All’archivio di Stato una rassegna sull’«architettura radicale» che negli anni Sessanta voleva rompere con la tradizione e incarnare la contestazione antiborghese.
Non ha tutti i torti chi ritiene che l’unico contributo italiano alle avanguardie del ‘900 sia stato il Futurismo. Per tutto il XX secolo la stessa parola – “avanguardia” – non è mai stata molto popolare da noi, soprattutto se riferita all’architettura, un’arte in cui ogni apertura al nuovo – dalla Metafisica alla Tendenza – ha più o meno conciso con un ritorno al passato. Al punto che, anche quando l’impulso a ricostruire il mondo si fece sentire l’urgenza di una febbre giovanile in un momento storico che ha radicalmente cambiato il paese, la cultura ufficiale ha reagito voltando le spalle e raggelandone ogni velleità in silenzio.
La scena naturalmente è quella degli anni 60, quando Londra era “swinging” e a Berkley, in California, Marcuse era il guru della rivolta studentesca. Sui muri di Parigi si invocava l’”immaginazione al potere” e a Firenze – destatasi per incanto dal dorato tramonto post brunelleschiano – due stimati “maestri” (Leonardo Savioli e Leonardo Ricci) aprivano inaspettatamente i loro corsi di progettazione ai nuovi temi proposti dagli studenti: dall’urbanistica integrata all’urbanistica del divertimento.
A Roma, di fronte al quartiere Coppedè, era da poco sorto il Piper: il tempio-icona della “beat generation” dove Patty Pravo e i Rokes si esibivano in una sala decorata da Warhol, Schifano e Manzoni. A londra, Cedric Price aveva lanciato il suo progetto più rivoluzionario: il Fun Palace, padre nobile del Beaubourg di Piano e Rogers, e rappresentazione di quell’impulso ludico alla creazione che Marcuse aveva posto alla base della sua critica alla società totalitaria in Eros e Civiltà. Per gli studenti fiorentini progettare il “Piper” significava dunque sperimentare lo spazio del coinvolgimento, scatenare le forze di quella guerriglia esistenziale con cui si credeva di rompere l’arido guscio dell’architettura professionale e tecnologica ed entrare in contatto con le forze più eversive della contestazione antiborghese. Andrea Branzi proponeva il Luna Park a Prato, Natalini il Palazzo dell’Arte a Firenze, Gianni Pettena incursioni artistiche sul Ponte Vecchio e sfide impossibili ad Arnolfo di Cambio. Si incontravano così nelle strade compagni inattesi come Ugo La Pietra che a Milano sperimentava i “gradi di libertà”, Riccardo Dalisi che nei bassifondi di Napoli anticipava l’architettura della partecipazione o Derossi/Strumm che a Torino affidava al “Fotoromanzo” le utopie delle lotte operaie, prima che queste di lì a poco degenerassero nelle regressioni armate degli anni di piombo.
Nasceva insomma l’”architettura radicale” (il termine fu coniato a posteriori da Germano Celant un po’ sulla scia dell’“arte povera”) che il leader di Superstudio Natalini – definì un misto di: ironia, provocazione, paradosso, terrorismo, misticismo, umanesimo, patetico, di volta in volta adoperate secondo la nota strategica avanguardistica della “mossa del cavallo”!. Poi vennero Mendini – che giunto alla direzione di Casabella la trasformò nell’house organ del “radicalismo” internazionale - e l’argentino Emilio Ambasz che nel 1972 li trabordò tutti nelle sale del Moma di New York in una mostra memorabile intitolata «Italy: the domestic landscape».
Il paradosso però fu che l’agiografia concise con l’atto di morte: una celebrazione suntuosa che rilanciò l’Italia nel circuito internazionale, ma si lasciò dietro solo un grandioso cimitero cartaceo che ancor oggi affascina per la visionarietà di certe intuizioni (come il Monumento continuo, ad esempio, o la Non-stop City) che sono il testamento più vitale di un’inquietudine che la società italiana non seppe cogliere.
«Velleità eversive» le definì Tafuri, esempi di «ironia che non sa ridere». La seriosità accademica e la censura politica (quella di sinistra naturalmente che era ben lungi dal dismettere la sua ossessione del “centralismo democratico”) ne fecero strage, lanciando l’anatema di una “dannatio memoriae” che di fatto condannava l’Italia a un autarchismo scambiato per culto del “genius loci”. Oggi, per il breve spazio di un mese, le ipotesi della «Radical City» tornano al centro di una mostra che è il fiore all’occhiello della seconda edizione di «Architettura in città»: un’occasione di riflettere su un progetto di modernizzazione incompiuto, per analizzare non solo le cause della disfatta, ma anche – e soprattutto – le ragioni di un grande successo internazionale.
Radical City, a cura di Emanuele Piccardo, Torino, Archivio di Stato. Dal 30 maggio al 30 giugno. Catalogo Archphoto 2.0
31 maggio 2012
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