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17 gennaio 2011

0013 [A-B USO] La città latente di Federico Zanfi

di Salvatore D'Agostino

«AB: nella sua accezione latina: "indica il luogo o la persona da cui si proviene o ci si allontana o ci si differenzia".
USO: Usare, utilizzare, impiegare, adoperare e così via.

A-B USO indaga l'utilizzo di A che si trasforma in B

Delle sfaccettature di A che si trasforma in B ne ho parlato con Federico Zanfi autore del libro 'Città latenti'. Una riflessione laica sull’edilizia spontanea per ripensare le città sfrangiate.

Quest'intervista va integrata con le note di descrizione di alcune città curate da diversi fotografi: Salvatore Gozzo | Comiso, Claudio Sabatino | Sarno, Stefano Graziani | Marina di Acate e Alessandro Lanzetta | Ardea

   Salvatore D'Agostino «Improvvisi ed eccezionali accadimenti hanno scosso il paese tra il luglio e novembre: la frana di Agrigento, l’allagamento di Firenze e Venezia, le frane e le alluvioni nell'alto e basso Veneto.
Alla radice di ognuno di essi sta, per certo, il cattivo uso del suolo, sotto forma sia di continuo ed insensato disfacimento di antichi equilibrati ecosistemi naturali, sia di violento e pervicace sfruttamento intensivo del suolo a scopi edificatori». 1
Questo è l’inizio dell’editoriale dell'urbanista Giovanni Astengo scritto per la rivista Urbanistica numero 48 nel dicembre 1966.

La copertina di quel numero non offriva scappatoie ideologiche. Era listata a lutto. Celebrava la morte del territorio italiano.



   Federico Zanfi È evidente che tutti quei temi sono ancora più che attuali. La frana di Agrigento è stata forse la prima, sicuramente la più nota, vicenda in cui una porzione di territorio carente di manutenzione e fragilizzata da uno sfruttamento edilizio eccessivo, cede. Negli ultimi decenni la cronaca del Mezzogiorno è stata segnata da troppe vicende simili per poterle ormai contare, Giampilieri resterà solo per poco tempo l'ultima di questa serie. In realtà questi fenomeni si danno in tutto il paese, le statistiche riportano dati impressionanti sul numero di eventi franosi che ogni anno si registrano in Italia e sulla quantità di territorio danneggiato da questi fenomeni. Le frane si danno al Nord come al Sud per una diffusa incuria verso il suolo, ma nel Mezzogiorno questi eventi intercettano un altro fatto, legato all'argomento di questa conversazione. Si trasformano in tragedia, più spesso che altrove, perché le colate di fango travolgono case che non dovrebbero stare dove sono, come a Sarno. L'abusivismo in questo senso non è la causa del dissesto, o comunque ne è una concausa, ma fà si che il dissesto diventi più probabilmente una tragedia. Questi eventi funzionano come delle spie, per qualche giorno portano in televisione e in prima pagina sui giornali un paesaggio in cui l'abusivismo edilizio è stata la la modalità esclusiva o comunque una delle modalità prevalenti di costruzione del territorio, ma che nel dibattito pubblico non è mai stato molto rappresentato. Il dibattito più recente lo si è giocato su Punta Perotti e su poche decine di ecomostri che hanno avuto una sovraesposizione mediatica impressionante, e che hanno distolto l'attenzione dal vero problema. Intendo dire il vero problema dal punto di vista quantitativo. Quando avviene una tragedia come a Sarno o a Giampilieri si apre invece una finestra di attenzione su di un paesaggio fragile, a rischio e intensamente abitato - gli ecomostri invece sempre sono tutti vuoti - che però si richiude poco dopo. Ce ne si dimentica. E invece dovrebbe iniziare proprio da queste finestre su questo paesaggio critico la ricostruzione di una immagine aggiornata dell'abusivismo edilizio nel nostro paese.

   Apriamo le finestre sul nostro territorio e osserviamo ciò che avviene dietro la semplificazione delle parole 'ecomostro' e 'abusivismo'. Perché un vasto ceto di italiani preferisce aggirare la legge e costruire illegalmente? 

   Io credo si possa dire che la battaglia mediatica contro gli ecomostri, condotta dalle associazioni ambientaliste, abbia avuto un effetto positivo e uno negativo. Da un lato ha sensibilizzato vasti strati dell'opinione pubblica verso la questione del paesaggio come bene comune. Pensa, ad esempio, a Bari e alle migliaia di persone che erano sul lungomare per assistere e partecipare alla demolizione dei fabbricati Matarrese a Punta Perotti. Dall'altro lato ha favorito un malinteso, ha portato a pensare che il problema fosse quello, cioè poche decine di grandi edifici mai finiti, tutti vuoti, in paesaggi bellissimi, che certamente sono uno scempio, ma sono un'inezia se confrontati con la questione ambientale e sociale che è posta da milioni di alloggi extranorma che fanno il tessuto abitato comune di buona parte del Mezzogiorno (c'è un libro recente di Paolo Berdini2 che tenta di ricostruire delle stime, peraltro mai ufficialmente fornite dal Ministero dei Lavori Pubblici, sulla quantità di alloggi complessivamente sanata attraverso i condoni, che sono inquietanti). Dietro all'immagine bidimensionale dell'ecomostro c'è nei fatti un paese che si trasforma diffusamente e in modo anomalo, e spesso produce delle situazioni precarie e a rischio, come quella città impressionante che si vede sulle pendici del Vesuvio. Città di cui ci accorgiamo solo quando capitano fatti come a Sarno o Giampilieri.
Ora, perché si costruisce così. L'abusivismo è stata una prassi consolidata negli ultimi decenni perché è stato sempre conveniente, e perché c'è stata un'implicita politica che lo ha consentito. L'abusivismo conviene ad uno stato inefficiente, che non predispone i piani di edilizia economica e popolare tempestivamente, e lascia sfogare in quei processi di autopromozione/autocostruzione delle tensioni che altrimenti si ritroverebbe magari organizzate, in piazza. L'abusivismo conviene ad una politica locale clientelare, che consente e implicitamente controlla e ricatta. L'abusivismo conviene alla famiglia media italiana, alla famiglia-impresa, perché risparmia sui costi, perché fa la casa incrementalmente, quando ha le risorse, dove vuole e come vuole. Ci sono tante letture lucidissime su tutto questo, già dagli anni settanta, non credo serva ripetere queste cose. Il fatto è che adesso tutte queste convenienze cominciano a non essere più tali. Primo, tra stato e Regioni i ruoli, in merito al governo del territorio, sono parecchio cambiati con la riforma del titolo V della Costituzione, e te ne puoi accorgere se pensi ai contrasti fortissimi che ci sono stati tra molti governatori regionali e il ministro dell'economia in occasione dell'ultimo condono. Secondo, i Comuni non riescono a riqualificare le zone abusive, non hanno soldi, e queste zone restano veramente poverissime di infrastrutture e servizi ancora a 20/30 anni dalla loro nascita. Terzo, le famiglie sono cambiate, oggi quella casa di famiglia abusiva, da completare, per un ragazzo con qualche ambizione e una cultura contemporanea è una risorsa o una condanna regressiva? Tutte queste cosa intrecciate stanno cambiando le convenienze a tutti i livelli, e io credo che lo scenario presto sarà diverso.

   Costruire edifici extra norma in Italia non è un ‘fenomeno’ circostanziato. Qualsiasi città ha delle dinamiche latenti.
Dinamiche che non possono essere più osservate con le categorie critiche e i parametri urbanistici vigenti.
Tu auspichi uno sguardo laico per non perseverare con gli interventi generici – spesso nefasti - dettati dall’emergenza o dai condoni.
«La costruzione scriteriata senza rispettare la natura – dice Pietro De Paola presidente del Consiglio dell’Ordine dei geologi - ha dissestato il territorio rendendolo fragile e pericoloso. In realtà, si guarda spesso ai grandi centri urbani, ma è nei piccoli che si verificano gli scempi peggiori. Se si gira per i Comuni con meno abitanti non si ravvede una parvenza di pianificazione, e spesso vengono ignorate le mappature delle aree a rischio. Tutto questo ha reso difficile se non impossibile la gestione delle zone di pericolo, che si sono moltiplicate sul territorio».
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   Osservare laicamente significa analizzare la complessità delle città, evitando le categorie delle analisi precostituite.
Poiché, come affermi, «se riflettiamo su come questa città costituisca probabilmente il più vasto progetto collettivo mai realizzato nel nostro paese, un luogo del quale, la scarsità dei riferimenti disciplinari lo sottolinea, conosciamo piuttosto poco. Un habitat democratico dalla cui costruzione l’architettura e l’urbanistica sono state progressivamente emarginate – smentite nelle loro previsioni – e che oggi continua inspiegabilmente a non ricevere la loro attenzione»
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   Quali criteri suggerisci per analizzare e intervenire in questi tessuti collettivi condivisi e costruiti – per paradosso - democraticamente?

   Si possono dire due cose, una su come si guarda, e una come si interviene.
 
La prima è che lo sguardo attraverso cui si è osservata la città abusiva, e questo vale soprattutto per gli urbanisti, è sempre stato condizionato da alcuni pregiudizi che hanno impedito di vedere le cose per quelle che erano. Le lenti dell'illegalità e della speculazione attraverso cui si è sempre guardato hanno in un certo senso schiacciato le differenze, impedendo poi ai progetti di fare presa sui contesti locali. Oggi per tornare a guardare questi luoghi dobbiamo invece cercare di fare emergere le differenze, perché edifici abbastanza simili hanno originato tessuti molto diversi a seconda della condizione insediativa. Litorali e campagne urbanizzate, quartieri urbani, insediamenti di fondovalle, sono connotati da problemi specifici in cui le opportunità di ripensamento sono strettamente legate a queste differenze locali, a queste risorse latenti che un certo suolo, un certo ecosistema, una certa condizione insediativa possono consentire. Voglio essere chiaro, questo tipo di sguardo non è assolutorio, il giudizio verso queste forme di urbanizzazione rapaci deve comunque restare durissimo, ma le cose vanno guardate per quello che sono da vicino, senza tesi pregiudiziali da dimostrare a ogni costo. Solo così possiamo accorgerci di quei 'dettagli' locali che sono una risorsa, su cui fare leva per un progetto di trasformazione realistico.

La seconda cosa è che per essere efficaci in questi contesti è necessario riattivare una nuova forma di mobilitazione individualistica, che sia esplicita e virtuosa. Questo potrà anche sembrare eretico, ma noi possiamo disegnare tutte le migliori ipotesi di intervento, ma se non riusciamo a mobilitare una massa critica di famiglie che in quelle case sempre più invendibili hanno immobilizzato parti consistenti dei loro risparmi, il nostro progetto resterà marginale. In questo senso un progetto per l'abusivismo oggi deve trovare il modo per svolgersi dentro ad alcune delle dinamiche e dei processi di trasformazione che in qualche misura già si danno nei territori, e che possiamo riconoscere come linee strategiche, da inseguire e indirizzare. Città latenti cerca di sintetizzare tre solchi di lavoro, che stanno a ridosso dei processi emergenti di responsabilizzazione, di aggiustamento infrastrutturale spontaneo, e di sottoutilizzo e abbandono che si danno oggi nella città abusiva. Diventa cruciale riuscire a interpretare queste tendenze in strategie di progetto, se vuoi anche 'forzando' un pò la realtà, e trovare delle leve e delle forme di incentivo che facciano muovere i soggetti che oggi abitano questa città verso degli obiettivi condivisi e sostenibili dal punto ambientale e finanziario.

Serve superare tre equivoci di base:
1. qualsiasi condono su scala nazionale lascia irrisolto il rapporto tra lo spazio civico - considerato non-città - e i suoi abitanti;
2. gli spazi abusivi – etichettati come anti-città – hanno un’identità urbana;
3. i brani di città abusiva non sono città fantasma.


   Sono tre questioni complicate, a cui provo a a risponderti per punti, forse semplificando.
 
1. Il Condono, per come lo si è attuato fino ad ora, alla scala nazionale, lascia irrisolto il problema di quello che tu chiami 'spazio civico' della città abusiva sotto due aspetti.
In primo luogo, dal momento in cui il singolo proprietario abusivo aderisce alla procedura di sanatoria, quel soggetto ha tutte le ragioni per reclamare le infrastrutture, e per ritenere che la responsabilità dello spazio al di fuori del suo recinto privato non sia sua, ma sia del soggetto pubblico che ha predisposto il meccanismo del Condono. Soggetto che dovrebbe intervenire a riqualificare quelle terre di nessuno attraverso un Piano di Recupero. È un procedimento che deresponsabilizza il singolo, che lo disincentiva alla cura verso quello spazio esterno, che lascia la questione dello spazio residuo tra i recinti al di fuori della sua responsabilità.
In secondo luogo, ed è la questione più nota ed evidente, il Condono lascia irrisolta in modo permanente la questione del recupero urbanistico perché non ci sono le risorse per affrontarlo secondo le modalità previste dalla legge. Le risorse non ci sono mai state a dire il vero: si registra un disavanzo enorme tra il gettito della sanatoria e le spese di urbanizzazione effettuate a posteriori sin dal primo condono, nella seconda metà degli anni Ottanta. Il Condono è un affare solo per il Governo che lo promuove, ma l'attuazione dei Piani di Recupero Urbanistico, a spese degli Enti Locali (che incassano dai proventi del condono solo la parte degli Oneri di Urbanizzazione non corrisposti al momento dell'edificazione abusiva), si traduce in un esborso insostenibile. Fare le infrastrutture (quelle infrastrutture tradizionali, reticolari e rigide) dentro ad una città che non solo c'è già, ma che spesso è cresciuta in modo disordinato, è un'impresa inaffrontabile per la maggior parte dei Comuni, non solo nel Mezzogiorno. Il risultato è che il recupero non si fa, o si fa in quote modestissime, per cui a distanza di decenni questi luoghi scontano una povertà impressionante del loro spazio aperto.

2 e 3. La mia opinione su questo punto è che in queste parti di città ancora risiedano energie non ancora esaurite, e qualità non ancora cancellate. I loro processi generativi molecolari e incompiuti, poi, sono una risorsa e una specificità che distingue questo tipo di urbanizzazione dal suburbio più "generico" che ha dilagato negli ultimi decenni in tutto il mondo occidentale. Ci sono insomma delle possibilità, se uno le sa vedere, delle risorse da riattivare, che oggi sono latenti. Questa non vuole essere in nessun modo una lettura assolutoria o indulgente verso l'abusivismo, sia chiaro. È una lettura che contiene un progetto, che assume quelle case e quei territori come luoghi dove risiedono delle possibilità, da mettere alla prova con un progetto. È anche una risposta a quelle posizioni, che io ritengo troppo semplicistiche, che liquidano la città abusiva come una forma degenere, da cancellare ovunque.
Pensa che 'città fantasma' è il titolo che l'editore in prima battuta mi aveva proposto. Ma non ci eravamo capiti, il libro vuole proprio fare capire che non c'è nessun fantasma, non c'è più nulla di invisibile: questi luoghi sono l'orizzonte quotidiano dei nostri paesaggi. Qual è la quota dalla città meridionale che si è costruita attraverso l'abusivismo? Possiamo dire che sia un fantasma, o che sia invisibile? Diciamo piuttosto che ci sono delle situazioni locali molto specifiche, che vanno guardate, interpretate e progettate per quello che sono, senza pregiudizi né etichette generali. Fantasmi potranno diventare se non si fa nulla, se si lascia che le energie svaniscano e che questi paesaggi seguano una deriva verso una progressiva marginalizzazione. Come già molte storie e molti luoghi ci raccontano, alcune storie anche raccolte nel libro.

Nel libro suggerisci tre linee guide per la progettazione delle città latenti. Quali sono?
 
Se a livello di cultura disciplinare e cultura amministrativa riusciremo a superare i tre equivoci di cui abbiamo parlato, allora potremo pensare ad un diverso progetto e a una diversa politica pubblica per la città abusiva. Città latenti si sforza di definire tre tracce di lavoro, che si possono intendere come le tre strategie di una possibile e rinnovata politica per queste forme di città. Sono tre discorsi progettuali, che stanno a ridosso di tre tendenze già rintracciabili nelle pratiche, e che intendono intensificare queste predisposizioni. Intendono utilizzare le energie disponibili e gli andamenti già spontaneamente assunti dai territori come risorse da indirizzare verso esiti condivisi e sostenibili.

La prima visione progettuale è quella di una città abusiva che diventa città, anche e soprattutto nell'immaginario collettivo, grazie ad una responsabilizzazione progressiva di chi la abita e ad una rigenerazione dei propri beni comuni che non passa più attraverso un meccanismo paternalistico e difettoso come il Condono, ma attraverso dei programmi di riqualificazione partecipati. È già una tendenza che si riscontra dove la percezione del fallimento dell'azione individuale da parte degli abitanti sta facendo maturare un senso di responsabilità e alcune azioni comuni tese alla costruzione di una dimensione collettiva che non è mai esistita, ma che oggi è più che necessaria. L'esperienza dei Consorzi di Autorecupero e dei Toponimi avviata dal Comune di Roma è un buon esempio in tal senso.

La seconda visione riguarda una città abusiva che si aggiusta molecolarmente, che si migliora grazie ad un sistema diffuso di componentistica tecnologica e ambientale che si attua sugli edifici ma soprattutto nello spazio vuoto tra le case, lo spazio più abbandonato e trascurato. Una nuova generazione di infrastrutture, di promozione privata e consortile, che recupera il deficit infrastrutturale che questi territori scontano abbandonando un'insostenibile idea di rete pubblica, rigida e capillare, che raggiunge ogni casa, e mettendo al lavoro nuovi dispositivi ecologici ed energetici. Una strategia, in estrema sintesi, che considera una città in cui ci sono le case, ma non le reti tecnologiche e sanitarie, come un potenziale laboratorio per la sperimentazione di infrastrutture non pubbliche, non gerarchiche, non rigide, a valle dei fallimenti delle stagioni del "Recupero urbanistico" dei decenni passati. Tutto questo ha bisogno di un consapevole inquadramento istituzionale e di una politica di incentivi a livello locale, come il Salento ha tentato di fare col suo PTCP.

Infine, l'ultima visione è quella di una città abusiva che si dissolve nel paesaggio, che viene cancellata nei suoi segmenti più squalificati e sottoutilizzati grazie ad un sistema che articola nuove tecniche e incentivi, approfittando dei processi di dismissione che iniziano a manifestarsi diffusamente. Si tratta di saper cogliere l'occasione che offrono questi processi di abbandono e indirizzarli progettualmente, consapevoli che la rimozione di questa città non potrà avvenire mostrando i muscoli come le rare, spesso fallimentari demolizioni hanno tentato di fare, ma piuttosto interpretando come i diritti acquisiti - quando queste case sono già condonate ed è un caso frequente - possano essere fatti migrare, spostati verso zone di concentrazione e di riqualificazione, liberando dall'edificato più incongruo, abbandonato e scaduto porzioni di suolo da riconsegnare alla natura e ai suoi processi.

Sono tre visioni consapevolmente semplificate, che cercano di puntualizzare e distinguere, anche se sul territorio spesso i processi si danno intrecciati, in compresenza. In tal senso io credo che non sia pensabile di agire solo su un aspetto dei tre che ho elencato: una politica efficace - che io mi immagino costruita a livello regionale e provinciale, poiché il livello nazionale e il livello municipale sono rispettivamente troppo lontani e troppo vicini per potere trattare i caratteri specifici queste formazioni di carattere sovracomunale - dovrà includerli tutti e tre, e cercare di rispondere attraverso una combinazione di queste tre traiettorie di trasformazione al bisogno di progetto che la città abusiva oggi esprime.
 

17 gennaio 2011 (Ultima modifica 28 ottobre 2013)
Intersezioni ---> A-B USO

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Note:
1 Giovanni Astengo, dopo il 19 luglio, Urbanistica n. 48, dicembre 1966
2 Paolo Berdini, Breve storia dell'abuso edilizio in Italia, Donzelli, 2010 Link
3 Daniele Autieri, Geologi, professionisti in trincea per far fronte a un paese dissestato, La Repubblica, 11 ottobre 2010 Link

4 Federico Zanfi, Città latenti, Bruno Mondadori, Milano, 2008, p. 67

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