«Tra l’altro, l’unica dinamica albafetizzante, in un contesto altrimenti di peggioramento, negli ultimi anni è stata innescata da internet che ha alimentato l’inclusione di una fascia di popolazione che era poco sotto la soglia minima di accesso agli strumenti della lettura e che l’ha superata per gli stimoli trovati in rete.» (Tullio De Mauro)1
Il 4 dicembre del 2008 il sito della rivista Abitare mutava in blog, aprendo i suoi post/articoli ai commenti. A due anni dall'inaugurazione ne ho parlato con Fabrizio Gallanti - vicedirettore della rivista e curatore della sezione on-line - perdonate la deviazione verso Chiasso. Colpa mia.
Salvatore D'Agostino In uno dei primi post scrivevi: «Per chi non se ne fosse accorto Abitare è un blog, e siccome siamo blogger una delle cose che facciamo di più è guardare altri blog».
A due anni dalla sua creazione, alcuni aspetti del blog che non mi convincono:
A due anni dalla sua creazione, alcuni aspetti del blog che non mi convincono:
- la trasposizione di articoli pubblicati nella rivista con uso posticcio delle fotografie (sotto, sopra e/o nel mezzo);
- la non identificazione (anche attraverso un feed) degli articoli postati dai diversi autori;
- l’idea di trattare le fotografie come la musica di sottofondo dei locali: indispensabile corollario;
- ciò che definisco sindrome da mainstream ovvero l’apertura della rivista ai contributi dei lettori con le rubriche: La biennale del popolo (pubblicazioni di foto e immagini della biennale 2010 inviate dai lettori), Mirrors(autopresentazione del proprio studio di architettura), <26@abitare (articoli e commenti degli under 26) o il tremolante videoblog della passata Triennale affidato a Fabio Novembre;
- un’impaginazione densa tipico dei portali Web che sembra dire: «benvenuto qui puoi trovare tutto quello che cerchi basta andare a zonzo, cliccando un po’, con la tua manina.»
Fabrizio Gallanti La fruizione di un sito è ben diversa da quella della carta. Il nostro obbiettivo era quello di essere volutamente inclusivi e poco coerenti, convertendo il sito in un luogo di molteplici intrecci. Spasmodico inclusivismo è esattamente una descrizione che ci affascina. Sono gli utilizzatori che poi navigando, perdendosi, seguendo alcuni fili conduttori selezionano quello che meglio li interessa e costruendo una continuità nel tempo, soprattutto con alcune rubriche.
Il rapporto testo immagine, rispetto alla rivista, è purtroppo determinato dal software, wordpress, che non permette la stessa agilità di impaginazione della carta. Quando dicevamo che Abitare è un blog, volevamo sottolineare che lo scheletro che lo sostiene è quello del blog, ossia uno scorrimento cronologico, dove l'ordine è dato dal tempo, ma dove non esiste sostanziale differenziazione tra i contenuti. Il divario è voluto quindi, trattandosi di due mezzi di comunicazione comunque diversi.
In questa veste Abitare non rischia l’indistinto? Ovvero l’essere in rete senza nessuna forte specificità, confondendosi con il mainstream?
Esiste un desiderio di "attualità", ossia di fornire informazioni al pubblico su ciò che sta succedendo adesso, in questo momento. Questo spiega il flusso accelerato dei post. Post, che però sono il risultato di operazioni di selezione, filtro, dibattito non solamente interne alla redazione. La specificità è data dai toni e dalle scelte, che tra l'altro combinano aeree disciplinari eterogenee, non solo quelle più prossime all'architettura. L'apertura verso altri campi (arti visive, grafica, design, cinema, ecc...) è peculiare delle riviste italiane, e di Abitare: non si tratta di riviste specializzate che forniscono informazione di tipo tecnico, ma piuttosto di piattaforme che mantengono i propri lettori coscienti di scenari più vasti, che possano essere di ispirazione per il proprio lavoro e la propria ricerca. A breve sarà in libreria un volume che celebra i 50 anni di Abitare: guardando tutti gli articoli selezionati, emerge questa forma di eclettismo colto, che non rinchiude l'architettura all'interno di interessi e di linguaggi chiudi e definiti. Se si seguono i post del sito, credo che emerga la mescolanza di temi e interessi, alcuni, forse mainstream, altri di nicchia, alcune scoperte, alcune esplorazioni curiose, alcuni rimandi ad altri siti, altri testi scritti espressamente per noi. Insomma il sito è il riflesso della comunità ampia che sostiene Abitare. E inoltre permette che sia il pubblico a costruirsi un proprio "menu", evitando un'imposizione autoritaria da parte nostra.
A che serve un blog per un architetto?
La domanda di per sé non ha molto senso. Sarebbe come dire "a cosa serve un software per un architetto?". Dipende da quale blog, dipende da quale architetto. In termini molto generali, generalissimi, diciamo che se un blog fornisce informazione, a un architetto fa bene riceverne per arricchirsi (ma come un libro, un film, un viaggio, una conversazione).
Le riviste d’architettura appaiano cronicamente incapaci di dibattere tra loro e d’influire nelle scelte politiche in corso.
Limitandosi a registrare - rispettosamente - i grossi eventi.
Tralasciando argomenti poco glamour come:
- ricostruzione di città o territorio distrutti da eventi ‘fisiologici’ naturali;
- ricostruzione di città e territorio quasi distrutti dal ‘popolo del cemento’ in poco meno di sessant’anni;
- piano casa; revisione della legge Merloni ovvero i concorsi;
- riforma universitaria;
- l’uso politico dell’architettura;
- costruzione dell’opera più imponente d’Europa: il ponte di Messina;
- la costruzione di una miriade di ‘centri commerciali nelle campagne infrastrutturate; la squalifica ‘professionale’ della figura dell’architetto;
- l’emigrazione degli architetti italiani (da non confondere con i talenti).
A che cosa serve una rivista d’architettura?
Mi sembra una lista estremamente "italiana" nei suoi temi e nei suoi accenti. Ora le riviste italiane, tali non sono dalla fine del secondo dopoguerra. Si tratta di riviste internazionali pubblicate in Italia (da quando c'erano Ponti e Rogers). Per cui occuparsi dei dieci temi in basso non avrebbe senso, perché tradirebbe le aspettative e necessità di un pubblico che sta, anche, oltre i limiti nazionali. Questo ruolo, legato anche alla scelta della lingua, però mi pare che sia assolto e molto bene dal Giornale dell'Architettura, che invece si occupa con frequenza dei temi che suggerisci.
Alcuni punti poi potrebbero avere declinazioni più "universali":
1, se si considera lo Tsunami, Katrina o il Cile;
5, se si tenta di capire come si insegna l'architettura a Londra, a Los Angeles, a Zurigo,
6, se si guarda al caso di Medellin in Colombia, per esempio.
Mi sembra una lista estremamente "italiana" nei suoi temi e nei suoi accenti. Ora le riviste italiane, tali non sono dalla fine del secondo dopoguerra. Si tratta di riviste internazionali pubblicate in Italia (da quando c'erano Ponti e Rogers). Per cui occuparsi dei dieci temi in basso non avrebbe senso, perché tradirebbe le aspettative e necessità di un pubblico che sta, anche, oltre i limiti nazionali. Questo ruolo, legato anche alla scelta della lingua, però mi pare che sia assolto e molto bene dal Giornale dell'Architettura, che invece si occupa con frequenza dei temi che suggerisci.
Alcuni punti poi potrebbero avere declinazioni più "universali":
1, se si considera lo Tsunami, Katrina o il Cile;
5, se si tenta di capire come si insegna l'architettura a Londra, a Los Angeles, a Zurigo,
6, se si guarda al caso di Medellin in Colombia, per esempio.
Alcune questioni mi sembrano invece molto nostrane. Da qui l'esortazione, sempre valida, di Alberto Arbasino: «Bisogna andare in gita a Chiasso e scuotersi di dosso il provincialismo nostrano».
Anche perché, spesso ho la sensazione che solo ci si lamenti e molto poco si agisca.
A cosa servono le riviste?
A costruire un dibattito tematico, presentando progetti e idee a un pubblico, o meglio a una comunità. A far avanzare anche se di un millimetro la conoscenza e l'informazione. Pare poco, ma è già moltissimo.
Raccolgo l’invito e ritorniamo dalla gita a Chiasso.
Che cosa sta proponendo l’architettura italiana nel dibattito internazionale?
La riflessione politica?
Allora, se ci permetti, urge una gita a Chiasso.
Come guida utilizziamo il resoconto di Gianfranco Bombaci2 a proposito del recente incontro promosso dall'Istituto Svizzero dal titolo: What Ever Happened to Italian Architecture?3
La nozione di architettura italiana è di per sé vuota. C'è stata una fase di elaborazione relativa alla città, alla storia e alla teoria, che ha avuto un forte impatto alla fine degli anni '70, il cui influsso è durato sino alla fine degli anni '80.
Da allora l'idea stessa di un attributo nazionale dell'architettura è una categoria operativa discutibile.
Rem Koolhaas è olandese nelle sue espressioni?
E Steven Holl?
Al massimo si può riconoscere un’italianità rispetto a questioni di stile, linguaggio e gusto. Ma rispetto all'elaborazione di temi di valore internazionale non c'è nulla. Il che è curioso, dato che in altre discipline l'apporto continua a essere importante come la danza, la musica o la riflessione politica.
Da allora l'idea stessa di un attributo nazionale dell'architettura è una categoria operativa discutibile.
Rem Koolhaas è olandese nelle sue espressioni?
E Steven Holl?
Al massimo si può riconoscere un’italianità rispetto a questioni di stile, linguaggio e gusto. Ma rispetto all'elaborazione di temi di valore internazionale non c'è nulla. Il che è curioso, dato che in altre discipline l'apporto continua a essere importante come la danza, la musica o la riflessione politica.
La riflessione politica?
Penso a tutti i pensatori politici, o meglio della filosofia politica attuali: Paolo Virno, Maurizio Lazzarato, Christian Marazzi (in realtà ticinese), Antonio Negri, Matteo Pasquinelli a Uninomade. Molti di questi, in effetti sono all'estero. In ogni caso, le riletture critiche e le attualizzazione delle teorie del marxismo prodotte in Italia continuano ad avere una risonanza internazionale.
Allora, se ci permetti, urge una gita a Chiasso.
«Reto Geiser, ha dato inizio alla prima giornata, dedicata al Passato, con una sua introduzione, il cui assunto di base è inconfutabile: nel secolo scorso, figure individuali come Rossi, Gregotti e Tafuri, o gruppi come Archizoom e Superstudio, hanno costruito una cultura dell'architettura, in Italia, capace di assumere una posizione di rilievo all'interno del dibattito internazionale. In seguito, il tramonto di manifesti e visioni ha gradualmente fatto uscire di scena l'architettura italiana, messa in disparte da forze commerciali e speculative.»Per essere più chiari aggiungo una riflessione POP del vostro amato Fabio Novembre:
«Diciamocelo: i grandi maestri erano un gruppo di frustrati di successo. Erano tutti laureati in architettura, ma erano impossibilitati a costruire perché nel secondo dopoguerra i costruttori erano già degli speculatori.»4Prima foto ricordo | Sul paesaggio speculativo del secondo dopoguerra.
Direi che se un'architettura "nazionale", ossia che sia il prodotto di una cultura specifica ha successo e diffusione mondiale, di solito non si deve alla qualità dei progetti e delle realizzazioni, ma soprattutto alla capacità di stimolare ragionamenti, pensieri, quindi lo sviluppo di concetti, spesso separati e distanti dagli aspetti estetici. Per esempio l'eco ancora forte del pensiero di Robert Venturi e Denise Scott-Brown si deve ai loro scritti, piuttosto che ai loro lavori. Lo stesso si potrebbe dire di Rem Koolhaas e di molti altri.
In questo senso dalla fine della seconda guerra mondiale, sino alla fine degli anni '70, l'Italia ha ospitato una produzione concettuale impressionate per temi, accenti, interessi e non necessariamente caratterizzata da architetture particolarmente eccitanti. Il caso della Torre Velasca, per esempio, mi pare sintomatico. Un edificio di ottima qualità, ma comunque non eccelso, che diventa importante per i temi che tocca, più che per la propria forma (basta pensare al dibattito che scatena, con Reyner Banham nel 1960 che lo prende a esempio della "ritirata" italiana dall'architettura moderna). Per cui, figure diverse, posizioni spesso opposte (Giancarlo De Carlo e Aldo Rossi, per esempio) e traiettorie prevalentemente concettuali e astratte hanno rappresentato un perno culturale costante a livello internazionale. Direi che non è solo l'architettura italiana a essere uscita di scena, ma qualsiasi forma di pensiero sull'architettura, non solo da noi ma ovunque. Quindi la lamentazione sull'architettura italiana, nasconde in realtà una nostalgia per una densità che appare irrimediabilmente esaurita. Inoltre, il problema, forse, è che la ricchezza culturale dell'architettura italiana è anche stata un peso, impedendo lo sviluppo di una architettura meno "pensata" ma eseguita correttamente (non è un caso che tutti i maestri modernisti minori, che so un Luigi Carlo Daneri a Genova, un Giuseppe Vaccaro a Bologna, un Luigi Cosenza a Napoli o Mario Asnago e Claudio Vender a Milano non siano più stati materia di studio nelle facoltà di architettura per lungo tempo). Adesso ci troviamo, tutti, senza discorso profondo sull'architettura.
In Italia, inoltre, senza architetture interessanti, o anche solo alla moda. Perlomeno altrove (penso in Spagna, in Cile, in Croazia, in Belgio, in Corea, in Giappone), ci si può consolare sfogliando le riviste d'architettura e visitando le opere inaugurate di recente.
Sulla frustrazione degli architetti italiani del secondo dopoguerra, direi che la frase è solo una semplificazione buona per una conversazione dopo cena, dove bisogna aver sempre la battuta di spirito pronta.
Sulla frustrazione degli architetti italiani del secondo dopoguerra, direi che la frase è solo una semplificazione buona per una conversazione dopo cena, dove bisogna aver sempre la battuta di spirito pronta.
«Fabrizio Gallanti ha riportato la discussione sul tema politico e su come il legame tra architettura, urbanistica e governo del territorio sia una peculiarità tutta italiana.»5Sacco di Palermo | Costruito tra il 1950-1970
Appartamento in Via Libertà [non è uno scherzo toponomastico] 4 vani, 120 mq al 7° piano € 400.000
Milano 2 | Costruito tra il 1970-1980
Appartamento 3 vani, 126 mq, al 1° piano, € 590.000
Quartiere Caltagirone (Ponte di Nova-Roma) | Inizio costruzione 2004
Appartamento Via Cannaroli, 4 vani, 100 mq, al 2° piano, € 240.00
L’agenzia immobiliare inizia la promozione in questo modo:
Forse, ripetere l'esame di stato ogni cinque anni sarebbe un'ottima idea. In molti paesi per rimanere iscritti agli ordini, i professionisti devono continuare a formarsi, accumulando crediti (partecipando a seminari, simposi, corsi di aggiornamento). Un sistema di questo tipo, eliminerebbe i rami secchi, attiverebbe una domanda di educazione che potrebbe ravvivare le facoltà, mettendo gomito a gomito generazioni diverse. Inietterebbe un po' di linfa in uno scenario morto. Si potrebbero tentare diverse cose. Ma la mia sensazione è che abbia ragione Mourinho: «l'Italia è come il Portogallo, tutti parlano dei problemi e nessuno fa nulla per risolverli».
Milano 2 | Costruito tra il 1970-1980
Appartamento 3 vani, 126 mq, al 1° piano, € 590.000
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«ALCUNI CENNI SUL LUOGO: Il 31 marzo 2007 è stato inaugurato uno tra i più grandi centri commerciali retail d'Europa, denominato "Roma Est".»Seconda foto ricordo | Sulla politica e l'urbanistica.
Capire la situazione attuale dell'architettura in Italia è forse più facile se si considerano alcuni dati numerici nella loro brutale nudità. Il primo è il numero di architetti iscritti agli ordini professionali, valutati intorno ai 130.000 (peraltro non ci sono, nel caos che contraddistingue il nostro paese, informazioni ufficiali - o meglio, nessuno si è mai preoccupato di raccoglierle). Gli altri dati, impressionanti, sono quelli raccolti da Giovanni Caudo, professore a Roma Tre, sul mercato immobiliare italiano.
Ora: negli ultimi dieci anni, il volume delle transazioni di immobili residenziali è passato da una media di 410.00 acquisti nel decennio precedente a circa 700.000 nell'ultimo (includendo la flessione degli ultimi due anni, dopo la crisi del 2008). Inoltre la media di grandezza degli studi professionali italiani e' di circa 1,2 addetti (compreso il titolare) per studio.
Ora: negli ultimi dieci anni, il volume delle transazioni di immobili residenziali è passato da una media di 410.00 acquisti nel decennio precedente a circa 700.000 nell'ultimo (includendo la flessione degli ultimi due anni, dopo la crisi del 2008). Inoltre la media di grandezza degli studi professionali italiani e' di circa 1,2 addetti (compreso il titolare) per studio.
Cosa possono voler dire questi dati?
Innanzitutto che la tendenza all'acquisto della casa, non solo come prima casa ma anche come investimento, ha depotenziato la domanda di progettazione per edilizia sociale e collettiva. Secondariamente, e a fronte di una evasione fiscale endemica, i dati indicano che la maggior parte del prodotto interno lordo e' reinvestita nell'edilizia privata, non solo nella vendita e acquisto ma anche nelle successive operazioni di trasformazione, che consistono spesso in ampliamenti e ristrutturazioni. Il che quindi implica una atomizzazione dei soggetti 'progettisti' che riescono a sopravvivere al di sopra di una linea di galleggiamento risibile, con piccoli progetti di intervento interno, pratiche comunali, arredamento. La mitologia della 'casa' (non a caso sempre presente nelle ultime vicende politiche nazionali - Balducci e le tende da concordare con i fornitori, la casa di Montecarlo di Fini, le ville di Berlusconi, i mutui estinti per i deputati che cambiano di maggioranza) è complementare al sostanziale disinteresse per lo spazio e le infrastrutture collettive (per le quali, tra l'altro non ci sono i soldi). Tale disinteresse determina quindi una domanda di architettura asfittica.
La lamentela riferita all'assenza di concorsi in Italia, punta alla conseguenza del fatto che da decenni il settore pubblico non realizza opere pubbliche con costanza e con una massa considerevole: musei, scuole, asili, ospedali, caserme, piazze. Comparato con Francia, Germania, Spagna, il livello di interventi è ridicolo: basta varcare la soglia di una scuola elementare, probabilmente in un edificio dell'800 per disperarsi. È abbastanza ovvio che quando ci siano dei concorsi (riservati alle opere simbolicamente più importanti), questi siano spesso vinti da architetti stranieri, perché più esperti e allenati (e perché offrono poi maggiori garanzie di successiva realizzazione - lo studio italiano con dieci persone e i software piratati non promette nulla di buono). È abbastanza ovvio che sempre meno frequentemente gli studi italiani partecipino e vincano i concorsi all'estero (mentre agli italiani che si sono spostati in altri paesi, le cose non vanno male, anzi).
Io penso che una moratoria delle facoltà di architettura per 5 anni, sarebbe ottima. Non si accettano studenti e non si laurea nessuno. Al massimo si fa un’iperscuola di eccellenza, nazionale, con 100 studenti all'anno e i migliori docenti in circolazione. Una Normale di Pisa dell'architettura. Forse la Bocconi o la Luiss potrebbero provarci. Chiudere le facoltà permetterebbe che il mercato assorba l'eccesso di laureati e darebbe il tempo di ripensare l'insegnamento dell'architettura, lasciando che buona parte dell'attuale personale docente attuale andasse in pensione, eventualmente garantendo una qualche forma di rinnovamento. Peraltro, i modi di selezione dei futuri docenti non lasciano intravedere nulla di positivo all'orizzonte, trattandosi di tentativi di incorporare chi già c'è più o meno interno al sistema, i vari precari, ricercatori e contrattisti (spesso figli e parenti, purtroppo, di altri ordinari e associati). Ora questa visione del precariato universitario è curiosa: si tratta di un senso di colpa, molto cattolico, dove siccome qualcuno ha sofferto in passato, deve ottenere un risarcimento. Ma non ci sono evidenze che i ricercatori e i contrattisti sarebbero di per sé degli ottimi docenti. A me piacerebbe un sistema come negli Stati Uniti dove tutti i docenti siano a contratto, con rinnovi legati ai risultati. Però pagati molto bene, non le noccioline attuali, che sono svilenti per tutti (in alcune facoltà i contrattisti insegnano gratis, cinica l'istituzione e farabutti loro).
Io penso che una moratoria delle facoltà di architettura per 5 anni, sarebbe ottima. Non si accettano studenti e non si laurea nessuno. Al massimo si fa un’iperscuola di eccellenza, nazionale, con 100 studenti all'anno e i migliori docenti in circolazione. Una Normale di Pisa dell'architettura. Forse la Bocconi o la Luiss potrebbero provarci. Chiudere le facoltà permetterebbe che il mercato assorba l'eccesso di laureati e darebbe il tempo di ripensare l'insegnamento dell'architettura, lasciando che buona parte dell'attuale personale docente attuale andasse in pensione, eventualmente garantendo una qualche forma di rinnovamento. Peraltro, i modi di selezione dei futuri docenti non lasciano intravedere nulla di positivo all'orizzonte, trattandosi di tentativi di incorporare chi già c'è più o meno interno al sistema, i vari precari, ricercatori e contrattisti (spesso figli e parenti, purtroppo, di altri ordinari e associati). Ora questa visione del precariato universitario è curiosa: si tratta di un senso di colpa, molto cattolico, dove siccome qualcuno ha sofferto in passato, deve ottenere un risarcimento. Ma non ci sono evidenze che i ricercatori e i contrattisti sarebbero di per sé degli ottimi docenti. A me piacerebbe un sistema come negli Stati Uniti dove tutti i docenti siano a contratto, con rinnovi legati ai risultati. Però pagati molto bene, non le noccioline attuali, che sono svilenti per tutti (in alcune facoltà i contrattisti insegnano gratis, cinica l'istituzione e farabutti loro).
«Eppure, come giovane architetto attivo sul campo, non riesco a identificarmi in questo scenario. Non riconoscendomi in ideologie pregresse e ormai passate, penso di avere il diritto, e forse anche il dovere, di studiare, con onestà intellettuale, ed elaborare la storia, la tradizione e la produzione teorica della nostra cultura, da Rossi a Tafuri, da Branzi a Gregotti, senza per questo dover essere accusato di essere reazionario o neoconservatore. Qualcuno, a suo tempo e per sue ragioni, ha "ucciso i padri" della nostra generazione senza preoccuparsi di crescerne i figli, i quali, da autodidatta, si sono fatti le ossa in un mondo che è cambiato molto rapidamente ed è diventato globale. L'Italia ospita in questo momento numerose realtà professionali capaci di confrontarsi pienamente con il contesto internazionale, attraverso progetti, iniziative editoriali ed esposizioni. Questa condizione, però, si esaurirà presto, dato che giovani progettisti trentacinquenni europei cominciano a realizzare progetti importanti, mentre i nostri restano sulla carta. L'attuale classe dirigente ed intellettuale del Paese deve farsi carico di questa responsabilità, riprendendo un discorso di continuità teorico-critica, culturale e politica capace di interpretare, supportare e indirizzare le nuove generazioni di progettisti. Oppure farsi da parte. Altrimenti non ci resterà che continuare a canticchiare ossessivamente la solita rassicurante filastrocca: "tre elefanti si dondolavano sopra il filo di una ragnatela…» (Gianfranco Bombaci)6
Terza foto ricordo | Sulla generazione dei padri speculatori
Mah. I giovani trentacinquenni (mica così giovani, nel mondo uno è giovane a 20-25, non a 35, ma per fortuna l'architettura si pratica sino a tardi, l'esempio di Kahn continua a essere di conforto per tutti noi falliti) in gamba, hanno già cominciato a darsela a gambe, sia letteralmente, aprendo studi all'estero, insegnando, collaborando a progetti interdisciplinari, sia partecipando con costanza a concorsi esteri. Chi continua a lamentarsi di 'classi dirigenti' e si aspetta gesti munifici da parte di altre generazioni si inganna, o forse è complice del sistema. In fondo credo che Padoa Schioppa non fosse così distante dalla verità quando tacciava di pigrizia i ragazzi e le ragazze italiani. Bamboccioni, diceva. Penso che in nessun paese occidentale (non vale neppure la pena di parlare dei paesi emergenti) le famiglie abbiano viziato così tanto i propri figli, sin dalla tenerissima età. Il che li rende incapaci di qualsiasi azione autonoma. Mentre negli USA, per fare un esempio tanto banale quanto evidente, Mark Zuckerberg a 23 anni crea Facebook (o a 28 Andrew Mason che crea Goupon), da noi, uno trova su Repubblica o il Corriere, le lettere dei padri e delle madri (ah, le mamme italiane) che si lamentano o che i loro figli debbano andare a lavorare all’estero – e in quel caso l’autore della missiva era il rettore della Luiss, Pierluigi Celli (!) – o che a trent’anni la loro figliola è ancora precaria. Se uno ci pensa è surreale. In Italia nessuna classe dirigente deve farsi carico e può farsi carico di nulla, lo hanno capito gli studenti che manifestano.
Quando cominceranno a capire che devono anche defenestrare i propri docenti, ricercatori, insomma padri e fratelli maggiori, forse sarà un passo avanti (perché anche questi sono classe dirigente). Come dice Bombaci, qualcuno deve farsi da parte. Ora non vedo da parte dei 35enni e 40enni un movimento corale e unanime e coordinato per generare qualche forma di trasformazione e di transizione. Piuttosto, sono tutti in attesa di spiragli e occasioni, per insinuarsi nelle pieghe dei sistemi in atto. Se guardata con freddezza la situazione attuale appare così complessa, intricata e irrisolvibile che a uno cadono le braccia, e di fatto nei sondaggi e nelle inchieste del Censis, il sentimento prevalente è quello della disillusione.
In generale, e in maniera apocalittica, mi pare che tutto il paese sia in una fase di declino, lento e inesorabile, un’agonia che non finisce mai, un nonno attaccato al respiratore da troppo tempo. Forse solo un vero e proprio crollo potrebbe scuotere qualcosa e imprimere un cambio di costume, di idee, di attitudini. Basta guardare i dati dell'Economist sulla crescita internazionale, ogni settimana, per preoccuparsi. In un mondo che cambia, l'Italia non produce nulla che interessi nessuno, né alte tecnologie, né prodotti a basso prezzo. La nicchia della qualità e del lusso, applicata a prodotti a bassa complessità (formaggi, vestiti e sedie) è costantemente erosa dallo sviluppo di altre realtà (ogni volta che partono gli imprenditori italiani in Cina o India o Brasile, convinti di invadere i loro mercati, rientrano con le pive nel sacco, perché scoprono che in pochissimo tempo, laggiù, faranno meglio).
L'architettura non può non soffrire le conseguenze di questa condizione di progressiva irrilevanza. E all'interno il sistema appare in implosione, perché non mi pare che ci siano forti spinte al cambiamento profondo: i singoli e le rappresentazioni collettive, penso all’università e agli ordini professionali, oramai sempre più inutili, stanno tentando di sopravvivere quanto più a lungo, ignorando i problemi e mettendo in campo i peggiori meccanismi clientelari e familistici. Insomma, in questo momento, mi pare che lo scenario sia piuttosto nero.
Dato che prevale una lettura individualista della società (siamo ancora a Guicciardini), a questo punto che ciascuno si salvi per sé, per cui credo che una delle poche soluzioni sia un biglietto di sola andata.
Grazie per la gita.
Mah. I giovani trentacinquenni (mica così giovani, nel mondo uno è giovane a 20-25, non a 35, ma per fortuna l'architettura si pratica sino a tardi, l'esempio di Kahn continua a essere di conforto per tutti noi falliti) in gamba, hanno già cominciato a darsela a gambe, sia letteralmente, aprendo studi all'estero, insegnando, collaborando a progetti interdisciplinari, sia partecipando con costanza a concorsi esteri. Chi continua a lamentarsi di 'classi dirigenti' e si aspetta gesti munifici da parte di altre generazioni si inganna, o forse è complice del sistema. In fondo credo che Padoa Schioppa non fosse così distante dalla verità quando tacciava di pigrizia i ragazzi e le ragazze italiani. Bamboccioni, diceva. Penso che in nessun paese occidentale (non vale neppure la pena di parlare dei paesi emergenti) le famiglie abbiano viziato così tanto i propri figli, sin dalla tenerissima età. Il che li rende incapaci di qualsiasi azione autonoma. Mentre negli USA, per fare un esempio tanto banale quanto evidente, Mark Zuckerberg a 23 anni crea Facebook (o a 28 Andrew Mason che crea Goupon), da noi, uno trova su Repubblica o il Corriere, le lettere dei padri e delle madri (ah, le mamme italiane) che si lamentano o che i loro figli debbano andare a lavorare all’estero – e in quel caso l’autore della missiva era il rettore della Luiss, Pierluigi Celli (!) – o che a trent’anni la loro figliola è ancora precaria. Se uno ci pensa è surreale. In Italia nessuna classe dirigente deve farsi carico e può farsi carico di nulla, lo hanno capito gli studenti che manifestano.
Quando cominceranno a capire che devono anche defenestrare i propri docenti, ricercatori, insomma padri e fratelli maggiori, forse sarà un passo avanti (perché anche questi sono classe dirigente). Come dice Bombaci, qualcuno deve farsi da parte. Ora non vedo da parte dei 35enni e 40enni un movimento corale e unanime e coordinato per generare qualche forma di trasformazione e di transizione. Piuttosto, sono tutti in attesa di spiragli e occasioni, per insinuarsi nelle pieghe dei sistemi in atto. Se guardata con freddezza la situazione attuale appare così complessa, intricata e irrisolvibile che a uno cadono le braccia, e di fatto nei sondaggi e nelle inchieste del Censis, il sentimento prevalente è quello della disillusione.
In generale, e in maniera apocalittica, mi pare che tutto il paese sia in una fase di declino, lento e inesorabile, un’agonia che non finisce mai, un nonno attaccato al respiratore da troppo tempo. Forse solo un vero e proprio crollo potrebbe scuotere qualcosa e imprimere un cambio di costume, di idee, di attitudini. Basta guardare i dati dell'Economist sulla crescita internazionale, ogni settimana, per preoccuparsi. In un mondo che cambia, l'Italia non produce nulla che interessi nessuno, né alte tecnologie, né prodotti a basso prezzo. La nicchia della qualità e del lusso, applicata a prodotti a bassa complessità (formaggi, vestiti e sedie) è costantemente erosa dallo sviluppo di altre realtà (ogni volta che partono gli imprenditori italiani in Cina o India o Brasile, convinti di invadere i loro mercati, rientrano con le pive nel sacco, perché scoprono che in pochissimo tempo, laggiù, faranno meglio).
L'architettura non può non soffrire le conseguenze di questa condizione di progressiva irrilevanza. E all'interno il sistema appare in implosione, perché non mi pare che ci siano forti spinte al cambiamento profondo: i singoli e le rappresentazioni collettive, penso all’università e agli ordini professionali, oramai sempre più inutili, stanno tentando di sopravvivere quanto più a lungo, ignorando i problemi e mettendo in campo i peggiori meccanismi clientelari e familistici. Insomma, in questo momento, mi pare che lo scenario sia piuttosto nero.
Dato che prevale una lettura individualista della società (siamo ancora a Guicciardini), a questo punto che ciascuno si salvi per sé, per cui credo che una delle poche soluzioni sia un biglietto di sola andata.
Grazie per la gita.
24 gennaio 2011
Intersezioni ---> MONDOBLOG
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Note:
1 Tullio De Mauro (a cura di F. Erbani), La cultura degli italiani, Laterza, 2010.
2 Gianfranco Bombaci, What ever happened to Italian architecture?, DomusWeb, 10 novembre 2010. Link
3 Svoltosi a Roma il 15-16 ottobre 2010. Link
4 Intervista a Fabio Novembre, Klat, n.4, autunno 2010. Link
5 Gianfranco Bombaci, op. cit.
6 Gianfranco Bombaci, op. cit.
Abitare è online dal 1996.
Versione attuale, a cavallo tra blog e portale (gestita da Wordpress): 3 dicembre 2008
Layout: Mario Piazza + Gergely Agoston (AAP)
Progetto editoriale: Matteo Poli con Valentina Ciuffi
Software dedicato: Gergely Agoston (AAP)
Redazione: Fabrizio Gallanti, Valentina Ciuffi, Francesco Franci
Primo post: Valentina Ciuffi , MVRDV a Gwanggyo, 04 dicembre 2008 alle 18:15
Primo commento: (15 dicembre 2008)
«se ci manca un progetto culturale chiaro e di alto profilo, se ci manca la condivisione esplicita di un approccio verso l’architettura; se -soprattutto- ci manca il tempo per elaborare una proposta convincente, perché presentarsi insieme alla prossima incombente Biennale? Credo, in tutta sincerità che essere architetti/italiani/di mezza età, non sia sufficiente a costituire una coalizione significativa nella comunità internazionale”…(Stefano Boeri, 10 luglio 2002)
Così Boeri affermava nella lettera inviata a Sudjic e all’Aid’a, l’associazione fondata da Casamonti, in merito all’invito, da parte di quest’ultima, a partecipare all’iniziativa Lonely Living alla Biennale di Venezia del 2002. Come dire che il problema non è solo etico ma anche culturale. Casamonti in questi anni ha orientato il mercato dell’architettura, attraverso le sue riviste, oggi del Gruppo Il Sole 24 ore, e attraverso il suo network di lobby e appoggi che è stato trasversale e ha coinvolto gran parte dei direttori delle riviste di architettura, dei professori e dei presidi delle facoltà. Bene il tema proposto da Mirti, ma non è vero che non sia stato trattato da nessuno, vedi Espresso (nel caso fiorentino) e Gomorra nell’intreccio affari-politica-architettura nei numeri sul G.R.A e su Roma. Non si tratta solo del rapporto tra pubblico-privato dobbiamo considerare la continua assenza di un progetto politico di città, dove i politici si appiattiscono sempre più sulle logiche del mercato e del consumo.
ciao, emanuele» (Emanuele Piccardo)
1 Tullio De Mauro (a cura di F. Erbani), La cultura degli italiani, Laterza, 2010.
2 Gianfranco Bombaci, What ever happened to Italian architecture?, DomusWeb, 10 novembre 2010. Link
3 Svoltosi a Roma il 15-16 ottobre 2010. Link
4 Intervista a Fabio Novembre, Klat, n.4, autunno 2010. Link
5 Gianfranco Bombaci, op. cit.
6 Gianfranco Bombaci, op. cit.
Abitare è online dal 1996.
Versione attuale, a cavallo tra blog e portale (gestita da Wordpress): 3 dicembre 2008
Layout: Mario Piazza + Gergely Agoston (AAP)
Progetto editoriale: Matteo Poli con Valentina Ciuffi
Software dedicato: Gergely Agoston (AAP)
Redazione: Fabrizio Gallanti, Valentina Ciuffi, Francesco Franci
Primo post: Valentina Ciuffi , MVRDV a Gwanggyo, 04 dicembre 2008 alle 18:15
Primo commento: (15 dicembre 2008)
«se ci manca un progetto culturale chiaro e di alto profilo, se ci manca la condivisione esplicita di un approccio verso l’architettura; se -soprattutto- ci manca il tempo per elaborare una proposta convincente, perché presentarsi insieme alla prossima incombente Biennale? Credo, in tutta sincerità che essere architetti/italiani/di mezza età, non sia sufficiente a costituire una coalizione significativa nella comunità internazionale”…(Stefano Boeri, 10 luglio 2002)
Così Boeri affermava nella lettera inviata a Sudjic e all’Aid’a, l’associazione fondata da Casamonti, in merito all’invito, da parte di quest’ultima, a partecipare all’iniziativa Lonely Living alla Biennale di Venezia del 2002. Come dire che il problema non è solo etico ma anche culturale. Casamonti in questi anni ha orientato il mercato dell’architettura, attraverso le sue riviste, oggi del Gruppo Il Sole 24 ore, e attraverso il suo network di lobby e appoggi che è stato trasversale e ha coinvolto gran parte dei direttori delle riviste di architettura, dei professori e dei presidi delle facoltà. Bene il tema proposto da Mirti, ma non è vero che non sia stato trattato da nessuno, vedi Espresso (nel caso fiorentino) e Gomorra nell’intreccio affari-politica-architettura nei numeri sul G.R.A e su Roma. Non si tratta solo del rapporto tra pubblico-privato dobbiamo considerare la continua assenza di un progetto politico di città, dove i politici si appiattiscono sempre più sulle logiche del mercato e del consumo.
ciao, emanuele» (Emanuele Piccardo)