di Salvatore D'Agostino
C’è un espediente narrativo, comune in molti telefilm d’azione o di suspense, dove, dopo aver sconfitto il nemico o risolto casi misteriosi, la tensione si allenta. Parte una musica di sottofondo e i protagonisti, finalmente rilassati, si vedono ridere, magari mentre bevono qualcosa in un bar o si ritrovano insieme. Questo momento magico mi è capitato mentre eravamo fermi e osservavo la gente che, apparentemente uscita dal lavoro, camminava in modo sconnesso, come se tutto fosse sospeso sulle strisce pedonali. Per paradosso, mi viene in mente la scena di Full Metal Jacket, quando Stanley Kubrick usa lo stesso espediente: i soldati, dopo essere stati decimati da una cecchina vietnamita, cantano la Marcia di Topolino, in un finale lugubre e surreale. E la voce narrante riflette: «... certo, vivo in un mondo di merda, questo sì. Ma sono vivo... e non ho più paura.»
There’s a narrative device, common in many action or suspense TV shows, where, after defeating the enemy or solving mysterious cases, the tension eases. Background music starts playing, and the protagonists, finally relaxed, are seen laughing, perhaps while drinking something at a bar or gathering together. This magical moment happened to me as we were stopped, and I watched people, seemingly just off work, walking in a disjointed way, as if everything were suspended on the crosswalk. Paradoxically, it reminds me of the scene from Full Metal Jacket, when Stanley Kubrick uses the same device: the soldiers, after being decimated by a Vietnamese sniper, sing the Mickey Mouse March, in a grim and surreal ending. And the narrator reflects: “... sure, I live in a world of shit, yes. But I’m alive... and I’m not afraid anymore.”
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