'fotoreportage inedito'
«Se ha il coraggio, che venga di nuovo a Linosa»... Il comitato d'accoglienza è già pronto per chi ha osato mettere in discussione, su uno dei maggiori quotidiani nazionali, quanto fatto per lo sbarco record che l'isola e gli isolani si sono trovati a fronteggiare il 27 marzo scorso.
Quasi mille disperati scortati dalle motovedette della Guardia di Finanza su di un’isola di quattrocento anime: in tutto millequattrocento fedeli o infedeli a seconda del punto di vista. Ore critiche, difficili da dimenticare per chi c’era. Pochi. Molti.
La storia stessa di Linosa inizia con uno sbarco, quasi centosessanta anni fa, nel 1845, quando lo Stato Borbonico, decise di prendere possesso di queste pietre nere e di questa terra fertile, approdo strategico in mezzo al Mediterraneo.
Quindici anni appena e i mille "libereranno" il Meridione dal giogo borbonico, sbarcando a Marsala armati di fucili e del compiacimento di alcuni, unificando l'Italia. Isole comprese.
I mille sbarcati a Linosa il 27 marzo 2011, erano armati solamente di speranza. Speranza di una vita migliore. I 924 sbarcati quel giorno – questo il numero esatto – così come tutti gli altri disperati che durante tutti questi anni hanno intrapreso il pericoloso viaggio per mare approdando sulle coste e sulle isole siciliane, fanno parte di un più grande e complesso processo di unificazione:
quello già in atto fra le due sponde del Mare Nostrum.
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Quel giorno, fra i primi a intervenire è Claudia Rossetti, ex responsabile risorse umane di una casa editrice milanese, ora perfettamente integrata nella vita dell'isola dove con il compagno Giovanni gestisce un diving. «Erano circa le 13.00, mi trovavo a passare vicino lo Scalo Vecchio con Viola, la mia bici, quando a un tratto scorsi una vedetta della Guardia di Finanza che stava raggiungendo il molo e il mio compagno che aiutava con le cime in mano per le operazioni di ormeggio. Nessuno aveva avvisato dell’emergenza. Anche i Carabinieri furono colti di sorpresa. Iniziammo a fare sbarcare quelli che si sarebbero contati poi come 304 profughi eritrei e somali. La prima a sbarcare fu una donna eritrea con un bambino di dieci giorni in braccio. Erano già arrivate circa 380 persone durante la notte e ne sarebbero sbarcate 262 più tardi, verso le 16... è stata un esperienza di forte umanità, difficilmente la dimenticherò».
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Claudia fa parte dell’unica associazione volontaria di Linosa, la Guardia Costiera Ausiliaria. Dopo qualche momento di choc, utile anche per raccogliere le idee, si è attivata anche grazie a lei la solidarietà dell’isola: spontanea e silenziosa. Avvisati i carabinieri di quanto stava accadendo, Claudia e le altre donne dell’isola si diedero da fare per prestare i primi soccorsi agli uomini, ma soprattutto alle donne e ai bambini appena arrivati. La guardia medica, allora presidiata da un unico medico, la dottoressa Francesca Limuli, era un brulicare di bimbi che giocavano poco fuori l’ingresso, di linosane che continuavano a portare vestiti, pannolini e scarpe, e di donne che sotto pesanti vestiti tradizionali africani, portavano in corpo, sotto forma di piaghe, i segni di un viaggio passato forzatamente sedute fra acqua salata, nafta e urina.
«Nonostante il dramma già vissuto e la stanchezza», ricorda ancora Claudia, «la differenza di etnia e nazionalità fra somale ed eritree si manifestò nella forza che alcune ospiti avevano ancora per litigarsi il posto letto approntato loro dal parroco in oratorio».
Il resto del racconto è un susseguirsi orgoglioso di flash e immagini che rievocano momenti troppo brevi per lasciare spazio a riflessioni o titubanze varie.
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Quello che a Lampedusa hanno fronteggiato su più giorni e, in proporzione, con una capacità di mezzi e risorse infinitamente più grande, a Linosa lo si è ritrovato tutto in un unico giorno.
Se erano solo in 300 (su 400 abitanti) i residenti presenti sull’isola durante quella giornata di fine inverno, i disperati accolti li superavano più di tre volte come numero. Mettendo a rischio le scorte di acqua, latte, pannolini, abbigliamento e generi di primo soccorso già scarse sull’isola, fortemente legata alle condizioni del mare. «A quanti nodi soffierà il vento?» questa la domanda che si pone con cadenza oraria chi vive normalmente a Linosa, e non è certo per mancanza di argomenti che si parla del tempo qui. La vera isola in questa zona del mediterraneo è proprio Linosa. Le altre sono grandi abbastanza per farci correre un aereo.
Quando l’estate scorsa Emanuele Crialese (già regista di Respiro – film girato a Lampedusa – e di Nuovo Mondo, sempre ambientato in Sicilia) ha diretto le riprese di Terraferma (di prossima uscita) partecipò tutta l’isola. Molti linosani rientrarono appositamente per far parte delle comparse, per realizzare le scenografie o semplicemente per prendersi cura del cast: quasi cento continentali. Il film, che narra di una indefinita isola del mediterraneo, meta turistica e paradiso naturale, dove, in piena “stagione”, ci si ritrova, ospiti e ospitanti, ad affrontare degli sbarchi di migranti dall’Africa. Questa esperienza cinematografica per l’isola ha rappresentato un evento carico di ricordi e di episodi, alcuni anche divertenti, come quando durante le riprese avvenne realmente uno sbarco con i carabinieri messi a dura prova fra sbarcati “veri” e comparse. E una di queste comparse, Daniel eritreo ora regolare ad Agrigento, era realmente passato per Linosa nel 2007 e non appena sceso dall’aliscafo con gli altri figuranti, cercò, riconobbe e ringraziò profondamente chi qualche anno prima, durante un pericoloso naufragio gli salvò la vita: Salvatore.
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«Linosa è come fosse un’altra barca». Spiega Salvatore Tuccio. Se da qualche TV nazionale sono state trasmesse immagini di Linosa, rarissime, e se sul web ci sono numerosi video a firma “Aethus” (dall’antico nome dell’isola) è merito suo. Videomaker linosano, segue il fenomeno degli sbarchi sulle Pelagie fin dai primi anni, quando si è appassionato alle tematiche dell’immigrazione, dell’integrazione e, soprattutto, ha cercato di creare un contatto, un ponte fra le due sponde del Mediterraneo. Un po’ di basi di arabo, un nome, Najib, adottato durante i suoi viaggi in Tunisia, numerose collaborazioni con giovani artisti e musicisti tunisini, lo hanno già reso noto al di là del Mare a chi è in procinto di imbarcarsi. E infatti, tramite il suo profilo facebook, durante questo ultimo periodo, è stato contattato da numerosi fratelli africani che, pieni di speranza, s’informano su cosa troveranno una volta salpati dalle coste tunisine. A niente valgono i suoi tentativi di scoraggiare chi ha già deciso di rischiare la vita, scommettendo su di un mare infido, ma se ce la fanno, il primo ad essere abbracciato è proprio lui. «L’altra sera ho chattato su Skype con due ragazzi di quelli sbarcati quel giorno. Due magrebini. Ce l’hanno fatta, sono dai parenti a Parigi».
E allora da numeri, da 380, 304, 262… da quasi 1000, questi volti scuri, alcuni semplicemente poco più abbronzati dei nostri, diventano persone, storie, fratelli e figli. Speranze.
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Sono figli e nipoti per “Ramuzzo”, al secolo Salvatore Ramirez, impiegato comunale. Lui passa con disinvoltura e senso del dovere dal servir messa al guidare l’unica ambulanza dell’isola senza tralasciare, in caso di estrema emergenza, di accendere le luci dell’eliporto e recuperare le chiavi per aprire e preparare i locali del campo di calcetto (un po’ mal ridotto per la verità), come fece quel giorno, quando furono accolti lì i tunisini sbarcati in attesa di prendere la nave per Porto Empedocle, montalbanicamente nota col nome di “Vigata”.
«Il 27 marzo stavo in campagna da me, quando vedo sei ragazzi evidentemente sbarcati da poco. Mi raccontano che hanno fatto naufragio. Li accompagno in paese, dai carabinieri. Ma appena arrivo in piazza, mi accorgo che lì sono in piena emergenza: erano appena sbarcati quasi 300 persone. A quel punto è stato un continuo chiamarmi a destra e sinistra: – Ramuzzo, Ramuzzo, Ramuzzo».
Salvatore Figaro Ramirez, detto Ramuzzo, non nasconde sotto false modestie il suo ruolo da factotum instancabile: basta parlare con chi vive l’isola 365 giorni l’anno per avere una diretta conferma della sua disinteressata disponibilità e del suo essere jolly indispensabile per Linosa e i linosani. «Quando partono, per Lampedusa o Porto Empedocle, mi baciano tutti. – aggiunge riferendosi agli ospiti inattesi – Alcuni si sentono quasi in debito e ci considerano come dei salvatori alla fine di un’esperienza dove chi sopravvive ha comunque realmente visto la morte con gli occhi», riflette Ramuzzo.
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Isola e isolani si trovano per status davanti a varie difficoltà: secondo lo stesso Ramuzzo, per funzionare bene, Linosa dovrebbe cercare di risolvere tre principali problemi: i collegamenti di linea con la Sicilia, un pronto soccorso più attrezzato e che non sia solo un presidio di Guardia Medica e un servizio scolastico migliore. Per il resto, Linosa è un’isola tranquilla.
Fabio Tuccio, Capocentro della Guardia Costiera Ausiliaria (23 volontari), a questi punti aggiungerebbe anche una maggiore considerazione dal Comune che ha sede nella distante (un’ora di aliscafo se il mare vuole) Lampedusa: «Si tratta di aver assegnate delle risorse maggiori rispetto l’attuale stanziamento, sia per l’isola che per l’Associazione (che di fatto è riconosciuta come avente funzione di protezione civile), che tengano conto della condizione di svantaggio rispetto l’isola maggiore i cui collegamenti con la Sicilia non sono certo unicamente dipendenti dalle condizioni del mare».
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Pochi sanno che l’affollatissima Lampedusa – affollata spesso più da forze dell’ordine, esercito, associazioni governative, associazioni non governative, associazioni religiose, giornalisti, fotografi, cameraman, media e TV internazionali che da migranti e profughi (spesso chiamati indistintamente “clandestini”) – non è l’unica isola su cui durante gli ultimi anni ci sono stati, quasi incessantemente, i tanto temuti sbarchi.
Non tutti gli Italiani, del resto, sono a conoscenza dell’esistenza di Linosa.
Eppure Linosa è da sempre stata un approdo naturale fin dai tempi delle guerre puniche. Linosa è, inoltre, il vero punto più estremo della zolla continentale europea. La roccia nera la rende simile a una piccola Islanda, ormai silente, nel cuore del mediterraneo: un fazzoletto di terra fertile dove fichi d’india, capperi e vigneti si arrampicano fin sopra i numerosi crateri che ne caratterizzano il suo paesaggio, tutto da scoprire.
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