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15 ottobre 2009

0070 [OLTRE IL SENSO DEL LUOGO] Petra Dura, Architettura e contorni

Salvatore D’Agostino:
  • Qual è l’architetto noto che apprezzate e perché?
  • Qual è l’architetto non noto che apprezzate e perché?
Qui l’articolo introduttivo


Il blog collettivo Petra Dura, Architettura e co
ntorni ha deciso di rispondere attraverso una discussione sulla loro pagina di facebook. Trovate la pagina qui.


Post n. 1
Carmelo Cesare Schillagi (Università di Catania) ha scritto il 16 luglio 2009 alle 8.46

Ok Ragazzi... nuova sfida: dobbiamo provare a dare una risposta alle seguenti domande, in maniera collettiva come ci è stato richiesto:

Qual è l’architetto noto, ancora in attività, che apprezzi e perché?
Qual è l’architetto non noto che apprezzi e perché?

Considerato che al momento ci troviamo ai quattro angoli della Sicilia è impensabile tentare di organizzare la solita e vecchia tavola rotonda. Utilizzeremo faccialibro o almeno ci proveremo... Apro questa discussione e chiunque è autorizzato a rispondere, quotare o criticare le scelte degli altri. Ok?


Post n. 2
Carmelo Cesare Schillagi (Università di Catania) ha scritto il 16 luglio 2009 alle 11.48

Comincio io.

Ho un film preferito (Tutto su mia madre di Pedro Almodovar).
Ho una canzone preferita (The Sproud and the Bean di Joanna Newsom).
Ho un libro preferito (Tuttalpiù muoio di Filippo Timi).

Stavo proprio riflettendo sul fatto che mi manca un Architetto preferito e che avevo evitato questa nomina perché la ritengo una scelta pericolosa. Quando ci si espone in maniera così forte nei confronti di qualcuno si rischia di rimanervi legati per il resto della propria vita. Così è successo con il film, la canzone, il libro preferito. E' difficile dire "ti amo" a un architetto e poi evitare qualsiasi coinvolgimento sentimentale in futuro.

Potrei dare la risposta politicamente corretta, intellettualmente scorretta, che ho parecchie preferenze, ma a questo punto preferirei essere folgorato dalla batteria dell'asus e finire dritto dritto nel girone degli ignavi.

Frank O. Gehry! Ok, l'ho detto, ci sono riuscito.
Scusate la reticenza, ma ho paura a pronunciare il suo nome in pubblico. Ogni volta c’è qualcuno che si sente in diritto di rimproverarmi, di farmi notare che quello è tutto meno che un architetto. E a me tocca sempre fare l’avvocato difensore del buon vecchio Gehry, forse per noia, forse per incoscienza, chissà. Così come un mio amico difendeva Melissa P. dall’accusa di essere una troia a me toccava l’ingrato compito di difendere chi, secondo molti, è un’Architroia.

Ricordo l’esame di Storia dell’Architettura II con il famigerato professore Vincenzo Milone, ultima domanda, la domanda che valeva la lode. Argomento: autori contemporanei, dovevo scegliere qualcuno che reputavo interessante. Ricordavo che Zevi terminava il suo “Storia dell’architettura moderna” proprio tessendo le lodi di Frank, riconoscendo nelle sue opere un ottimo punto di rottura con il passato. Questo era tutto ciò che sapevo e questo fu tutto ciò che dissi al professore. Quando mi chiese il perché, lo fissai silenzioso leggendo nei suoi occhi la lode che volava verso altri libretti. E va bene così. Mi aspettavo, tuttavia, che qualche santo professore, dopo quella sciagurata uscita, mi spiegasse chi fosse Ghery. Il mondo accademico, invece, non spese neanche mezza parola su di lui e stessa sorte capitò a tutte quelle Celebrities macchiate dell’infamante nomina di Archistar prima fra tutte la bella (mica tanto) Zaha Hadid. Intanto i due famosissimi continuavano a riempire le tavole, i riferimenti e le bibliografie di un’intera generazione di ignari ingegneri-architetti.
E così, abbandonato e disprezzato da tutti, riuscì a conquistare un posto nel mio personalissimo Pantheon, così come i cuccioli dei cani, i bastardini, ti conquistano per il semplice fatto di essere soli e disgraziati. In seguito appresi che Gehry, tutto era meno che solo e disgraziato.

Nel giustificare il mio apprezzamento per Gehry potrei anche prescindere dalla fisicità delle architetture, soprattutto in ordine ai risultati di prim’ordine conseguiti in quello che è il calderone del decostruttivismo: mi basta pensare che Bilbao oggi “esiste” solo in funzione del suo museo e se questo sia bello, brutto, dritto, storto a me pare solo un dettaglio insignificante. Alcune opere raggiungono risultati talmente alti in determinati campi da poter, a buona ragione, trascurare qualsiasi altro aspetto. Chi si sognerebbe di rimproverare Frank Lloyd Wright per i problemi strutturali di Fallingwater?!

Gehry ha dovuto fare i conti con problematiche con cui spesso gli architetti non vogliono sporcarsi le mani. Sembra un reato parlare di spettacolarizzazione, di architettura protagonista, di opere affascinanti. Sembra un reato anche progettare con fogli di carta appallottolati (non è una leggenda metropolitana, basta vedere il film a lui dedicato da Sydney Pollack) come se tutti gli altri progettisti, invece, si mettano a sospirare frasi d’amore sotto un albero di melo aspettando che l’idea gli cada giusto sopra la zucca come Newton. Sembra che Gehry sia nato per essere criticato. A me piace per questo.


Trailer film : Frank Gehry: Creatore Di Sogni (Sketches of Frank Gehry)
Regia: Syndney Pollack (2007)


Post n. 3
Maria Luisa Valenti ha scritto il 27 luglio 2009 alle 9.03

In realtà penso anch'io che pronunciare il fatidico "si" sia compromettente tra l’altro non c’ho mai pensato, forse è anche stupido perché penso che chi riesce a sradicare dogmi, sconvolgere le vite ed diventare immortale, lo fa nel momento in cui rielabora tutte le informazioni indirizzato dalle esigenze del contesto ambientale e indubbiamente epocale e non indipendentemente da questi.
Bene, con i mezzi che abbiamo al giorno d'oggi si riesce ad essere davvero incisivi ma quante opere indiscutibilmente tecnologiche riescono poi a diventare parte integrante dei luoghi ed entrare nel cuore di chi ne fruisce?
Alvar Aalto è stato uno dei primi che si è posto quest'interrogativo, e seppur non sia più in attività (a meno che non lo sia in un altro mondo), è per me un maestro da cui ho compreso che non si diventa grandi per aver realizzato il più alto grattacielo del mondo ma semplicemente donando un ambiente allegro o austero, ampio o angusto, freddo o caldo, chiudendo gli occhi e pensando a cosa vorrei io se dovessi vivere, lavorare o intrattenermi in quel luogo.
Poi se devo pronunciare il nome di un architetto in attività direi Santiago Calatrava, perché il movimento che c’è nelle sue opere fa parte di noi e non vedere mai quell’opera in maniere analoga ad un attimo prima ti fa riscoprire quel luogo ogni volta.
Architetti non noti? In fondo la questione notorietà è relativa, il mio architetto preferito sarà noto per me ma non per gli altri. Ci penserò…


Post n. 4
Carmelo Cesare Schillagi (Università di Catania) ha scritto il 27 luglio 2009 alle 10.24
per Maria Luisa.

Ricordi di avermi scritto che queste due domande ti sembravano “semplici”?! A poco a poco cominciano a disvelare un intrinseca complessità di fondo. Si parte dal presupposto che tutti noi conosciamo o abbiamo visitato gli edifici dei nostri beniamini. Non è così. Tu, ad esempio, hai scelto come architetto preferito un signore di cui non hai mai visto nulla dal vivo. Niente da rimproverare, immagino sia una cosa comune tra noi studenti, però un dubbio nasce spontaneo: quella maledetta “
Architecture Beyond Building” sembra più una descrizione dello stato dell’arte che un nuovo e avveniristico campo di ricerca. Non dovremmo chiederci se possiamo fare a meno ”dell’edificio”, perché nei fatti lo ignoriamo da anni. Che ne pensi?


Post n. 5
Maria Luisa Valenti ha scritto il 28 luglio 2009 alle 14.04

Sono d'accordo sul fatto che non si conosce mai davvero un'opera se non la si visita, ma affermare questo significa sostenere che neanche il più grande viaggiatore potrà mai avere il bagaglio necessario per decretare in maniera assoluta il proprio architetto preferito, non sarai mai certo che è "quello giusto" finché non avrai visto tutto, ma proprio tutto, anche la più piccola capanna sul ciglio della montagna più alta realizzata in chissà quale anno da chissà chi in quanto anche questo anonimo architetto potrebbe essere il tuo favorito! Tu, ad esempio, hai scelto Gehry ma come puoi essere così certo della tua scelta avendo visto ben poco del mondo e neanche tutte le opere (forse neanche quelle più rilevanti) del tuo architetto preferito? Dunque se bisogna scegliere, lo si fa utilizzando le poche emozioni che fotografie, parole di viaggiatori e recensori, viaggi (per i più fortunati) e spesso la propria fantasia hanno saputo trasmetterti.


Post n. 6
Carmelo Cesare Schillagi (Università di Catania) ha scritto il 29 luglio 2009 alle 12.58


Principio di indeterminazione di Heisenberg:
«non è possibile conoscere simultaneamente la quantità di moto e la posizione di una particella con certezza».
Gehry non è il preferito, è quello che ha la massima probabilità di essere il preferito.



Post n. 7
Maria Luisa Valenti ha scritto il 29 luglio 2009 alle 23.52

Nomini il principio di indeterminazione di Heisenberg, dunque devo supporre che alla base delle tue scelte vi siano ferree formule matematiche e studi approfonditi per il calcolo dell'errore che potresti commettere...tu pensi di essere, a 24 anni, così saturo di conoscenza da essere arrivato alla massima probabilità di scelta?
Per quanto mi riguarda mi limito solo a dire che tra tutte le opere che ho incontrato fin'ora quelle di Calatrava sono state le più entusiasmanti, tuttavia il viaggio è ancora lungo ed è lecito cambiare opinione qualora succeda.



Post n. 8
Carmelo Cesare Schillagi (Università di Catania) ha scritto il 30 luglio 2009 alle 4.37

beh... forse quel principio va letto diversamente: per quanto tu possa sbattere la testa non potrai mai parlare di certezze, ma solo di possibilità. Al momento è così: vince Gehry. Domani chissà...
Credo che siamo giunti alla stessa conclusione, ovvero ci fidiamo di quello che abbiamo per le mani senza precludere alcuna strada futura (almeno per la nomina del preferito).
Tuttavia la domanda rimane: noi studenti, futuri architetti, possiamo veramente prescindere dall' "Edificio" nei nostri studi?



Post n. 9
Carmelo Cesare Schillagi (Università di Catania) ha scritto il 30 luglio 2009 alle 13.36

Faccio un passo avanti... rispondo alla domanda sull'architetto meno noto.
Ho scelto un gruppo, gli Alles Wird Gut (letteralmente "tutto è buono") costituito da italo-austriaci (più austriaci che italici).
http://www.alleswirdgut.cc/awg.php?go=team
Il gruppetto è giovane quindi non mi pongo neanche il problema se io abbia mai visitato o meno le loro opere e mi lancio in uno sfrenato e volgare: mi piacciono! Mi rassicurano i loro edifici "già visti", rivisitazioni dell'attuale panorama-immaginario architettonico ponderato con ironia e sfrontatezza (quel tanto che basta in realtà).
Significativo il progetto per la ruota da criceto a scala umana "turn on". Si tratta di un modulo rotante che assume diverse configurazioni d'utilizzo con ogni rotazione, praticamente un intera abitazione in soli 14 metri lineari. Mi sembra un buon punto di partenza dopo la scatola, la scatola pura, la scatola scomposta, la scatola decostruita.
http://petra-dura.blogspot.com/2008/04/architetti-emergenti-gruppo-awg.html
E poi c'è il nostrano Mario Cucinella. Non spendo neanche una parola in merito, perchè credo si sappia vendere fin troppo bene (per me, è un altro punto a suo favore)


Post n. 10
Serena Russo (Italy) ha scritto il 22 agosto 2009 alle 7.08

Qual è l'architetto che apprezzi?
Si, avete ragione, probabilmente è la prima domanda che un neofita ti farebbe sapendo che ti occupi di architettura, ma nel mondo universitario in molti hanno provato a convincerci dell'inadeguatezza in questo contesto del fatidico "MI PIACE-NON MI PIACE".

In realtà la domanda non è affatto superficiale, ma porta con se una serie di considerazioni su cosa per noi è Architettura, sul suo ruolo, sul secolare dibattito tra arte e tecnica.
Superato il tabù pregresso ho scoperto che dentro di me un nome ha sempre primeggiato sugli altri, non per il solo fascino delle sue opere, ma per una incredibile serie di "sincronicità" con il mio modo di essere...
Vado con il nome: SANTIAGO CALATRAVA... non restate delusi se questo nome lo ha già fatto Maria Luisa! Per spiegarvi il perchè della mia scelta parto da un aneddoto.
Da piccola, diversamente dalla maggior parte dei bambini, non ho mai saputo cosa avrei fatto da grande. Sfortunatamente non lo sapevo ancora neanche all'epoca della maturità, quando la scelta della strada da seguire si faceva pressante. Sapevo solo cosa mi piaceva e tragicamente dentro di me battagliavano due diverse vocazioni: l'amore per l'arte, il disegno, radicato nella mia parte emozionale, e l'altrettanto forte passione per i numeri, il calcolo, i teoremi -credetemi, non sono pazza!!!-, insita nel mio lato razionale.

Alla disperata ricerca di una facoltà che mi soddisfacesse ed appassionasse mi imbattei in quella che sembrava la salvezza: INGEGNERIA EDILE-ARCHITETTURA, perfetto connubio tra le mie due anime che potevano così trovare pace ed imparare a lavorare sinergicamente.

Questa stessa essenza duale, e pertanto fortemente connotante, è quella che fa di Calatrava il mio"prescelto".

Il suo essere ING-ARCH. non è un mero titolo accademico, ma si palesa in ogni sua opera, laddove il calcolo plasma la materia e le dà forma e la forma raffina e indirizza il calcolo verso il naturale principio del minimo sforzo. L'assecondare le leggi della fisica dà slancio, vigore, tensione alle sue architetture, trasformandole in pose plastiche e vibranti. Nulla è casuale, ogni segno architettonico, all'apparenza gestuale, rivela la complessità che caratterizza il singolo elemento della natura.


Post n. 11
Serena Russo (Italy) ha scritto il 22 agosto 2009 alle 7.44

Proseguo con i non noti... mi capita spesso di rintracciare progetti interessanti sfogliando qualche rivista o navigando... ma è pur vero che tra il bombardamento mediatico e l'assoluto dominio delle archistar è difficile farsi strada e non finire nel dimenticatoio.
Tra tutti faccio un nome che di recente mi è capitato più volte sott'occhio e ho trovato assolutamente degno di nota: Antòn Garcìa-Abril & Ensamble Studio.Il gruppo, ovviamente spagnolo, è composto da numerosi giovani e si propone come obiettivo primario l'essere multidisciplinare e versatile.
Apprezzabile il modo di operare in stretta relazione con il sito e con i suoi colori e materiali, la ricerca di sottili equilibri, l'essere metafisico e concettuale di ogni progetto.

Diveretente la struttura del sito internet:
http://www.ensamble.info/
ma consigliato a chi ha mano ferma e un mouse molto solido e stabile!


Post n. 12
Carmelo Cesare Schillagi (Università di Catania) ha scritto il 22 agosto 2009 alle 9.38

Non so, continuo ad avere qualche perplessità su Calatrava, non tanto sul suo operato, quanto sul modo in cui ci è stato "venduto" all'università. L'idea che egli fosse l'architetto-Ingegnere perfetto ci è stata donata come la quarta verità di Fatima e come tale l'abbiamo assimilata. Il ponte di Venezia con tutte le polemiche a seguito non hanno scalfito la sua fama di Ingegnere, così come i tre ponti di Reggio Emilia non hanno intaccato il fascino dell'architetto-artista. Ma è pur vero che certe sue opere sono già passate alla storia e questo è un dato di fatto.
Mi chiedo, se in realtà questa dualità arch-ing o ing-arch non sia solo e soltanto una forzata lettura che ci ostiniamo a fare noi studenti di ingegneria edile-architettura. Magari per il resto del mondo Calatrava è "soltanto" un architetto. Dico questo perché nel binomio su citato si legge quasi un plus valore, un plus valore fittizio nato dall'erronea convinzione che l'ingegneria (tecnica) non si trovi già dentro l'architettura (arte + tecnica).

Per chiarire faccio un esempio:
1- Maria è un'ottima donna, un'ottima madre, un'ottima lavoratrice.
2- Maria è un'ottima donna.
A mio modo di vedere essere un'ottima donna vuol dire pure saper fare la madre e saper fare carriera, quindi le frasi 1 e 2 dicono esattamente la medesima cosa. E se dico che Calatrava è un architetto, intendo che è un architetto-ingegnere come tutti gli altri (almeno da questo punto di vista).


Che ne pensate? esiste o no il binomio? o lo vediamo solo noi ing-architetti per condizione accademica? beh... almeno questo spiegherebbe perché Calatrava è così popolare da "queste" parti...



Post n. 13
Serena Russo (Italy) ha scritto il 23 agosto 2009 alle 10.22

Capisco il senso della tua considerazione, ma più che all'ambito accademico la attribuirei ad una erronea impostazione metodologica e concettuale che riguarda più in generale il nostro paese e la sua legislazione. Inutile dire che nell'immaginario collettivo ciò ha prodotto la visione romantica dell'architetto che "scarabocchia" incurante della gravità e, di contro, quella dell'ingegnere, bravo coi conti ma un po' chiuso di mente, in grado di immaginare solo maglie in calcestruzzo armato 4x4 con pilastri 30x30. In questo scenario inquietante Calatrava appare il rivoluzionario di turno, quando in realtà sappiamo che in altri paesi europei la figura dell'architetto è, come tu dici, di per sé completa, né necessita di burocratiche firme di terzi.
D'altra parte quando parlo del suo incarnare a pieno il ruolo di ing-arch mi riferisco più che altro al suo modo di portare la struttura ai massimi livelli, trasformandola in segno espressivo. Mi piace pensare che il "come l'edificio sta sù" non sia un problema da affrontare in seconda battuta, ma sin dall'inizio spunto progettuale. Non che gli altri architetti trascurino in massa il fatto strutturale, ma certamente Calatrava è tra quelli in attività colui che meglio riesce a farne un punto di forza.



Post n. 14
Carmelo Cesare Schillagi (Università di Catania) ha scritto il 23 agosto 2009 alle 15.24
Bene, bene.
Mi piacerebbe dare una conclusione a tutto questo, magari con una provocazione stile Marzullo, come “fatti una domanda e datti una risposta”.
L’interrogativo che mi pongo, che vi pongo, è:

COSA RIMPROVERIAMO AI NOSTRI BENIAMINI?

Mica è tutto rosa e fiori… no?!



Post n. 15
Carmelo Cesare Schillagi (Università di Catania) ha scritto il 23 agosto 2009 alle 15.55

Comincio sempre io.
Non so se si tratti di un pregio o un difetto, va tuttavia constatato che il mio architetto preferito, Gehry, non ha la più pallida idea di cosa sia un computer nonostante dal suo studio siano passati addirittura i software della NASA per costruire gli Space Shuttle. E la sua reticenza in materia non mi piace affatto: le sue opere vengono considerate ultra-extra-ipertecnologiche e il progettista non riesce neanche ad accendere un pc?! Capisco che possiede una squadra formidabile di ingegneri pronti ad accontentare ogni sua fantasia archi-erotica, ma non posso fare a meno di chiedermi come sarebbe andata se il processo creativo del geniale Frank, invece che su foglietti di carta spiegazzati, si fosse fondato direttamente sulla massa informe digitale.

Forse sarebbe stato un anonimo architetto contemporaneo, forse sarebbe diventato un parente stretto di Zaha Hadid. Chissà…


Post n. 16
Serena Russo (Italy) ha scritto il 24 agosto 2009 alle 13.53

In tema di critiche un epico dilemma mi appare a caratteri lampeggianti nella mente. Dilemma che investe non solo il mio Calatrava ma tutte le archistar...
AUTOREFERENZIALITA'
Peccato di vanità o marchio di eccellenza?
Solo voglia di essere riconosciuti?
Necessità di perpetuare ciò che ha decretato la propria fama per non deludere le aspettative?
O forse scarsa sensibilità per il contesto?


Certo non è possibile generalizzare, ma è pur vero che se la Hadid non fosse così inconfutabilmente riconoscibile, anche quando si mette a disegnare scarpe, probabilmente non avrebbe la fama di cui gode.

Mi chiedo se un atteggiamento simile non rischi di trasformarsi in un limite... augurandomi in realtà che i nostri prediletti ne siano del tutto consapevoli e sappiano all'occorrenza aggiustare il tiro.
Miralles li illumini dall'alto...


Post n. 17
Carmelo Cesare Schillagi (Università di Catania) ha scritto il 24 agosto 2009 alle 16.28

beh... forse a Miralles è mancato il tempo per replicare i suoi successi...
Avrebbe giocato una splendita partita contro il mio Gehry per la nomina del preferito... questo è sicuro.



Post n. 18
Carmelo Cesare Schillagi (Università di Catania) ha scritto il 24 agosto 2009 alle 16.41

oh mio dio... vi rendete conto di cosa abbiamo scritto?
Il TUO Calatrava?!
Il MIO Gehry?!

Lo sapevo che le derive ai due quesiti non si sarebbero fatte attendere... :D
Però tutto ciò si ricollega ai discorsi fatti in precedenza: ognuno vede e conosce gli architetti a proprio modo, con le proprie risorse. Esistono infiniti Gehry, infiniti Calatrava, dopotutto la critica si fonda su questo...



Post n. 19
Maria Luisa Valenti ha scritto il 25 agosto 2009 alle 10.12

Mi oppongo Vostro Onore!!! Mi riferisco all'autoreferenzialità delle opere di Calatrava: Stazione ferroviaria Stadelhafen, Zurigo, che segue l'andamento della collina dove sorge; Torre delle telecomunicazioni del Montjuic, Barcellona, che rappresenta il giavellotto delle competizioni olimpioniche e omaggia Gaudì con la base piastrellata; Milwaukee Art Museum, Wisconsin, che ricorda lo schiudersi delle ali di un gabbiano proprio sul mare; per non parlare di tutti gli studi che sono stati fatti per collocare il ponte a Venezia...insomma come gli si può dare dell'autoreferenziale?
Taccio appositamente riguardo gli altri architetti sopraenunciati in quanto non amo affatto ricoprirmi della veste di avvocato del diavolo...insomma chi tace acconsente!



Post n. 20
Carmelo Cesare Schillagi (Università di Catania) ha scritto il 25 agosto 2009 alle 16.14

già... vogliamo parlare dei tre ponti di Reggio Emilia o di tutti gli altri suoi ponti??? a parte rari casi (Alamillo e Venezia), si riconosce a volo la mano dell'ing-arch... che poi abbiano indissolubili legami con il contesto, questo è un altro discorso.



Post n. 21
Serena Russo (Italy) ha scritto il 26 agosto 2009 alle 14.35

Obiezione respinta!!! Calatrava è il mio Architetto preferito perché ogni suo progetto parte dal singolo oggetto, pieno di mille rimandi e simbolismi, per poi espandersi al suo attacco al suolo e poi ancora a ciò che sta attorno... L'autoreferenzialità sta nel suo linguaggio, infinitamente declinato ma inconfondibile.


Post n. 22
Maria Luisa Valenti ha scritto il 29 agosto 2009 alle 11.13

Penso che autoreferenzialità non sia proprio questo...si riferisca più che altro alle forzature, al fatto di dover necessariamente introdurre un qualcosa di identificativo del progettista anche sacrificando il rapporto col contesto, il fatto che il suo linguaggio sia inconfondibile non la vedo come una nota negativa!



Post n. 23
Serena Russo (Italy) ha scrittoil 29 agosto 2009 alle 12.03

Insomma spazio alla libera interpretazione... In fondo l'architettura stessa è per natura metamorfica: sensibile alle variazioni di luce e colori, mutevole dietro la lente soggettiva di chi la osserva.


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9 settembre 2009

0040 [OLTRE IL SENSO DEL LUOGO] G L U E M A R K E T

Salvatore D’Agostino:
  • Qual è l’architetto noto che apprezzi e perché?
  • Qual è l’architetto non noto che apprezzi e perché?

Qui l’articolo introduttivo


G L U E M A R K E T di Lorena Greco e Cristian Farinella

Rispondo in maniera duplice (essendo coautore del gluemarket con Lorena) e con un po’ di difficoltà alle due domande di Salvatore D'Agostino su Wilfing Architettura:

Qual è l’architetto noto che apprezzi e perché?

Qual è l’architetto non noto che apprezzi e perché?

Non credo che risponderemo pienamente ad entrambe le domande. Non amiamo e non esprimiamo preferenze in particolare per architetti presi singolarmente e questo per ovvie ragioni ma la cosa che più ci affascina è l'integrità e la coerenza nel linguaggio architettonico. Quindi inseguendo questo ideale modello ci hanno sempre interessato particolari momenti della vita progettuale di architetti noti che sono riusciti a concentrare in un determinato periodo (purtroppo limitato) un operato straordinario. La ricerca di un linguaggio è di primaria importanza,tanto quanto avere cose importanti da dire.

Non fraintendeteci sul termine “linguaggio” perché non ha nulla a che vedere con stile o formalismo o altro ancora ma si tratta delle regole basilari attraverso cui associare le varie lettere e parole fino a formare un discorso coerente. Ognuno ha il suo! Ad esempio siamo sempre rimasti affascinati dalla maniera di anagrammare l'architettura di Enric Miralles (per parafrasare alcuni suoi scritti).

L'anagramma è un ricercato disordine. Le lettere vengono appositamente accostate in modo casuale per creare una parola melodiosa e ingegnosa per dire qualcos'altro. Questo modo di fare si potrebbe anche definire agli antipodi rispetto ad un purista della lingua che vede nella comprensione dei termini il cardine della comunicazione e dunque del linguaggio stesso. Altro modo di interagire è quello di creare un proprio universo “sintattico” una propria cosmologia dei segni come ad es. ha fatto Peter Eisenman negli anni della sua formazione. Difficilmente dimentico l'aneddoto che Eisenman racconta rispetto ai suoi anni di insegnamento universitario: “io proponevo ai miei studenti di studiare Palladio ma a nessuno interessava!”.

Quel che si può trarre come lezione ad oggi dai disegni del Palladio è proprio quella ricerca di un proprio vocabolario, quel processo di formazione che porta un architetto a rompere ed innovare rispetto agli altri.

[…]

Non riesco a vedere un minimo di profondità intellettuale in operazioni progettuali che sembrano ripercorrere la storia architettonica di 30 anni prima, arrivata con ritardo nel nostro paese. Sono deluso nel vedere case che Koolhaas ha concepito 28 anni prima realizzate oggi come cavalli di troia del nostro paesaggio architettonico. Siamo stanchi di vedere che il minimalismo ridotto all'osso tale da diventare così spoglio da non poter disattendere ne entusiasmare nessuno, sia la regola imperante dell'interior design dei posti che frequentiamo quotidianamente. Quindi non posso che guardare con nostalgia al panorama architettonico ormai tramontato di quei personaggi che io e Lorena continuiamo ancora con entusiasmo a vedere e rivedere ritrovando in loro il seme della modernità (intesa alla maniera di Zevi).

Non si può dimenticare e non confrontare con il presente, la statura architettonica di un giovane Daniel Libeskind che nel “Dossier Como” e nella “line of fire” ha creato tassello su tassello un proprio vocabolario a partire da elementi semplici come la linea, fino a raggiungere l'estrema complessità di un aggregazione anagrammatica di segni nei suoi Rebus (micromegas) e nel renderli materia viva e vibrante. Oggi il progettista Polacco è in deficit di ossigeno e mi vergognerei di aver completamente abbandonato i suoi esordi e di rifuggire nel brand e nel sensazionale piuttosto che nell'intimo personale della ricerca architettonica dei primi anni dove riusciva con estrema facilità a spaziare dalla musica alla filosofia creando opere straordinarie.

Ma gli interlocutori cambiano ed oggi a nessuno più interessa la profondità culturale - processuale e generativa dell'architettura. Nessuno capirebbe, a nessuno importerebbe. Non voglio addentrarmi in una discussione sulle brand architecture di oggi, e sulle dinamiche che portano l'architettura (essendo un potente media) ad esprimersi con meccanismi che sono tipici della vacuità contemporanea (in altro modo non so definirla) ma la perdita di carattere e di vigore progettuale è anche proporzionato alla perdita di una ricerca nel linguaggio proprio di molti di questi signori che avevano illuminato il firmamento dello star system in alcuni fecondi periodi della loro vita. Se l'architettura è da sempre un fedele specchio della nostra società, questo è quel che ci meritiamo. Ed in Italia è ancora più infido e sciagurato il paesaggio mentale che si riflette in questo specchio dell'anima.


Tra i meno noti,invece, non posso non guardare alle ricerche condotte da Aadrl e da un manipolo di ragazzi sparsi per il mondo, che si ingegnano e si confrontano con la generosità dei software per creare forme strabilianti ma apparentemente ancora prive di un discorso strutturato. Questo per via delle enormi difficoltà legate alla complessità di queste esperienze progettuali e per la parziale assenza di un vero processo edilizio che sia in grado di ragionare in termini così d'avanguardia (ma c'è ben da sperare/ ovviamente non in Italia). Si tratta di semi messi a germogliare per un prossimo futuro in attesa di essere colti.

E' un periodo di transizione e dunque difficile dire dove stiamo andando con il nostro personal sotto spalla ma l'importante come sempre è mettersi in gioco.


Qui il post che G L U E M A R K E T ha dedicato a quest'inchiesta.


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