Una delle poche rubriche importati della rivista Wired edizione italiana è quella curata dal linguista Marco Biffi dal titolo ‘Parole alla crusca’. Nel sesto numero, agosto 2009, parla della parola ‘Infopovero’:
«è colui che non ha sufficiente competenza informatica e non domina le nuove tecnologie. […] Per questo la fusione del prefissoide info- con l’aggettivo povero risulta efficace: chi è infopovero rischia di restare emarginato, senza lavoro, di essere povero e basta».3
Un sinonimo di infopovero è ‘tardivo digitale’, per capire il suo significato parliamo del suo opposto:
«Li vedete dappertutto. La ragazzina con l’iPod seduta di fronte a voi in metropolitana che scrive freneticamente messaggi sul cellulare. Il genietto del computer che fa praticantato estivo nel vostro ufficio e a cui chiedete disperatamente aiuto quando vi si pianta l’e-mail. Il bambino di otto anni che potrebbe battervi a qualsiasi videogioco sul mercato – e oltretutto scrive al computer molto più veloce di voi. Persino la figlia neonata di vostra nipote, che non avete mai incontrato perché abitano a Londra, ma a cui siete comunque affezionati per via della caterva di foto che vi arriva ogni settimana. Tutti questi personaggi sono “nativi digitali”.»4
In un’intervista televisiva Italo Calvino afferma:
«[ndr intervistatore] Il rapporto tra padri e figli come potrà cambiare, cambierà? [ndr Italo Calvino] Bisogna vedere che padri saranno. Io credo che continuerà questa crisi di discontinuità tra le generazioni. I padri sono sempre più insicuri su quello che devono insegnare o insegnano delle cose che praticamente non servono.»5
C’è in corso un problema di comunicazione tra architetti tardivi digitali e architetti nativi digitali?
Innazitutto penso che le categorie in generale, fra cui "tardivi digitali" o "nativi digitali", vadano bene per esemplificare tendenze ma nella realtà delle cose non spieghino mai la specificità delle situazioni o dei casi. Sicuramente le nuove generazioni hanno una predisposizione all'uso di determinati strumenti indotta dalla digitalizzazione pervasiva del contesto in cui vivono. Ma ci tengo invece a precisare il fatto che i "digital tools" vanno intesi appunto come "strumenti", maggiormente attuali, efficaci e potenti ... ma comunque strumenti. Se guardiamo le cose in quest'ottica allora le cose tornano ad essere leggibili in un ottica ciclica. Invece mi piacerebbe porre l'attenzione sul termine "nativi digitali". Siamo "nativi digitali" (ammesso che lo siamo) perché usiamo tool digitali o perché dominiamo e comprendiamo i linguaggi digitali ... questa differenza, come puoi ben comprendere, spalanca un abisso.
L'uso delle tecnologie non dà assolutamente per scontato che se ne comprendano i linguaggi, le strutture, le potenzialità e le strategie applicative. Oggigiorno si può fare un uso anche massivo di strumenti digitali e software senza necessariamente possedere competenze informatiche o comprenderne le innumerevoli potenzialità. Penso invece che sia in questo abissale divario che bisogna indagare. Penso che il tutto vada maggiormente ricondotto, piuttosto che ad un info-povertà, al ruolo che noi abbiamo rispetto a tali strumenti. Facciamo un uso "passivo" di questi strumenti, ovvero li usiamo senza pensarne le possibili implicazioni e dinamiche che possono indurre o ne facciamo un uso "attivo" in cui la comprensione dei linguaggi, delle molteplici connessioni, delle incredibili potenzialità ci fa intravederne nuovi possibili utilizzi nei vari campi del sapere e del fare?
La vera distinzione in atto che vedo nel campo della ricerca architettonica è appunto riconducibile al fatto che stanno nascendo nuove generazioni di info-architetti dove il coniugarsi di una profonda conoscenza delle nuove teorie emergenti, di competenze informatiche e rinnovate conoscenze matematiche sta originando nuovi modi di pensare l'architettura in tutte le sue fasi, dall'ideazione alla cantierizzazione. Alcuni anni fa taluni architetti motivati dalla necessità di piegare i mezzi informatici alle proprie specifiche esigenze progettuali o di ricerca hanno saputo spingersi con curiosità oltre le "colonne d'Ercole" delle interfacce dei propri software per scoprirne, tramite la conoscenza dei loro linguaggi, che era possibile dettarne nuovi e sorprendenti utilizzi. Oggi dopo alcuni anni di sperimentazione anche sul campo oramai abbiamo un bagaglio teorico, coadiuvato da apporti teorici derivanti da altri campi del sapere, che ci permette di individuare nuove strategie applicative. L'utilizzo dello scripting nel campo dell'architettura o del più innovativo visual scripting direi che è una pratica "quasi" consolidata in molti degli studi di architettura maggiormente in voga o comunque giovani e dinamici. Per quanto concerne la frattura quindi esistente fra le generazioni di architetti direi che è quindi un problema di subire o dominare gli strumenti che utilizziamo .... ma tutto ciò visto in quest'ottica mi sembra una problematica sempre esistita.
«Le giovani generazioni di architetti dovrebbero smettere di giocare con i computer a fare cose sempre più strampalate, sempre più strane, tutti sanno fare forme nuove, questa storia delle forme nuove, non se ne può più! Non è difficile trovare delle forme nuove è difficile trovare forme nuove che abbiano un senso strutturale, estetico, sociale. Il vero terreno fertile d’ispirazione del secolo che si apre è la fragilità della terra. È il fatto che il linguaggio del costruire dovrebbe essere un linguaggio di architettura che dialoga con l’ambiente, che vive, che respira in cui cuore batte il ritmo della terra.» (Renzo Piano)6
Mi puoi spiegare questa tua frase: «è quindi un problema di subire o dominare gli strumenti che utilizziamo.»
Beh, sarebbe interessante vedere Renzo Piano in una jury di una final review all'AA, alla SCI-ARC o altri corsi dove la biomorfica (non biomimesi) è uno dei criteri d'indagine maggiormente utilizzati e proficui .... sarebbe veramente interessante.
Sul fatto che "le forme nuove" debbano essere la possibile risposta a criteri e processi progettuali che prendano in seria considerazione le tematiche realizzative e strutturali in maniera integrata con altre prerogative sono assolutamente d'accordo, forse lo sono meno sul fatto che non se possa più. Proprio nella proliferazione delle soluzioni e nella molteplicità delle sperimentazioni si basa la ricerca e si ha la chiave di volta dei processi generativi ed il vantaggio dei processi parametrici.
Sinceramente io auspico una sempre maggiore produzione di forme nuove .... anzi di "processi nuovi" che si finalizzano e concretizzano in forme.
Riguardo alla frase "Architettura che dialoga con l'ambiente" mi sembra un bello spot pubblicitario ma io continuo a vedere sia nell'architettura diffusa come in molta di quella recensita e prodotta dalle archistar un architettura imposta, tuttalpiù "un'architettura che monologa con l'ambiente". Il dialogo presuppone scambio reciproco ... di informazioni, di conoscenze e di valutazioni. La cultura del sostenibile (e la tardiva "moda" tutta italiana) sicuramente stanno producendo una giusta e maggiore attenzione alla qualità dell'architettura, dell'ambiente e dei materiali ma il tutto mi sembra ancora improntato e centrato su un'architettura protagonista e l'ambiente considerato un elemento esterno da tenere in maggior considerazione, più che un elemento in cui siamo profondamente integrati che da noi dipende e da cui noi dipendiamo.
Capire che tutte le cose (e quindi anche le architetture) non vivono di vita a se stante ma appartengono ad un sistema dove sono fra loro profondamente e perennemente connesse, integrate ed in dialogo, ma soprattutto che molto più rilevanti sono le relazioni, i flussi, gli scambi che nascono, si innescano e sono prodotti dall'interazione fra le cose stesse è alla base del concetto di ecologia.
Penso che uno dei grossi cambiamenti in atto nella ricerca architettonica sia appunto il focalizzarsi maggiormente a livello progettuale sulle relazioni, sulle connessioni e sui flussi fra l'organismo architettonico e l'ambiente circostante, sia esso naturale, artificiale, virtuale o informatico.
Io credo che gli strumenti digitali in questo momento ci forniscano la possibilità di analizzare singolarmente numerosi aspetti della progettazione e soprattutto di prevederne dettagliatamente o simularne i comportamenti e le risposte sul campo, la vera sfida in atto è quella di integrare in un unico processo di analisi e definizione della soluzione progettuale un sempre maggior numero di aspetti rendendo maggiormente gestibili, controllabili, valutabili e producibili le inevitabili complessità che ne derivano dall'analisi combinata.
Sono anche molto curioso riguardo le contaminazioni in atto. Si stanno portando all'interno del processo di design molte competenze proprie di altre discipline che maggiormente si sono evolute negli ultimi anni circa la maggiore comprensione delle cose e che non possono che portare innovazione e nuovi ambiti di sperimentazione nella ricerca architettonica. Nuove generazioni di architetti e sopratutto di studenti stanno contaminando con nuovi stimoli e conoscenze le architetture pensate per vederne le possibili implicazioni e migliorie applicabili nel campo architettonico, questi sono a mio giudizio i veri terreni di sperimentazione attuali e futuri. Elettronica, informatica, matematica, biologia, biochimica, scienze dei materiali e delle produzioni stanno diventando sempre più temi integrati nei corsi di architettura e bacini di conoscenze da cui trarre risorse utili per sviluppare modelli e processi progettuali evoluti. Ma come si può ben comprendere l'uso di strumenti digitali è ormai indispensabile sia per la crescente complessità di tali modelli che per la necessità di far dialogare strumenti e dati attualmente disomogenei perché specifici e compartimentati. E cosi le conoscenze e competenze informatiche divengono fondamentali per costruire un lessico, un linguaggio ed un modo e strumento di comunicare che è e sarà sempre più alla base del processo progettuale. Come ben comprendiamo la quantità di dati implementabile nella progettazione sta aumentando vertiginosamente e quindi il saperli reperire, monitorare, manipolare, diagrammare ed importare per renderli utilizzabili in strumenti progettuali innovativi diventa strategico.
Teniamo anche presente che sempre più l'intera progettazione insiste su base digitale, fino a qualche anno fa si passava dalla carta all'elaborazione cad alla carta al cantiere. Oggigiorno il progetto inizia con dati digitali elaborati, processati e manipolati fino a processi produttivi anche loro digitali e customizzabili.
Tutto ciò può essere perseguito o con strumenti preconfezionati ad hoc su cui molte software house oggigiorno stanno spingendo ed investendo molto o, qualora le conoscenze informatiche siano nelle competenze creare invece strumenti sempre più efficaci perché mirati e specifici alle situazioni ed ai problemi da risolvere. Evidentemente questo ultimo caso consente alla figura del progettista la libertà ogni volta di indagare nuove tematiche con strumenti "adatti" e di costruire processi progettuali maggiormente rispondenti alle complessità specifiche che ogni progetto inevitabilmente richiede.
Qui sta la vera differenza, essere costretti all'uso di tools standard ed affrontare i problemi che la tool permette di affrontare o avere la libertà ogni volta di produrre, coniugare e fornire strumenti che ci aiutano nello specifico delle situazioni per offrirci una maggiore libertà di esplorare i vasti territori della progettazione digitale.
Mi puoi raccontare in cosa si sono trasformati - nella vita reale - i tuoi dialoghi in rete?
Direi che nell'ultimo anno molto del mio tempo l'ho speso, anzi dedicato, a trasformare le connessioni digitali in connessioni reali, amicizie, collaborazioni.
AAST ne è stato l'esempio emblematico. Un evento nato essenzialmente sul web, dalla network di amicizie creatasi sulla rete, dai dialoghi, dai sogni, dalla voglia di incontrarsi e trasmettere conoscenza ed interessi. Ancora oggi mi sorprendo di come l'iniziativa di singoli abbia potuto produrre un evento che nel suo piccolo, anzi piccolissimo, per molte persone è stato importante e fondamentale. Fondamentale perché ha espanso ulteriormente la rete di contatti e persone interessate agli argomenti ma soprattutto perché ha permesso a molti ragazzi di avere un primo approccio, tramite i workshop, sia con l'uso di strumenti e tecniche digitali per la progettazione ma ancor più con il vasto apporto teorico che necessariamente ne è parte integrante. Credo appunto che il valore dell'evento sia stato quello di trasformare curiosità e interesse in passione, di aver fatto varcare a molti ragazzi la soglia fra il guardare sul web il lavoro di altri ed il fare, iniziando a muovere in autonomia i primi passi, per quanto timidi ed incerti.
Co-de-iT è un altra "realizzazione" nel senso di concretizzazione reale di connessioni digitali. Nasce dalla voglia di vedere se anche in Italia è possibile ripetere alcune esperienze che abbiamo visto nascere all'estero, ovvero la formazione di gruppi o meglio team di computational design (
LaN o
ModeLAB per citarne alcuni) che si occupano sia di consulenza per la progettazione ma anche di educazione all'uso di strumenti digitali tramite workshop dedicati sia agli studenti che ai professionisti. Forse Co-de-iT nasce come istanziazione di un esigenza manifestatasi sul Web e sicuramente della rete ne assume alcune caratteristiche peculiari. Infatti non è un ente fisico, non ha sedi o strutture, ma è la possibilità a seconda delle opportunità o richieste di radunare competenze e collaborare in modalità diverse. Molte delle opportunità presentatesi sono il frutto stesso del fatto che i membri sono profondamente integrati nella comunità web e fanno del web il loro principale terreno di gioco confrontandosi e dialogando con la crescente network esistente.
Comunque posso asserire che attualmente la mia vita reale (quella di architetto) sia quasi totalmente frutto e figlia delle connessioni digitali e attualmente sto spingendo ancor più affinché le innumerevoli possibilità, potenzialità e opportunità createsi dalle connessioni web si concretizzino in eventi reali.
A che serve un blog per un architetto?
Penso che nel momento in cui si dia ad un blog uno scopo diverso da quello di diario e raccolta di pensieri ed interessi personali si pretenda troppo. Poi ovviamente un blog può diventare molto di più ma questo non può essere congetturato a priori. Non è garantito che un blog diventi luogo di incontro e di scambio di opinioni. È la rete che lo rende e lo renderà qualcosa di diverso. È un po' come progettare una piazza. Possiamo fare il massimo per rendere il nostro progetto adatto a divenire luogo vivo, attivo e catalizzatore di relazioni sociali ... ma saranno le persone, con le loro individualità, le loro molteplici quotidianità e capacità di relazionarsi a decretarne il successo e quindi la trasformazione da progetto a vera Agorà.
A cosa possa poi servire un blog per un architetto ... questo è un argomento a cui non saprei risponderti in maniera seria. Quando ho iniziato, il mio non era il blog di un architetto, ma il diario di un interesse personale ed extra-lavorativo di un architetto. Poi solo nel tempo ho scoperto che l'interesse e le conoscenze che maturavo potevano entrare a far parte del mio modo di praticare, anche se devo ammettere che probabilmente più che aver cambiato il modo di praticare il mestiere hanno cambiato profondamente il mio modo di comprendere e di pensare le cose e quindi di conseguenza tutto il resto. Il blog è comunque stato lo spunto per iniziare a condividere idee e partecipare in maniera sempre più consapevole al dialogo che sulla rete è quanto mai vivo e partecipato. Questo anche tramite i social network dedicati e quelli più diffusi come facebook e twitter che sicuramente rappresentano due "strumenti" di incredibile efficacia quando sono utilizzati in maniera focalizzata. Sicuramente il blog continua ad essere una risorsa ma credo che i social network con la loro naturale predisposizione a creare connessioni e dialogo (cosa che il blog non ha così integrata) siano attualmente strumenti molto interessanti per chi ha voglia di informarsi, confrontarsi e approfondire le proprie curiosità.
Per capire il tuo work in progress vorrei allegare il pdf dei tre anni di pubblicazioni blog. Che ne pensi?Sono d'accordo ..... anche perché credo che il miglior modo per spiegare un blog è quello di lasciarlo leggere a chi è sufficientemente curioso!