di Salvatore D'Agostino
«Mentre attraverso questo sud della città a nastro capisco anche perché posti così per essere raccontati non hanno più bisogno della penna eclettica dei viaggiatori stranieri o di quella molto meno alata degli inviati speciali. Le didascalie dei viaggiatori a cottimo degli inserti turistici, le rubriche estive dei giornali sono spazzatura. Nel contemporaneo Gran Tour di questa nuova miseria che si disegna sui bordi delle statali alle latitudini del sud si scrive, o si riscrive, fuor di letteratura e di apologo antropologico. Basta registrare lo sguardo riflesso dei luoghi». (Mauro Francesco Minervino)1
Mauro Francesco Minervino è un antropologo calabrese che non ha bisogno di andare lontano per le sue ricerche poiché il luogo dove vive e delle sue quotidiane osservazioni è la diciottesima statale italiana che da anni percorrere senza sosta. In fondo a sud, La Calabria brucia e Statale 18 sono i libri dove ha riportato le sue analisi, l’intervista che seguirà è divisa in più parti (1°, 2° e 4°) poiché le risposte, ampie e dettagliate, meritano pause di riflessioni più che letture veloci senza area di sosta.
Salvatore D’Agostino A vent’anni dal saggio di Marc Augé nonluoghi vorrei provare a ribaltare il punto di vista del signor Pierre Dupont2 - su cui si basa il testo - e riflettere sull'identità, le relazioni e la storia di chi ricarica di danaro il bancomat, di chi lavora allo sportello d’imbarco dell’Air France, dell’hostess della stessa compagnia, della polizia aereoportuale, del venditore del Duty-free dove acquista il cognac e una scatola di sigari, del libraio dove compra un libro poco impegnativo, del redattore, dei giornalisti, dei creativi pubblicitari, dei fotografi che hanno realizzato la rivista che sfoglia rapidamente. Non credi che il nonluogo attraversato dal signor Pierre Dupont sia abitato nel senso più profondo, per citare la triade dello stesso Marc Augé ‘identità, relazione e storia’, dalle persone che ci lavorano?
Non credi che la modernità abbia una sua ‘identità, relazione e storia’ che non può essere liquidata con un neologismo, diventato in fretta stereotipo, che osserva la realtà da un punto di vista troppo da ‘Business class’ del signor Pierre Dupont?
Mauro Francesco Minervino “Abitato” sì, ma non direi ancora in un senso “più profondo” di quello previsto dalla sua funzione, e non ancora attraversato da relazioni umane, identitarie e relazionali, “profonde” (pensiamo per esempio alla fungibilità delle funzioni sociali, alla precarietà del lavoro offerto e praticato in questi luoghi). Non basta trasformare per poche ore l'outlet di Valdichiana o il Centro commerciale Megalò di Chieti in palcoscenico per l'ex star di Amici e vincitore di Sanremo 2009, Marco Carta, per farne una piazza, un luogo di relazione o un confine domestico. Qualche anno fa i consumatori riuniti negli spazi del Serravalle Outlet di Alessandria ballarono la bossa nova con Toquinho e fu un successone, mentre Dionne Warwick, già musa di Burt Bacharach, è stata portata in tour per i Designer Outlet di tutta Italia. Questo è propriamente lo spazio dello spettacolo del mondo globalizzato che si estende e si sposta altrove, in spazi dove si coniugano paradossalmente le più grandi disuguaglianze socioeconomiche, la più grande varietà di fenomeni ideologico-culturali, con l’unificazione del mercato e l’uniformizzazione delle immagini mediatiche. Ma tutto questo, ancora una volta, cos’ha a che fare con la domesticazione, cioè con quel processo profondo (che si spiega ancora oggi nell’ambito di un’etnologia del “sacro”) che è la resa dello spazio umano a un ordine di senso e di persistenza culturale stratificato dal tempo, nonché dalla conservazione e dall’integrità di luoghi e funzioni, da cui restano esclusi -per loro stesso carattere e necessità- “i punti di transito e le occupazioni provvisorie - le catene alberghiere e le occupazioni abusive, i club di vacanze, i campi profughi, le bidonville” (Augé), ovvero questi e tutti gli altri nonluoghi già definiti da Augé?
Intanto i nonluoghi di Augè (basta rileggere il testo, che solo in Italia dal 1993, anno della sua prima pubblicazione, ha avuto più di venticinque ristampe) identificano essenzialmente il carattere omologante e indifferenziato dei luoghi di passaggio, la loro architettura e, ben oltre la forma, la loro funzione prevalente di spazi di attraversamento e di convettori della mobilità tipica del mondo surmoderno. Posti uguali a sé stessi in qualunque parte del mondo ci si trovi: come le autostrade, le stazioni ferroviarie, gli aeroporti e i grandi centri commerciali. Luoghi la cui architettura (talvolta miseramente accattivante) corrisponde perfettamente agli imperativi della mobilità universale collegata al dogma del produci e consuma. Se oggi occorre ripensare la pratica sociale dello spazio alla luce di questi fenomeni complessi e diffusi su scala mondiale, non va mai dimenticato che siamo tutti chiamati a fabbricare un senso con quel che resta del mondo e che l’uomo in ogni epoca “ha costruito il proprio spirito con tutti i mezzi”, come ricordano Marcel Mauss e Michel de Certeau, citati spesso a proposito dallo stesso Augé. E con le parole dello stesso Augé, “Aggiungiamo che la stessa cosa vale tanto per il nonluogo che per il luogo: esso non esiste mai sotto una forma pura; dei luoghi vi si ricompongono; delle relazioni vi si ricostituiscono; le «astuzie millenarie» dell’«invenzione del quotidiano» e delle «arti del fare», di cui Michel de Certeau ha proposto analisi così sottili, vi possono aprire un cammino e dispiegarvi le loro strategie. Il luogo e il nonluogo sono piuttosto delle polarità sfuggenti: il primo non è mai completamente cancellato e il secondo non si compie mai totalmente - palinsesti in cui si riscrive incessantemente il gioco misto dell'identità e della relazione. Tuttavia, i nonluoghi rappresentano l'epoca”. La nostra, in cui l’ambiguità delle nostre costruzioni ci mette di fronte alla tirannia del presente, alle forme di vita di un presente dilatato, che rischia di diventare “definitivo”.
La scelta tra luogo e nonluogo è una scelta che stavolta, in tempi di terrorismo, di crisi economica globale e di conflitti di civiltà, rischia di essere finale: è quella tra solitudine e solidarietà, tra conoscenza e barbarie.
Nella radice più umana del senso dell’abitare, “praticare lo spazio”, scrive lo stesso Michel De Certeau, ripreso da Augé, in realtà significa regredire, sottrarsi a queste logiche distruttive e disumanizzanti; “significa «ripetere l'esperienza esaltante e silenziosa dell'infanzia: nel luogo si è altro e si passa all'altro»”. Certo oggi si “abita” ovunque, qualsiasi spazio è antropizzato, trasformato dall’esperienza dell’uomo e dalle sue attività pervasive, ma quale spazio è davvero umano? Cos’è il diritto alla bellezza in questi luoghi-non luoghi? Cosa significa risiedere? E viaggiare in un modo sempre più asservito alle logiche dello sfruttamento intensivo e globalizzato dalla corsa ai consumi e dalla turistizzazione forzata? Spesso le nostre forme di occupazione dello spazio non danno luogo se non alla tecnica, alle forme del consumo, all’economia e alla strumentalità dei suoi scopi, alla generale fungibilità dei valori; ma è un abitare lo spazio manchevole di domesticità e di bellezza (privo cioè per sua stessa natura di stratificazioni e punti di riferimento condivisi che riguardano gli orientamenti estetici e morali, la storia e la memoria, non solo dei singoli individui, ma di comunità identificate), mutilato in via definitiva della possibilità della “differenziazione”, cioè “del riconoscimento di sé in quanto sé e in quanto altro”.
In fondo anche la strada che io racconto in Statale 18, una narrazione il cui modello, l’ho già detto in questa intervista, è l’etnofiction di cui scrive Augé, è uno di questi luoghi paradossali, fatti per l’impermanenza, per il passaggio, per il traffico dei mezzi, per il transito di merci e persone. Un luogo in continua rotazione, popolato di persone e di oggetti che invece assommano e moltiplicano sempre più, in mezzo a “una fitta rete di mezzi di trasporto che sono anche spazi abitati” (Augé), i luoghi della residenza, della vita, dell’azione. Tutto trasformato però in un precipitato di eventi, di abitudini e di costrutti materiali e simboli inscritti all’interno di un ordine sempre più precario, disperso in percorsi sempre più pericolosi e instabili. Anche nel caso delle contraddizioni che io ho tentato di raccontare in un libro come Statale 18, non differentemente da quelle che affrontiamo nella decifrazione dell’endiadi globale luogo-nonluogo, ogni spiegazione attuale non può sfuggire alla logica di una doppia rappresentazione tipica della prassi e del metodo dell’etnologia, esattamente come la radice che chiarifica il significato dei miti e fornisce la chiave di decifrazione delle culture di livello etnografico scaturite dalla crisi dell’era post-coloniale, la stessa che ha prodotto la mondializzazione in cui tutti viviamo.
Ritornando al Sud, all'aspetto dei paesaggi che attraverso quotidianamente, alle realtà urbane e sociali con le quali ho maggiore consuetudine e con le quali mi confronto più da vicino, in questi decenni è stato come assistere allo sgretolamento e al crollo di un argine spazio-temporale: la gente ha sostituito bruscamente i blocchi identitari di un passato che legava ad un senso, sia pur limitato e regressivo, di comunità, alla geografia ritrosa e alla statica della vita dei paesi di cui restano i simulacri della storia e le vecchie abitazioni ora abbandonate, con un nuovo modello di relazioni veloci e atomizzate, fortemente individualizzate, rivolte ad una dispersione che si lascia assorbire totalmente dalla mobilità e che trova un catalizzatore generale nel movimento necessitato e caotico verso i centri del consumo (anche in tempi di crisi), nell'adesione alla calamita della strada, sulle cui sponde non sorgono nuove città ma piuttosto “bidonville destinate al crollo o ad una perennità putrefatta” (Augé). Un paesaggio umano e sociale al quale purtroppo, specie al Sud, tendiamo tutti ad assuefarci. Perciò questi luoghi ambigui e inestricabili che intrappolano le nostre esistenze in prisma opaco e senza ombra di bellezza, non devono restare privi di racconto: “Il racconto infine, e in particolare il racconto di viaggio, mette insieme la doppia necessità di «fare» e di «vedere» («storie di marce e di gesta sono richiamate dalla citazione dei luoghi che ne risultano e che le autorizzano»), ma rimanda in definitiva a ciò che De Certeau definisce la «delinquenza», perché esso «traversa», «trasgredisce» e consacra «il privilegio del percorso sullo stato di fatto»”.3
Tornando alla domanda: dunque non solo nonluoghi: forse meglio oggi i “non più luoghi”, i “non ancora luoghi”, mentre più in generale va osservato, come ha rilevato dallo stesso Augé nel suo ultimo libro da poco uscito in Italia, il passaggio dai “non luoghi” ai “nontempo” quella:
«Le coppie di senso che formano per noi tutti l’opposizione esistenziale tra spazio pubblico/spazio privato e luogo/non-luogo, rappresentano la nuova formula del dilemma identitario nel mondo globalizzato», rimarca Augé.L’utopia della libertà di ripensare i luoghi per ridare loro l’unitarietà degli spazi della vita, ha di nuovo bisogno dell’immaginazione per sfuggire alla tirannia del presente, di un presente “definitivo” e per ora quasi totalmente dislocato (è questo lo stigma della realtà che caratterizza ciò che accade ai e nei nonluoghi), che invece appare ingannevolmente movimentato verso il benessere, in transito perenne verso nuove chimere, ma in realtà rivolto verso un nulla affannosamente paludato dalle stesse nostre retoriche di progresso e dalle brutali presunzioni di assoggettamento e dominio che caratterizzano la nostra rincorsa verso le “cosmotecnologie” (Augé).
Nella radice più umana del senso dell’abitare, “praticare lo spazio”, scrive lo stesso Michel De Certeau, ripreso da Augé, in realtà significa regredire, sottrarsi a queste logiche distruttive e disumanizzanti; “significa «ripetere l'esperienza esaltante e silenziosa dell'infanzia: nel luogo si è altro e si passa all'altro»”. Certo oggi si “abita” ovunque, qualsiasi spazio è antropizzato, trasformato dall’esperienza dell’uomo e dalle sue attività pervasive, ma quale spazio è davvero umano? Cos’è il diritto alla bellezza in questi luoghi-non luoghi? Cosa significa risiedere? E viaggiare in un modo sempre più asservito alle logiche dello sfruttamento intensivo e globalizzato dalla corsa ai consumi e dalla turistizzazione forzata? Spesso le nostre forme di occupazione dello spazio non danno luogo se non alla tecnica, alle forme del consumo, all’economia e alla strumentalità dei suoi scopi, alla generale fungibilità dei valori; ma è un abitare lo spazio manchevole di domesticità e di bellezza (privo cioè per sua stessa natura di stratificazioni e punti di riferimento condivisi che riguardano gli orientamenti estetici e morali, la storia e la memoria, non solo dei singoli individui, ma di comunità identificate), mutilato in via definitiva della possibilità della “differenziazione”, cioè “del riconoscimento di sé in quanto sé e in quanto altro”.
In fondo anche la strada che io racconto in Statale 18, una narrazione il cui modello, l’ho già detto in questa intervista, è l’etnofiction di cui scrive Augé, è uno di questi luoghi paradossali, fatti per l’impermanenza, per il passaggio, per il traffico dei mezzi, per il transito di merci e persone. Un luogo in continua rotazione, popolato di persone e di oggetti che invece assommano e moltiplicano sempre più, in mezzo a “una fitta rete di mezzi di trasporto che sono anche spazi abitati” (Augé), i luoghi della residenza, della vita, dell’azione. Tutto trasformato però in un precipitato di eventi, di abitudini e di costrutti materiali e simboli inscritti all’interno di un ordine sempre più precario, disperso in percorsi sempre più pericolosi e instabili. Anche nel caso delle contraddizioni che io ho tentato di raccontare in un libro come Statale 18, non differentemente da quelle che affrontiamo nella decifrazione dell’endiadi globale luogo-nonluogo, ogni spiegazione attuale non può sfuggire alla logica di una doppia rappresentazione tipica della prassi e del metodo dell’etnologia, esattamente come la radice che chiarifica il significato dei miti e fornisce la chiave di decifrazione delle culture di livello etnografico scaturite dalla crisi dell’era post-coloniale, la stessa che ha prodotto la mondializzazione in cui tutti viviamo.
Ritornando al Sud, all'aspetto dei paesaggi che attraverso quotidianamente, alle realtà urbane e sociali con le quali ho maggiore consuetudine e con le quali mi confronto più da vicino, in questi decenni è stato come assistere allo sgretolamento e al crollo di un argine spazio-temporale: la gente ha sostituito bruscamente i blocchi identitari di un passato che legava ad un senso, sia pur limitato e regressivo, di comunità, alla geografia ritrosa e alla statica della vita dei paesi di cui restano i simulacri della storia e le vecchie abitazioni ora abbandonate, con un nuovo modello di relazioni veloci e atomizzate, fortemente individualizzate, rivolte ad una dispersione che si lascia assorbire totalmente dalla mobilità e che trova un catalizzatore generale nel movimento necessitato e caotico verso i centri del consumo (anche in tempi di crisi), nell'adesione alla calamita della strada, sulle cui sponde non sorgono nuove città ma piuttosto “bidonville destinate al crollo o ad una perennità putrefatta” (Augé). Un paesaggio umano e sociale al quale purtroppo, specie al Sud, tendiamo tutti ad assuefarci. Perciò questi luoghi ambigui e inestricabili che intrappolano le nostre esistenze in prisma opaco e senza ombra di bellezza, non devono restare privi di racconto: “Il racconto infine, e in particolare il racconto di viaggio, mette insieme la doppia necessità di «fare» e di «vedere» («storie di marce e di gesta sono richiamate dalla citazione dei luoghi che ne risultano e che le autorizzano»), ma rimanda in definitiva a ciò che De Certeau definisce la «delinquenza», perché esso «traversa», «trasgredisce» e consacra «il privilegio del percorso sullo stato di fatto»”.3
Tornando alla domanda: dunque non solo nonluoghi: forse meglio oggi i “non più luoghi”, i “non ancora luoghi”, mentre più in generale va osservato, come ha rilevato dallo stesso Augé nel suo ultimo libro da poco uscito in Italia, il passaggio dai “non luoghi” ai “nontempo” quella:
«miscela esplosiva precarietà, incertezza sociale e dominio della finanza che è amplificata dalla tecnologia e dai media, vecchi e nuovi, e sta cambiando sotto i nostri occhi l'esperienza individuale e collettiva del tempo».4
e con questa deflagrazione la stessa sostanza delle nostre vite. Facendo dilagare l'incertezza, rendendo epidemico il timore di ciò che ci aspetta, con la riduzione dei tempi della vita a frattali privi di unitarietà e di prospettiva, tutti interni all’eterno presente che avvolge le nostre esistenze massificate e ormai variamente dislocate nello spazio e nel tempo.
8 maggio 2012
Intersezioni --->A-B USO
Come usare WA ----------------------------------------- ----------Cos'è WA
__________________________________________
Prima parte:
RispondiEliminaGentile Salvatore, le considerazioni del dott. Minervino non possono che istigarmi il paragone con la mela della conoscenza del giardino dell’Eden.
Scegliere consapevolmente di addentarla ci preclude, fatalmente, la possibilità di continuare a rimanere legati alla nostra amata Tirrena Inferiore che, come un nervo dolente, si insinua tra gli abitati della costiera calabra, lucana e campana, per cui, a volte, il metodo migliore per evitare una legittima sofferenza sui disastri ambientali ed architettonici che si sono perpetrati nel tempo, è quella di farsene una ragione non potendovi, secondo il mio personalissimo parere, porvi adeguato e consistente rimedio.
E’ chiaro lo scempio che i nostri territori costieri hanno subito come unico modello fattibile di rapido arricchimento economico legato al turismo balneare, ma, anche questo, ahimè, è figlio delle abitudini umane tese a coartare la natura per fini che non tengono conto del rispettoso equilibrio che pure dovrebbe essere consigliato dalla saggezza e dall’estetica.
Questo “appiattimento” (volendo esser buoni) di una crescita armonica dei nostri centri abitati, potrebbe essere reversibile solo se si potesse ipotizzare un deciso decremento della popolazione, non potendo, ovviamente, supporre che vi sia un’autoriduzione soggettiva dello stimolo congenito teso al raggiungimento del benessere personale.
Gentile amico, ho avuto la fortuna di vivere nelle immediate adiacenze della strada S.S. 18 che accompagna, come un filo conduttore, all’esplorazione dell’interessante, approfondita e per certi versi malinconica, per non dire rassegnata, analisi del dott. Minervino.
Vivo nel centro abitato mediano, rispetto alla lunghezza della strada che negli anni ’60 ha rappresentato la ricchezza culturale ed economica della mia cittadina, in un luogo dov’è ancora esistente quello che senza alcuna enfasi ritengo (forse solo io a Sapri) il “tempio” edificato al culto del “dio della modernità” o per meglio dire al concetto collettivo del vivere moderno che con la “cementificazione” ha assunto una concreta dimensione culturale; manufatto che neppure può definirsi esempio di archeologia industriale per l’evidente incompletezza del progetto e proprio per questo mi appare maggiormente evocativo.
Mi riferisco alla struttura che lei, a mio avviso opportunamente, ha riportato come emblematica immagine nella parte terza della sua interessante intervista.
Lo scheletro imponente dell’impropriamente definito “ex-cementificio” che dall’anno 1950 rappresenta proprio quella stridente contraddizione nel percepire l’estetica del paesaggio con le sue conseguenti implicazioni socio-antropologiche.
Il “tempio-cementificio” divenuto nella società saprese la pietra dello scandalo con la sua ingombrante presenza che nessuna generazione di politici, fino ad ora, è riuscita ad eliminare dalla percezione visiva di quanti lo considerano, secondo il mio parere, a torto, un “ecomostro” e per questo meritevole, com’è avvenuto, addirittura di un infimo premio al cattivo gusto.
Eliminandolo, secondo me, significherebbe mandare al rogo un metaforico libro che racconta la storia e le aspirazioni di modernità delle generazioni da poco martoriate da una violenta e sanguinosa guerra che tanto dolore ha provocato anche alle famiglie sapresi, sottoposte ad un crudele e mortale bombardamento aereo.
Volendo oltretutto prescindere dalle considerazioni di natura economica, irrealizzate, che pure in quei periodo di rinascita avevano una valenza rilevante.
Seconda parte:
RispondiEliminaPer me che ho avuto l’avventura di proiettarmi, vivendo stabilmente nella mia “moderna” Sapri degli anni ’70 del secolo scorso, nella vita rurale e minimale simile a quella del secolo ancora precedente, quando mi capitava di essere ospite dei miei compianti nonni che avevano residenza nell’entroterra lucano, in una masseria distante circa due ore di cammino dal primo centro abitato, le considerazioni del dott. Minervino sono motivo di sincera commozione.
L’assenza di qualsiasi “comodità” e tra queste, per essere chiaro, includo l’energia elettrica, le condotte idriche, i servizi igienici, strade che non fossero poco più di sentieri, ecc., mi fa comprendere bene cosa vuol dire fruire un manufatto sottratto, anche per la qualità dei materiali usati e per l'esigua superficie occupata, all’ambiente circostante e, per questo, da esso indissolubile e complementare, sufficiente ad una vita nella quale le distanze ed il tempo non avevano necessità di misura e che si svolgeva prevalentemente nell’estensione offerta dagli spazi esterni.
Nonostante questo, che ricordo con nostalgia, rabbrividisco al pensiero che nel prossimo futuro si possa verificare od ipotizzare un’involuzione che ci conduca anche solo lontanamente alla condizione che ho avuto modo di apprezzare nella mia infanzia, ancorché ed indiscutibilmente più salubre e naturale sotto tutti i punti di vista.
Sono del parere che ogni involuzione (perchè tale mi obbligo a definirla) scivola sul lubrificante del sacrificio e del dolore, verso il baratro di una società che certamente non potrebbe tornare a quelle condizioni, misurabili sull’uomo, con la sola forza della consapevolezza unita ad una sana e condivisibile crescita culturale ed ambientale.
La nostra strada statale diciotto questo l’ha capito da tempo e proprio per evitare questa possibile ipotesi di riduzione qualitativa, a mio avviso, non ha mai brigato per diventare un’autostrada.
Le invio i migliori saluti con la cortese richiesta di estenderli, se possibile, anche al dott. Minervino.
Riccardo da Sapri
Riccardo da Sapri,
RispondiEliminala ringrazio per il suo sincero commento.
Quel cementificio più la turistizzazione banale-balneare senza un’idea di civitas conducono al degrado.
Un degrado che senza soluzione di continuità il sud si trascina da sempre.
La rassegnazione distrugge l’anima di chi sta iniziando a vivere in questi luoghi.
Serve cambiare identità a questa strada che sembra non arrivare mai a destinazione.
Saluti,
Salvatore D’Agostino