande mano architettonica. Il progetto dell’alloggio, partendo dalla standardizzazione industriale, viene sviluppato da un’unica personalità che avoca a sé l’intero ciclo produttivo e ne controlla la forma con un fine che trascende il dato funzionale e riconduce ogni cosa all’ambito della realizzazione artistica.
Visitando villa Savoye ci si accorge che la promenade architecturale non è semplicemente un espediente architettonico, ma un’esperienza unica ed irripetibile (paragonabile in tutto e per tutto alle realizzazioni di un’altra mano felice e completamente estranee al mondo di Le Corbusier, quella di Gaudì): non a caso la rampa costituisce un elemento plastico costantemente visibile sia per chi guarda all’interno sia per chi guarda dalla terrazza-giardino del primo piano.
Il movimento moderno ha dato primaria importanza alla connotazione dello spazio architettonico, ma il dibattito attuale sembra aver perso di vista questa istanza, soffermandosi unicamente sulle componenti stilistico-formali dell’architettura.

Come detto sopra, le architetture di Le Corbusier andrebbero rivalutate sotto tutti gli aspetti, al fine di coglierne la qualità spaziale e vedere come la sua architettura non si possa ridurre solo a pareti bianche e pilotis: allo stesso modo la poca attenzione dedicata ad esempio dai Five Architects alle opere dell’ultimo periodo del maestro dimostrano come il fraintendimento di fondo sia consolidato.
Il salto compiuto all’epoca del passaggio dalla poetica razionalista del purismo all’informale neo-espressionismo di Ronchamp non può venire spiegato solo su base estetica e senza prendere in considerazione l’evoluzione spaziale delle opere precedenti: fin dai tempi dei sui viaggi in Oriente Le Corbusier si accorge che le città in ogni tempo e luogo sono caratterizzate da una “unità” sorprendente resa manifesta da standards precisi e ripetibili.

La storia non è dunque un grande calderone da cui estrarre a piacimento gli elementi che più sono confacenti alle varie architetture. A questo proposito Zevi afferma che: “Le Corbusier studiò la storia in profondità, non nei falsi manuali e precetti Beaux-Arts, ma viaggiando per anni in Oriente, Grecia e Italia, e scoprendo cosa c'era di nuovo, di moderno nel passato. Il linguaggio dei «volumi puri sotto la luce» deriva dal cubismo quanto dall'eredità ellenica. Quando Corbu rigetta questa poetica, a Ronchamp, la conoscenza dei castelli medievali francesi lo aiuta a trovare nuove espressioni. Chiunque l'abbia conosciuto, e abbia passeggiato con lui lungo le calli di Venezia, non dimenticherà mai la sua straordinaria sensibilità per il tardo-antico, per il carattere narrativo della città lagunare. […] Il disprezzo per il passato è stato un atteggiamento alla moda dell'avanguardia, ma i maestri si sono sempre nutriti di storia.” [3]
Solo alla luce di un costante raffronto con la storia dell’architettura è possibile capire le varie declinazioni dell’opera di Le Corbusier e quindi la sua inesauribile capacità creativa.



3. Ho scelto volutamente due architetti che si sono rapportati costantemente con la tecnologia propria del loro tempo: Renzo Piano considera il discorso tecnologico da un punto di vista “etico”, come possibilità di soddisfare in maniera adeguata i bisogni della società di volta in volta sempre diversi; per Le Corbusier invece la tecnologia assume una valenza “estetica”, connaturata al concetto stesso di “standard”.
Credo che oggi non sia più possibile prescindere dall’influenza dello sviluppo tecnologico nella pratica architettonica.
Ma, come già ho affermato a proposito dei lavori di Piano, la tecnologia di per sé è sterile, senza una mano che sappia dirigerla in maniera adeguata (soprattutto all’interno di un panorama attuale così disomogeneo).
Per questo motivo sono convinto che la rilettura dello spazio come elemento fondante dell’architettura sia l’unico valore da cui poter ripartire per fondare un dibattito architettonico serio; occorre deviare l’attenzione dal sensazionalismo estetico alla qualità della “vita” all’interno delle stesse architetture.

Note:

[1] da un’intervista a “Il sole 24 ore”

[2] da M. Dini “Renzo Piano, progetti e architetture 1964-1983”, Electa. Milano

[3] dal discorso “Architecture versus Historic Criticism”, tenuto al RIBA il 6 dicembre 1983 (difficilmente pioverà all’interno dei suoi edifici; ogni riferimento è puramente casuale).


Intersezioni --->OLTRE IL SENSO DEL LUOGO

Come usare WA
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Leggi:

1 luglio 2009

0001 [OLTRE IL SENSO DEL LUOGO] Maledetti imbianchini


di Salvatore D'Agostino
«Verso la fine degli anni Sessanta, quando ero studente universitario, passai tre mesi di vacanze estive in Europa. Feci un'ampia gamma di esperienze nuove ed eccitanti e quando tornai a casa, ne parlai agli amici, alla mia famiglia e ad altri conoscenti. Ma non a tutti riferii esattamente la stessa versione del mio viaggio. Ai miei genitori, per esempio, diedi ragguagli sulla sicurezza e la pulizia degli alberghi in cui avevo soggiornato e su come il viaggio mi avesse reso meno pignolo nel mangiare. Ai miei amici, invece, parlai di pericoli, di avventure e di una breve storia d'amore. Agli insegnanti descrissi gli aspetti "educativi" del mio viaggio: visite a musei, cattedrali, luoghi storici e osservazioni sulle differenze culturali e comportamentali. Ognuno dei miei vari pubblici udì un racconto diverso. Le storie del mio viaggio erano diverse tanto nel contenuto quanto nello stile. Cambiavano le costruzioni grammaticali, i modi di pronunciare le frasi e la quantità di termini gergali. In ogni situazione, cambiavano le espressioni del viso, le posizioni del corpo e i gesti delle mani. In ogni racconto variavano il misto di frivolezza e di serietà. I miei amici, per esempio, udivano un discorso pieno di "parolacce" e di sarcasmo.
[…] Avevo forse "mentito" a ognuna di
queste persone?
Non esattamente. Ma avevo raccontato verità diverse. Avevo agito come la maggior parte degli individui nelle interazioni quotidiane, evidenziando alcuni aspetti della mia personalità e della mia esperienza e nascondendone altri.
E benché io, e chiunque conoscessi, inconsciamente ca
mbiassimo comportamento da una situazione all'altra, pensavo (secondo la mentalità di quel periodo) che a "recitare ruoli", fossero i disonesti o le persone non in contatto con i loro "veri sé"». Joshua Meyrowitz [1]
La scrittura mediale ha la stessa logica, secondo le piattaforme che utilizziamo Facebook, Twitter, aNobii, Myspace, Messenger, sms, Meetic, Second life, World of Warcraft, Skype, LinkedIn cambiano stile e grammatica.
Nello stesso modo, nel fare un commento in calce ad un articolo di giornale, blog o newsgroup rispondiamo interagendo con l’autore e la sua autorevolezza.
La nostra vita elettricamente espansa produce molteplici sé.
Secon
do Joshua Meyrowitz i luoghi virtuali ci inducono a riconsiderare il nostro rapporto con il luogo fisico. Il senso del luogo virtuale e quello reale [2] non entrano in conflitto, ma insieme cambiano i comportamenti sociali.
Internet è un media ibrido, ci offre la possibilità di leggere e scrivere, per questo motivo non bisogna confondere le scritture e i tipi d’interazione. I nostri sé ‘sociali’ cambiano secondo gli strumenti utilizzati.
Un articolo scritto per un giornale, anche se è pubblicato on-line,
è diverso da un post scritto su un blog.

Possono essere simili, ma strutturalmente, come nel linguaggio, sono diversi.
Nel settembre 2008 è nato il blog ‘Luoghi comuni al contrario’, dove quasi giornalmente si può leggere una frase che gioca con i luoghi comuni.
Ecco un esempio, autore Stefano Bartezzaghi: «In
fondo Mussolini ha fatto anche molte schifezze» (29 ottobre 2008)
Nella sua prima versione vi era un sottotitolo: «Una volta qui era tutta città», accompagnava l’immagine di una campagna con delle mucche al pascolo. Un paradosso linguistico/visivo che ho immaginato come la fotografia della futura Italia post cementificata.

Avendo in mente quest’idea bislacca ho scritto il mio luogo comune al contrario: «Maledetti imbianchini». Meditazione avvenuta dopo aver letto gli articoli dei critici (spesso semplici giornalisti) di architettura bloccati sui luoghi comuni e mai sui temi concreti, soventi infarciti di alcune parole ‘tasca’ che descrivono i temi senza svilupparli.

L’Italia che io osservo rispecchia l‘esaltanti relazioni annuali dell’ANCE degli ultimi anni. Anno dopo anno è stato un trionfo di cemento, per il nostro paese l’economia delle costruzioni costituisce una base solida, difficilmente mediata con l'architettura.
Mentre l’Italia degli architetti, riflette sui temi indicati dalla critica sopracitata: archistar, centro storico, periferia, piano casa, non luoghi, arredo urbano, città a misura d’uomo, decostruttivismo, ecomostro, parchi urbani, postmoderno, grattacieli, sicurezza, dov’era com’era, superluoghi, chiese moderne, è meglio un imbianchino di Le Corbusier…
Credo che vi sia uno iato profondo tra il senso del reale cemento e il senso dell’irreale l‘architettura.


A tal proposito ho mandato una mail ai circa 170 blog dedicati all’architettura (l’0.13% dei 130.000 architetti in Italia, cifre che dovrebbero fare riflettere).
Ponendogli due domande:

  • Qual è l’architetto noto che apprezzi e perché?
  • Qual è l’architetto non noto che apprezzi e perché?
Domande che ricalcano la banalità delle semplici contrapposizione critiche degl’ultimi anni. Archistar o archipop?
Archipop è un neologismo volutamente ambiguo, il suffisso POP può essere inteso:

  • enfasi dei linguaggi architettonici del passato o copie provinciali delle culture metropolitane, una pop/pop architettura;
  • contrazione di popolare (pop-olare) architettura collage del mondo visivo popolare;
  • contrazione di popolo (pop-olo) architetto che opera con dignità nei contesti locali, reinterpretando il linguaggio architettonico senza scadere nel becero provincialismo.
Wilfing Architettura quest’estate vi propone quasi un post al giorno, ovvero le risposte dei blogger/Architetti italiani.
Un racconto blog, con il suo linguaggio e la sua profondità leggibile anche attraverso i commenti.


«Nella misura in cui i media elettronici tendono a riunire molte sfere di interazione precedentemente distinte, non è escluso che si possa ritornare a un mondo ancora più antico del Medioevo. Molte caratteristiche dell'"era informatica" assomigliano alle forme sociali e politiche più primitive: la società dei cacciatori e dei raccoglitori" dei frutti spontanei della terra. Essendo popoli nomadi, cacciatori e raccoglitori non hanno un rapporto di fedeltà con il territorio. Anche essi, hanno uno scarso "senso del luogo"; le loro attività e i loro comportamenti specifici non sono strettamente legati a scenari fisici particolari. Il fatto che tanto le società di cacciatori e "raccoglitori quanto le società elettroniche siano prive di confini, consente molte sorprendenti analogie. Tra tutti i tipi di società che hanno preceduto la nostra, quelle dei cacciatori e dei raccoglitori sono state le più egualitarie per quel che riguarda i ruoli di maschi e femmine bambini e adulti, capi e popolo.»[3]
Riflessioni ancora attuali trattate in un libro che è stato scritto nella prima era digitale Web 0.1 (anno 1995).

Ringrazio tutte le persone che hanno collaborato con le proprie risposte a questo racconto/dialogo blog.
Wilfing Architettura tornerà a Ottobre ma non scomparirà sarà nei commenti ovvero ‘oltre il senso del proprio luogo’.

Link inchiesta

Intersezioni --->OLTRE IL SENSO DEL LUOGO

Come usare WA ----------------------------------------------------------------Cos'è WA

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[1]Joshua Meyrowitz, Oltre il senso del luogo. Come i media elettronici influenzano il comportamento sociale, Baskerville, Bologna, 1995, p. 3-4

[2] La definizione di ‘Oltre il senso del luogo’ di Joshua Meyrowitz «Il cambiamento sociale è sempre troppo complesso perché lo si possa attribuire a un'unica causa ed è troppo diversificato perché lo si possa ridurre a un singolo processo, ma la mia teoria propone che un tema comune a molti fenomeni recenti, e apparentemente diversi, è che in America è cambiato il "senso del luogo". La frase è un gioco di parole complesso, ma molto serio: complesso perché il termine "senso" e il termine "luogo" hanno ciascuno due significati: "senso" si riferisce tanto alla percezione quanto alla logica; "luogo" significa tanto la posizione sociale quanto la collocazione fisica. Il gioco di parole è serio perché ognuno di questi quattro significati rappresenta un concetto importante della mia teoria. Infatti, dalla loro interrelazione nascono i due argomenti fondamentali che ho esposto in questo libro: (1) i ruoli sociali (cioè il "luogo" sociale) si possono intendere solo nel senso di situazioni sociali che, fino a poco tempo fa, erano legati a un luogo fisico, (2) la logica dei comportamenti situazionali è molto legata ai modelli del flusso informativo, cioè con i sensi dell'uomo e le loro estensioni tecnologiche. L'evoluzione dei media, secondo me, ha cambiato la logica dell'ordine sociale, ristrutturando il rapporto tra luogo fisico e luogo sociale e modificando i modi in cui trasmettiamo e riceviamo le informazioni sociali.» op. cit., p. 508


[3] op. cit., p. 521

22 aprile 2009

0006 [FUGA DI CERVELLI] Colloquio Sudafrica ---> Italia con Louis Kruger

di Salvatore D'Agostino 
Fuga di cervelli è una TAG non una definizione. La TAG è contenitore di diversi 'punti di vista'. 

L'Italia vista e progettata dai migranti.


Adelfia (BA)

Salvatore D’Agostino Louis Kruger di anni..., originario di..., migrante a, ...qual è il tuo mestiere? 

Louis Kruger quest'anno compio 50 anni. Mezzo secolo, metà trascorso in Sudafrica, sono nato a Johannesburg e l'altra metà in Italia ad Adelfia, un paesino vicino a Bari.
Faccio l'architetto, anche se preferisco il modo di dire in inglese: sono un architetto. 

Perché hai lasciato il Sudafrica? 

Principalmente per motivi politici. Sono andato via negli anni in cui lo scontro tra la politica repressiva dell’apartheid e la lotta per la liberazione dei neri stava raggiungendo l'apice. Sebbene Boero, cioè bianco afrikaner, come chi aveva instaurato il regime segregazionista, ero assolutamente contrario alle loro idee politiche, pur non sentendomi parte del movimento di lotta attiva per l'abbattimento del regime. Ho preferito andare via come disertore, rifiutando di prestare servizio militare che all'epoca significava combattere chi voleva un Sudafrica libero.



Qual è stata la tua formazione professionale in Sudafrica?

Mi sono laureato all'università del Witwatersrand a Johannesburg, una facoltà che insegnava col metodo Bauhaus, teoria pratica, mirata sempre verso la produzione, verso il mondo del lavoro. La creatività non fine a se stessa, non un oggetto di culto, ma qualcosa a portata di tutti. L'intero quarto anno del nostro piano di studi prevedeva il lavoro presso uno studio di architettura, per poi ritornare altri due anni all'università, cosciente della professione che ci attendeva. 
La facoltà aveva docenti che in passato erano in stretto collegamento con Le Corbusier, portando "International Style" in Sudafrica, mitigandolo in seguito in un'architettura più regionale con influenza di Marcel Breuer, di Richard Neutra, di Rudolf Schindler e sopratutto di Oscar Niemeyer. 
Amancio D'Alpoim Guedes, membro del CIAM e dopo del Team 10 era il preside della facoltà. 
Leon Van Schaik, il mio professore di progettazione, ha il merito di aver portato la facoltà di architettura di Melbourne , prima come preside e dopo come Innovation Professor, a essere considerata una delle 10 migliori facoltà di architettura nel mondo.
Anche mio padre era un architetto ed è morto in un incidente stradale quando avevo dieci anni. Sono nato nella casa di un architetto, cresciuto in case di architetti e ho progettato la mia prima casa all'età di ventuno anni. Una nuova casa per il secondo matrimonio di un cliente di mio padre. In Sudafrica chiunque può presentare un progetto e farlo approvare al comune e chiunque può realizzare la propria abitazione. Non so se la burocrazia è arrivata nel frattempo anche lì.

Qual è stato invece il tuo percorso in Italia?

In un certo senso è stata la mia rivoluzione privata, mi sento di aver espiato, in parte, le colpe del mio popolo di origine, con tutte le difficoltà che ho dovuto affrontare. Appena arrivato in Italia ho scoperto che la mia laurea non era riconosciuta, non c'erano rapporti di reciprocità tra l'Italia e il Sudafrica.  Ottenere questo riconoscimento non è stato facile. Il sacrificio maggiore è stato affrontare la burocrazia per ottenere l’iscrizione alla facoltà di architettura. Studiare è stato più semplice. 
Nel frattempo ho imparato la lingua italiana e contemporaneamente la burocrazia italiana. Ora, con la lingua me la cavo, con la burocrazia ancora poco. 
Dopo quasi tre anni, un travaglio lunghissimo, mi sono iscritto alla Facoltà di architettura di Pescara, l'università più vicina, all'epoca non c'era ancora quella di Bari. 
Sin dal mio arrivo in Italia ho cominciato a lavorare in uno studio tecnico a Bari, rilasciando regolari fatture come "disegnatore" una fortuna, vedendo e capendo lentamente la situazione italiana. Quindi studiavo e lavoravo. 
Un po’ per il mio carattere, ma sopratutto influenzato dalla mentalità italiana, mi sentivo incapace di muovermi, cambiare, trovare di meglio avevo perso quell'incoscienza con cui ero venuto, o meglio, quell'ingenua fiducia con cui i giovani credono che tutto sia possibile. 
Mi sono laureato nel 1989, ho superato lo scoglio dell'abilitazione e mi sono iscritto all'ordine degli architetti. 
Da un lavoretto all'altro, ho incominciato lentamente la libera professione. 
La prassi era ancora di considerare il geometra o l'ingegnere come i progettisti e l'architetto come "abbellitore" d’interni e, qualche volta, di facciate esterne. 
Con la mia formazione e con il mio operato sul territorio sono riuscito a convincere (altrettanto lentamente) i miei clienti privati e in seguito qualche impresa di costruzione, del ruolo diverso dell'architetto. 
Non è stato facile essere concorrenziale con geometri e ingegneri (richiede pazienza e umiltà) e non è stato facile essere convincente sul valore che possa avere in più l'opera architettonica (richiede una passione e una dedizione totale) e senza che costi necessariamente di più, o che sia più complicata da realizzare (richiede una coerenza e una responsabilità), ora sono nelle condizioni di poter esprimere e ricercare uno stile personale: essere contemporaneo in un contesto internazionale, ma sopratutto attento alle condizioni locali, di un'architettura legata alla storia, al clima, ai materiali e alle tecnologie e metodi costruttivi del luogo e molto condizionata dal concetto di architettura che ha la gente, rendere dinamico questo concetto. 
Attraverso il processo d’integrazione in un contesto locale, l'immigrante è in grado di identificare, rispettare e confermare le particolarità delle condizioni locali, svolgendo un ruolo reazionario ma è soprattutto grazie alla sua condizione di estraneità, che l'immigrante riesce a individuare le limitazioni locali, e (im)portare le necessarie innovazioni, svolgendo un ruolo liberatorio.

Come?

Questa dialettica è presente in tutti i miei lavori, a volte concretamente, a volte solo nel processo creativo tra me e i miei clienti. Per ovvi motivi, è più evidente nella casa che ho realizzato per la mia famiglia ad Adelfia:

  • la tipologia e l'impostazione volumetrica, con la facciata a filo strada, relativamente chiusa e solida è contestuale, integrata con gli edifici circostanti;
  • il rivestimento di lamiera ondulata funziona come facciata tecnologica, ma è sopratutto il materiale per eccellenza usato nel Sudafrica coloniale, un materiale importato dell'Inghilterra (rivoluzione industriale/prefabbricazione) un materiale indistruttibile e riutilizzabile, che caratterizza la bidonville in tutto il mondo. L'estraneità/precarietà;
  • l'impostazione spaziale è decisamente modernista (Adolf Loos, Le Corbusier, Mies Van Der Rohe) eppure, salendo le scale da un dislivello all’altro, molti mi chiedono se è stato un recupero con ristrutturazione di un'abitazione esistente;
  • l'uso dei materiali è familiare qui ad Adelfia: il tufo a vista, la pietra a secco, la pietra per terra, materiali tradizionali che però, insieme al cemento a faccia vista rappresentano i materiali della mia infanzia, quel brutalismo di mio padre e i suoi colleghi in Sudafrica, riferendosi ai materiali di Le Corbusier a Chandigarh e l'architettura di Ricard Neutra, Marcel Breuer e Rudolf Schindler, architetti europei immigrati in America.
Credi che la trasversalità delle culture dei migranti in Italia possa migliorare in positivo la nostra visione politica?

Dipende in quali circostanze. Credo che sia troppo presto per dire: «Non ci sono ancora le condizioni giuste.» Bisognerebbe attendere ancora moltissimo per poter parlare di un processo integrativo, figuriamoci il tempo che richiederà il processo culturale interattivo a cui ti riferisci. Per ora la politica è ancora alle prese con la definizione delle regole di convivenza, spinta da problemi di intolleranza e di possibili conflitti.
Possiamo parlare per ora solo di modi di convivenza, lontano ancora dalla valorizzazione del pluralismo culturale.

Leon Van Schaik sostiene che il ruolo innovativo delle architetture1 si trova nei contesti locali, luoghi dove l’architetto deve saper mediare tra lo spirito internazionale e le esigenze locali. In questi contesti più che nelle grandi città, nasce la vera sfida per l’architettura.

Certamente non un’architettura vernacolare, ma un'architettura in grado di mediare, come dici tu, esigenze non soltanto fisiche (materiali, clima, metodi di costruzione, tecnologia, ma sopratutto quelle umane, di chi vive l'architettura (anche chi la produce), dei luoghi specifici e gruppi di persone specifici. Spesso nelle situazioni in cui si incontra una certa resistenza alla creatività personale, si affinano nuove capacità particolari, mettendo spesso in dubbio valori che sono, o rigurgitati come verità, o importati senza nessun'occhio critico da altrove. Sono convinto anch'io, che nei piccoli contesti più che nelle grandi città, nasce una delle sfide più interessanti per l'architettura, le sfide sono tante.

22 aprile 2009
Intersezioni ---> Fuga di cervelli

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1 definita al plurale in contrapposizione all'architettura degli ambienti accademici, architetture spesso ignorate. Leon Van Schaik, 'Mastering Architecture, Becoming a Creative Innovator in Practice', Wiley & Sons, Chicheste, 2005.

Foto archivio Louis Kruger