10 aprile 2011

0012 [FUGA DI CERVELLI] Colloquio Italia ---> Giappone con Salvator-John Liotta

di Salvatore D'Agostino
Fuga di cervelli è una TAG non una definizione. La TAG è contenitore di diversi 'punti di vista'.

Dall'occidente in-scritto all'oriente de-scritto; attraverso la scuola meridionale.
日本, 東京都文京区本郷7丁目3−1 東京大学 本郷地区番号案内-




Salvatore D'Agostino Ciao Salvator-John,
forse non è il momento ma ti rilancio la proposta di un colloquio per Wilfing Architettura.
Spero che tu stia bene.


Salvator-John Liotta Ciao Salvatore, grazie per la tua mail e proposta: forse non è il momento migliore, ma mi dico anche chissà quando sarà il momento migliore: facciamo che sia adesso e quindi accetto volentieri.
Al momento ci hanno 'evacuato' nel Kansai, e quindi non sono nelle condizioni ottimali né per comunicare né per concentrarmi al 100%. 

Ti linko l'articolo su questi giorni surreali che abbiamo vissuto di recente. 

Il tuo articolo su Domus, segna il passaggio tra l’opportunità di una rivista di architettura di attivare dei sensori attenti alla cronaca attraverso l’immediatezza della sezione on-line.
Continuando a essere inopportuno: 'evacuato'! 

Abito e lavoro a Tokyo, ma l'ambasciata visto l’evolversi incerto di questa crisi complessa che ha colpito il Giappone, ci ha invitati 'caldamente' a lasciare la capitale: o per l’Italia o per altre destinazioni. Non ci ha obbligati, ma invitato, ci tengo a sottolinearlo. Trascorrerò i prossimi giorni tra Kobe, Kyoto e Osaka. 
Spero di riuscire a dialogare con te in modo soddisfacente: infatti tra gli stravolgimenti continui e repentini che stiamo vivendo in questi giorni, cambi di casa e vari lavori da consegnare; vivo veramente l'attimo.

Sono d'accordo con te per quanto riguarda Domus. L'arrivo di Joseph Grima con la sua comprensione dei nuovi media, il fatto che la redazione riceva centinaia di proposte difficili da smaltire soltanto su carta, la velocità e immediatezza dei mezzi di comunicazione e del tempo che viviamo sono tutti elementi che hanno portato alla necessità di avere un sito più veloce e agevole. Esso è altro rispetto allo spazio di approfondimento cartaceo che rimane il central core di Domus.

Joseph Grima sa bene che il Web e il cartaceo sono due piattaforme distinte ognuno con il suo linguaggio e forse con una diversa profondità.
L’avvento della nuova Domus Web cambierà il panorama delle riviste italiane poiché quest’ultime continuano a insistere anacronisticamente sull’uso del Web come sito/vetrina. Ad eccezione - senza nessuna innovazione - di Casabella che ha uno spazio blog dal sapore ‘antico’ rilancio link e Abitare on-line che scechera tutti i suoi contenuti sia Web che cartacei (ndr peggiorata nella recente riposizione grafica - aprile 2011 - all'interno dei siti del gruppo RCS).
Un cambiamento che dobbiamo ancora analizzare e capire.

Come fai a vivere tra Kobe, Kyoto e Osaka e lavorare contemporaneamente?

Sono uscito di casa senza sapere se vi avrei potuto mai più fare ritorno: una sensazione strana quella di pensare che ti lasci alle spalle un luogo che potrebbe venire cancellato con tutto quello che vi hai messo dentro, in termini affettivi e materiali. Sono momenti che ti restano dentro per sempre e ti fanno pensare a quanto la vita sia veramente fragile, ma ciononostante anche che essa sia il più bel regalo possibile da vivere momento per momento. Ho preso con me due libri e un computer: un libro su tecniche di respirazione e uno su psiche e tecnologia; in viaggio ho poi comprato degli splendidi fumetti che leggo (voracemente) per rilassarmi (consiglio gli splendidi Naoki Urawasa e Fumi Yoshinaga); sul computer ho dei files sui quali sto lavorando e il minimo di softwares che mi consentono di portare avanti ricerca, lavori privati (con dei colleghi stiamo progettando una casa privata sulle colline che guardano Kyoto che conto di visitare durante questi giorni) e collaborazioni con varie riviste.
Per quanto riguarda le riviste e il modo nel quale stanno usando i nuovi media concordo pienamente con te. Tra l'altro leggevo il dialogo che hai avuto con Fabrizo Gallanti di Abitare: molto interessante.

In uno zaino porti con te tutto il necessario per continuare a lavorare, sarebbe stato impossibile dieci, ma forse cinque, anni fa.
Perché sei andato a lavorare in Giappone? 

Porto l'essenziale. Al momento ho vissuto in undici diverse città: che vanno da 6000 abitanti fino a 34 milioni. Adesso vivo a Tokyo, una delle capitali del mondo, sicuramente fra le città più eccitanti dove sia mai stato. Ogni tanto per descrivere alcuni luoghi si usa una frase che è essa stessa un luogo comune: “sembra che qui il tempo si sia fermato”. Tokyo è l’opposto: il tempo qui non conosce pause, e ad immergersi nei suoi flussi ogni tanto si fa fatica a tirarsene fuori, a fare un passo indietro per riflettere.

Prima di venire in Giappone sono stato a Parigi da New-Territories/Francois Roche per un internship. Mentre ero a Parigi ho ricevuto la notizia di aver vinto il concorso bandito dal Monbukagakusho - Ministero della Ricerca e Cultura giapponese - e così sono partito per l’oriente con una borsa di ricerca biennale. 

Dopo il primo anno mi hanno chiesto se volevo fare il concorso per il dottorato di ricerca, l'ho vinto e così sono rimasto per altri tre anni. Inizialmente ero con Yoshiharu Tsukamoto che però si è quasi subito spostato ad Harvard, così ho studiato con Masaru Miyawaki col quale sono in debito per avermi insegnato il senso del fare ricerca e fornito gli strumenti cognitivi per dare una base scientifica solida ai miei studi. 

Dopo aver conseguito il dottorato con una tesi 'sull'identità architettonica di Tokyo: integrazione fra media e metropoli', sono tornato per un breve periodo in Europa, per dei lavori che stavo portando avanti insieme con una collega francese - Fabienne Louyot - e un collega indiano - Praful Parlewar - con i quali avevamo aperto qualche anno prima lo studio Synaps (oggi sciolto) con sedi a Parigi, Bombay e Tokyo. Era un modo per testare le possibilità connettive senza frontiere (apparentemente senza frontiere) offerte dal mondo globalizzato e per capitalizzare le rispettive esperienze fatte lavorando all'estero. 

Ho conosciuto Kengo Kuma nel 2007, ad una mostra che avevo co-organizzato insieme a degli scienziati esperti di nano-tecnologie all'Istituto Italiano di Cultura di Tokyo. In quell'occasione avevamo parlato della possibilità di una ricerca che indagasse l’uso di un’architettura parametrica che sintetizzasse cultura e tecnologia. Così nel 2009 abbiamo preparato un progetto di ricerca poi finanziato da parte del JSPS, che sarebbe come il CNR in Italia. 

Quando guardavo al Giappone vedevo nel loro modo di fare architettura e nella loro estetica la ricerca di un’espressione calma: dove noi occidentali cerchiamo di imprimere forza e muscolarità alle nostre opere, loro per tradizione aspirano al distacco dal momento contingente, uno spirito che anela alla serenità. Questo però l’ho capito in modo logico soltanto retrospettivamente, inizialmente si trattava di un tipo di attrazione non mediata dal raziocinio. Ero imbevuto degli scritti di Inazo Nitobe, Yukio Mishima, Masahi Tanaka, Jiro Taniguchi, e avevo negli occhi sia le immagini epiche di Akira Kurosawa che quelle ultra cinetiche di Shinya Tsukamoto e Hayao Miyazaki. Poi ho fatto la scoperta di Murasaki Shikibu, Kenzaburō Ōe, Yoshida Kenko, Haruki Murakami. Ho riposto nel cassetto Arata Isozaki, Tadao Ando, Toyo Ito e Makoto Sei Watanabe: sono andato per il Giappone per visitare i grandi classici dell’architettura tradizionale e mi sono appassionato ai più giovani architetti avanguardisti nipponici.
Con gli anni ho scoperto che lo spirito dell’avanguardia e della sperimentazione fa parte delle cultura tradizionale giapponese: innovano perché fa parte della loro storia, lo fanno senza vanterie, lo fanno inconsciamente, per questioni culturali. Di interessante c'è che mediamente i giapponesi non sono quasi mai abbastanza soddisfatti di raggiungere risultati che noi considereremmo ottimi. Di conseguenza la qualità media dei loro lavori è molto alta.

La tua frase finale mi ricorda il concetto di superflat coniato dall'artista Takashi Murakami.
«Superflat descrive la civiltà giapponese, la sua arte, antica e contemporanea, fatta di piani e di atmosfere, non di prospettive e profondità. Superflat è una società dove arte colta e arte popolare si mischiano e si confondono, anzi non vengono nemmeno divise. Distinguere il colto dall'ignorante, l’alto dal basso è una fissazione tutta occidentale»1.
A volte, in un eccesso di occidentalismo, dimentichiamo che la prospettiva è solo un sistema descrittivo tra i vari possibili. Anzi, forse dimentichiamo pure che la prospettiva è una legge attraverso la quale abbiamo prima 'costituito' e poi costruito lo spazio occidentale.

Dove gli architetti europei ed americani praticano un’arte che potrebbe essere chiamata dell’in-scrizione, i giapponesi praticano un’arte della de-scrizione. Invece che imporsi al luogo, lo captano, percepiscono e portano alla luce de-scrivendolo. La prospettiva non è data dalla distanza dal punto focale, ma - tradizionalmente attraverso gli strumenti in uso ai giapponesi - dalla gradazione dell’inchiostro. Lo spazio giapponese presenta un tipo di profondità non dovuta alla linearità bensì alla gradazione.
«Ito - racconta Mark Dytham architetto ed ex collaboratore di Toyo Ito - non è per nulla supponente, è molto generoso e davvero piacevole. Soprattutto quando si fa un paragone con gli architetti occidentali, sempre saccenti, arroganti, pronti a litigare. Sai, in effetti molti architetti qui sono rilassati come lui. Prendi Itsuko Hasegawa per esempio. Mi piacerebbe molto pensare a un processo di maturazione e invecchiamento in cui anch'io sono così tranquillo. Credo che sia diverso in Europa, se non diventi duro cattivo non sopravvivi, forse per via dei clienti, avere a che fare con costruttori poco piacevoli…»2
Di recente scrivevo della prima costituzione giapponese dove racconto di come nel primo articolo - di quella che è più un insegnamento morale che non una vera raccolta di articoli costituenti un diritto - si dice che il Giappone sia una nazione fondata sull'armonia. 

In occidente, e soprattutto in Italia, la cultura 'campanilistica' ha avuto un grandissimo rilievo ed impatto. Detto in maniera semplice e riduttiva, penso che la bellezza di molte nostre città sia in parte dovuta ad una sana rivalità fra città: guardare quello che fa il vicino per farlo meglio - se possibile - e superarlo (mostrando i muscoli). Se pensi allo scrivere, dove storicamente l’occidente scrive a colpi di scalpello la propria storia, incidendo la materia. L’oriente, e soprattutto il Giappone, scrive la propria letteratura (e storia) usando il pennello. Da una parte un'attività muscolare forte, dal gesto potente, dall'altra un'attività calma: gli oggetti in dote al calligrafo trasudano serenità, il polso deve essere sciolto, il movimento richiede rilassatezza. 

Prima dicevo come l’occidente imbeve le proprie opere d’arte di tensione, di forza, di potenza e violenza. Gli artisti giapponesi tendono invece a raggiungere un’opera d’arte serena, ad infondervi calma. Mi verrebbe da dire che Picasso, Caravaggio o Zaha Hadid non sarebbero potuti nascere in Giappone, ma nemmeno Toyo Ito sarebbe potuto nascere in Occidente.

Ora, questo è un discorso molto generale: perché dove Toyo Ito rappresenta un architetto sereno, Tadao Ando è invece un architetto spigoloso che impone il proprio pensiero in maniera molto forte e senza compromessi.*

Si dice dei giapponesi che siano gentili, e che la gentilezza sia per loro come una forma di religione che professano pure quando non ci credono. Qualche osservatore dice che questa gentilezza sia in parte artefatta. Fa venire in mente due cose: l’espressione 'falso e cortese' - che si usa per definire delle prerogative dei cittadini di alcune città italiane - e l’invito “potrebbe essere un po' più gentile?”. Che dire, personalmente, preferisco una 'falsa gentilezza alla giapponese' (che se reiterata produce comunque effetti positivi) che non un tipo di supponenza che porta a quello che Mark Dytham riconosce come tratto distintivo di certi architetti che con gli anni si induriscono. 

Qual è il tuo paese di origine? 

L’Europa. Quando parlo con un cinese o un coreano e mi ritrovo li a spiegargli chi sono Garibaldi e Napoleone, o anche Deleuze, i Mano Negra, Wenders, Leo Messi, Magritte, Almodovar o Fellini, capisco che siamo un vero continente e non solo per via della cultura: ma perché ci siamo fatti la guerra, ci siamo invasi, ammazzati, violentati e ibridati scambiandoci il sangue e i geni. Di contro quando vietnamiti e indonesiani parlano di condottieri e generali che hanno fatto la loro storia mi sembra di essere un estraneo, solo in parte al corrente delle cose d’Asia. Più in dettaglio, penso che le mie origini affondino in quella che definirei la scuola meridionale dell'architettura: quella fatta di notte e con mezzi di fortuna.

A che cosa ti sta servendo questa scuola meridionale in oriente? 

La scuola meridionale è agitata dal genio dell'improvvisazione, quella giapponese dalla serenità della regola. Ho dovuto “resettare” tutto per aprirmi veramente a ciò che fino a quel momento era per me ignoto. Aziende come Goldman-Sachs o Merrill Lynch hanno diverse sezioni, tipo GoldmanSachs Europa, GoldmanSachs Asia e infine GoldmanSachs Giappone. Questo perché il Giappone è una nazione peculiare - con pro e contro - per quanto riguarda sia storia che sistema degli affari. Estremizzando mi verrebbe da dire che quello che si sa prima di venire qui forse non serve a niente, in quanto il sistema giapponese ha un sistema operativo tutto suo. Esportabile, affascinante e comprensibile: ma non va dimenticato che e’ 'made in Japan'.

Quindi l’attitudine che ho avuto è stata di purificazione: liberarsi del passato. 

Sappiamo come la cultura monoteista abbia la tendenza ad escludere elementi esogeni ed esterni ad essa in quanto tende alla purificazione. Il piombo che cerca di essere tramutato in oro. Mentre scintoismo e buddismo tendono all’inclusione. Ecco, all’inizio quando sono arrivato in Giappone, ho praticato una sorta di purificazione al contrario (in quanto ero ancora imbevuto di cultura monoteista): decidendo di non usare gli strumenti cognitivi che avevo fino a quel momento appresso. Sono venuto vuoto, o meglio cercavo di svuotarmi delle cose che avevo appreso. Le cose che conoscevo non che non mi potessero servire, ma ho preferito fare finta di non averle.

Poi, oggi, dopo che esse hanno dormito per lungo tempo, sento che si stanno risvegliando e il tutto si sta cominciando a mischiare in modo naturale in un processo ancora in corso. Spero in futuro mi portino ad avere una maggiore espansione della coscienza e una più ampia sintesi dei saperi. 

Durante questo tam tam di domande e risposte mi hai scritto:
«Qui tranne il fatto che l'acqua è razionata e che la città non funziona al 100%, tutto sommato si continua a vivere bene!»
Mi piace il tuo ottimismo, grazie per questo dialogo. 

Per via degli effetti di questa crisi complessa che ha colpito il Giappone, Tokyo si trova oggi a dover ripensare il suo futuro: trattandosi di una metropoli ultra avanzata che dopo anni di spregiudicatezza consumistica, intensa produzione di avveniristiche sequenze spaziali ed esperimenti sociali si può capire che ripensarsi in quanto una delle capitali del mondo non sarà immediato. Ma diceva Henry Ford che gli ostacoli sono quella cosa spaventosa che si vede quando ci si distrae dalla meta.
Qui siamo con un occhio all'immediato e uno all'infinito.
Grazie a te!

11 aprile 2011

Intersezioni ---> Fuga di cervelli

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Note:
1 Francesco Bonami, Lo potevo fare anch’io, Mondadori, Milano, 2007, p. 95.
2
AA. V V., Toyo Ito. Istruzioni per l'uso, Postmedia, Milano, 2004, p. 59.
* Li ho incontrati entrambi per delle interviste che sono diventati dei libri pubblicati da CLEAN (nel primo sono coautore insieme a Matteo Belfiore, del secondo ho curato la traduzione): ognuno dei due architetti ha una sua peculiare identità.

4 commenti:

  1. bellissima conversazione, "con un occhio all’immediato e uno all’infinito".
    un abbraccio.

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  2. Verrebbe da pensare che i terremoti servano ai giapponesi per cambiare, agli italiani per restare drammaticamente se stessi. Sì, è davvero una bella conversazione. Forza, Giappone.

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  3. Rem,
    condivido (anche la frase che hai riportato).
    Mi ha fatto riflettere molto quest’altra considerazione: «Più in dettaglio, penso che le mie origini affondino in quella che definirei la scuola meridionale dell'architettura: quella fatta di notte e con mezzi di fortuna».
    Quest’Italia bislacca ha un suo ‘forte’ carattere che spesso con toni ‘definitivi’ licenziamo in fretta.
    Un caro saluto,
    Salvatore D‘Agostino

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  4. Hassan,
    copio e incollo questa breve intervista fatta all’architetto giapponese Junko Kirimoto che vive e lavora in Italia:
    Quando nasce in Giappone l'architettura antisismica, e quando vengono normate ad hoc le tecniche di costruzione e di messa in sicurezza?

    Da quando nel 1923 un violento terremoto distrusse quasi tutti i palazzi di Tokyo, che all'epoca erano costruiti in legno, tranne l'Imperial Hotel realizzato da Frank Lloyd Wright con una struttura rinforzata da getti di cemento armato. Allora si cominciarono a cambiare le norme sui parametri di edilizia.

    Cosa impone questa legge?
    Alla base di ogni edificio, sia quelli di nuova costruzione che quelli già esistenti e perfino negli edifici antichi o nei templi, si inseriscono piattaforme semoventi di cemento armato che poggiano su un sistema di molle che attenua l'onda sismica. Dal 1923, tutte le strutture portanti devono essere in cemento armato o in acciaio, in modo da garantire la maggiore flessibilità possibile, e anche le dimensioni della costruzione devono rispettare dei precisi rapporti in modo da abbassare il baricentro. Si tende poi a usare materiali poco pesanti soprattutto nelle parti alte dell'edificio. E naturalmente viene attentamente analizzata la morfologia e la tenuta del terreno sottostante. Non possono essere toccati solo gli edifici che fanno parte del patrimonio sotto tutela nazionale o dell'Unesco; tutti gli altri sono stati messi comunque in sicurezza.

    Abbiamo visto infatti le immagini del Parlamento riunito dove si muovevano solo i grandi lampadari.
    Sì, e pensi che si tratta di una costruzione del 1936.

    Quali altre forme di prevenzione antisismica sono previste nell'ordinamento del Paese?

    Ogni primo settembre, anniversario del grande terremoto di Tokyo del 1923, c'è una grande esercitazione generale nelle scuole. Ogni quartiere ha una piazza o un parco che vengono indicati come punto di raccolta. La cultura della prevenzione è molto forte: anche ai turisti, ai lavoratori immigrati o a chiunque si trasferisca anche per breve tempo in Giappone vengono spiegate le regole di comportamento da tenere in caso di sisma.

    C'è un sistema di allerta precoce?
    Sì, il centro nazionale terremoti, nel caso di uno sciame sismico o di un evidente rischio, avverte con tutti i media a disposizione e perfino con altoparlanti la popolazione.

    Secondo lei sarebbe possibile applicare le stesse norme anche in Italia, con il suo esteso patrimonio architettonico storico e artistico?

    Assolutamente sì, ogni edificio nuovo o antico può diventare antisismico. Certo, è un lavoro costoso ma soprattutto c'è bisogno di una certa rapidità, cosa che in Italia sembra impossibile. In Giappone, nel giro di pochi anni ogni edificio è stato messo in sicurezza. Se per ristrutturare con modalità antisismica un edificio ci si mette una vita, non ci si può stupire se poi nel frattempo avvengono delle tragedie. È una questione di priorità e di volontà politica.
    Eleonora Martini, Intervista a Junko Kirimoto, Il manifesto, 12 marzo 2011
    Link: http://www.ilmanifesto.it/archivi/fuoripagina/anno/2011/mese/03/articolo/4297/

    Direi no comment.

    Saluti,
    Salvatore D‘Agostino

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