24 maggio 2010

0039 [SPECULAZIONE] Un colloquio con Walter Siti

di Salvatore D'Agostino

Walter Siti va semplicemente letto la sua scrittura stride con i titoli e gli occhielli ammiccanti.

Salvatore D'Agostino In un ‘intervista a Peppe Fiore afferma: «In questi vent’anni la cultura umanistica è completamente crollata e noi che insegnavamo alle facoltà di lettere non ce ne siamo occupati. E penso che questa sia stata la colpa più grave della nostra generazione. Io credo che fare gli storici dei sentimenti, cioè capire che cosa ne è stato dei sentimenti in questi anni televisivi, mediatici, sia un lavoro fondamentale. Che ne è stato dell’amore? Capirlo diventa un lavoro politico. Ed è un lavoro che si può fare soltanto con il romanzo»
.[1]
Aggiungerei ’in questi anni televisivi, mediatici’ e d’interazioni virtuali.
Che cosa intende per “capirlo diventa un lavoro politico che si può fare soltanto con il romanzo"?

Walter Siti Ho l’impressione che tra le mutazioni (anche fisiche) a cui la specie umana sta andando incontro, nell’era del progressivo accelerarsi del consumo e delle tecnologie, una delle mutazioni più interessanti sia proprio quella dei sentimenti. L’odio, l’orgoglio, la tenerezza, la malinconia, e ovviamente l’amore, devono tutti lottare contro una perdita della pazienza. Il tempo per nutrire (come si diceva) i sentimenti non c’è più: è eroso progressivamente dalla velocità dei collegamenti e delle comunicazioni. È talmente facile procurarsi dei surrogati, che esteriormente sono perfino più brillanti dei sentimenti veri e soprattutto sono più maneggevoli! Ci illudiamo, se crediamo che questi surrogati appartengano soltanto al mondo dei reality e alla second life della Rete; partendo da lì, invadono quasi per intero il campo della vivibilità, appaiono più moderni e infinitamente più liberi. Si possono gestire (orribile vocabolo) e scambiare come prodotti già confezionati – non hanno quel brutto vizio, che avevano i sentimenti antichi, di inquinare i rapporti con sussulti imprevedibili e imbarazzanti per l’oliato macinare della macchina sociale. Il tempo dell’intimità è finito, la collettività grida sempre più forte e vuole riservati a sé tutti gli eccessi; ormai viviamo tutti in un enorme condominio dove si chiede ragione delle reazioni psichiche che non siano immediatamente etichettabili. Per ogni pulsione c’è un placebo già pronto, prima che la pulsione possa diventare sentimento.
La politica-politica su queste questioni non morde, perché è preda della collettività. Il romanzo, storicamente, è stato il luogo dove gli individui problematici opponevano i loro sentimenti al conformismo del collettivo; anche ora può essere il luogo dove, problematicamente, gli individui mutanti espongono i loro sentimenti surrogati, mutilati o dilatati artificialmente; il luogo dove li fanno collidere con l’urlio sempre più totalitario, ricavandone ancora una strisciata di senso.

Ho immaginato l’enorme condomino da lei descritto come la Dogville di Lars Von Trier - dove i muri delle case della città di ‘Dogville’ non esistono, ma sono schematicamente disegnati in bianco su una superficie nera - con una variante: i vetri degli schermi che usiamo quotidianamente ‘TV, Computer, telefonino’ non producono immagini ma ologrammi con cui ci relazioniamo non solo emotivamente ma anche fisicamente.
A proposito della pervasività dell’immagine nell’era della tecnologia, Marshall Mc Luhan nel suo saggio ‘Gli strumenti del comunicare’[2] riprende un articolo «”Vouge” del 15 marzo 1953: “Oggi una donna, senza uscire dal proprio paese, può avere nel proprio armadio il meglio di cinque o più nazioni: cose belle e in armonia come il sogno di un uomo di stato» - e afferma – «Le dive del cinema e degli attori più popolari sono da essa consegnati al domino pubblico. Diventano sogni che col denaro si possono acquistare. Possono essere comprati, abbracciati e toccati più facilmente che le prostitute. Per questa sua componente di prostituzione tutto ciò che è prodotto in serie incute spesso un certo disagio. Le balcon di Jean Genêt è una commedia sul tema della società come bordello circondato dalla violenza e dall’orrore. L’avido desiderio di prostituirsi dell’umanità resiste al caos della rivoluzione. Il bordello rimane solido e immutabile in mezzo ai cambiamenti più radicali. È stata insomma la fotografia a suggerire a Genêt l’immagine del mondo dell’era fotografica come di un bordello senza muri».
A più di cinquant’anni, che differenza c’è tra il ‘mondo come bordello senza muri’ ipotizzato da Genêt-Luhan e il suo 'enorme condomino'?

Il luogo che ho inventato non è un “enorme condominio”, è una casa popolare con sette appartamenti; tanto per dire che la mia campionatura è scarsa e tendenziosa. Tutto quello che in borgata è speranza di futuro, voglia di costruire, pazienza, non ha cittadinanza nel mio libro. La mutazione in corso ce la faremmo troppo facile se la immaginassimo come una deriva coerente verso l’irrealtà; sarebbe troppo comodo esecrarla moralisticamente e sentirsene immuni. Genêt, e anche Pasolini, immaginavano il consumismo come un universo concentrazionario perché la compulsione al possesso infinito portava inevitabilmente a un labirinto di specchi che moltiplicava l’ossessione. Il rapporto padrone/schiavo finiva per essere riassuntivo della società, intesa come un Moloch compatto, tanto più oppressivo quanto più falsamente tollerante. Il bordello diventava la metafora-principe perché il desiderio sessuale era visto come il più primitivo dei desideri, trasgressivo e omologatore al tempo stesso.
Paradossalmente, la loro disperazione era ottimista: si sapeva subito da che parte stare. Era una disperazione di lusso, tipica di un’epoca affluente. Ora, che i rischi di una deformazione della democrazia sono molto più concreti, temo che ognuno di noi debba fare i conti col proprio bordello personale: una specie di bordello portatile dove l’ossessione del possesso lotta e si dibatte contro una sensazione di asfissia. Nel castello di Salò l’amore era severamente proibito; adesso amore e ossessione si scambiano le maschere, non si sa più quale desiderio sia il fondamento e quale la sublimazione. Nel mio piccolo condominio, ogni appartamento ha un modo diverso di perdersi e di riempirsi di gente nuova; l’ossessione erotica del professore, che ne è un po’ la coscienza critica, si arena alle soglie di un amore postumo e viene condannata da un inconoscibile ragazzo rumeno. L’irrealtà e la virtualità sono terribilmente reali ed effettive.


Nel 'Il contagio', oltre al professore, troviamo una coscienza critica al femminile 'Lucia', un'insegnate universitaria amante di Mauro un imprenditore edile senza scrupoli, nato nelle borgate.
«Il fenomeno etologico della simbiosi, Macbeth con la sua lady, la sindrome del bambino scambiato in culla: Lucia mette in campo l'intero esercito delle proprie nozioni, socio e psicologiche, ma Mauro continua a sembrarle un enigma. Per risarcirsi in qualche misura della triste consapevolezza che la cultura non basta, cerca di culturalizzare il loro legame, accusa Mauro di non avere interessi; «uno con il tuo intuito e la tua velocità, è un peccato restare chiuso nel recinto dei soldi... se tu leggessi di più, se ti abituassi a vedere la realtà nella sua interezza... anche non materiale, simbolica... forse perfino i tuoi orizzonti economici si allargherebbero... io ammiro molto che ti sei costruito da solo, ma tutti noi siamo responsabili di qualcosa di più ampio». «Tanto c'è internet» risponde lui per stuzzicarla. Ma sotto sotto è ferito, gli piacerebbe assorbire il virus dell'istruzione; se ne accorge le poche volte che escono, che lei è padrona della storia e della geografia - le chiese, i palazzi, per lei vogliono dire qualcosa, è come se in città passeggiasse tra amici. Perfino "non mollare" e "tiremm innanz", che lui li dice sempre. Lucia gli ha garantito che il primo viene da un giornale socialista e non da Gigi D'Alessio e Simona Ventura, il secondo era un patriota che rinunciava a salutare i suoi figli per non tradire la causa».[3]
Più di cinquant'anni fa il giornalista Antonio Cederna pubblicava un libro dal titolo 'Vandali in casa'[4] dove denunciava l'attitudine alla bieca speculazione - noncuranti della storia sia del passato sia del presente - dei protagonisti dell'edilizia italiana.
I Mauro sono solo rozzi borgatari? Possiamo ancora chiamarli vandali?


WS
Beh no, i Vandali hanno vinto qualche battaglia e hanno fondato il loro regno, come gli Stati barbarici in Europa tra il IV e il V secolo dopo Cristo. Anche la loro cultura si è consolidata e (come accade nei regni barbarici) si è contaminata con la cultura dei dominatori precedenti. Berlusconi ama i libri antichi e le cose belle, si fa consigliare da critici d’arte per i suoi acquisti; solo che davvero non capisce perché gli aquilani si ostinino a voler tornare tra vicoli stretti e in case buie, quando lui gliene ha costruito delle nuove dotate di ogni comfort. Direi che quello che manca ai nuovi barbari regnanti è la stratificazione, la percezione dell’abitare come sedimentarsi di sublimazioni. Al massimo (e a stento) possono capire la memoria: ma non colgono la malinconia, la solidarietà, l’appartenenza, l’inconscio collettivo.
Sono tutte cose, queste, che stanno generalmente sparendo dall’orizzonte: molti studenti dell’Aquila ci vanno volentieri nei borghi-satellite, perché già prima del terremoto s’erano abituati a passare nei centri commerciali gran parte del loro week-end. Molte periferie sembrano costruite dopo un terremoto che non c’è stato, e non sono uniformemente brutte: contengono angoli decisamente belli, scorci spaesanti e sorprendenti, biblioteche di vetro che sei al Quarticciolo e sembra d’essere a Stoccolma. La loro invivibilità è a macchia di leopardo, come la rozzezza dei nuovi barbari regnanti. Al tempo di Cederna, una borghesia colta ancora piuttosto sicura di sé poteva espellere dal proprio immaginario l’inquinamento culturale, proprio come espelleva (almeno idealmente) i palazzinari dai suoi salotti. Ora ho l’impressione che quella borghesia sia una specie in via d’estinzione e che molti abbiano dato le loro figlie in spose ai nuovi barbari. Dove le figlie sono proprio le idee, le antiche certezze. I nipotini assomigliano un po’ al nonno che ascolta Schubert e un po’ al nonno che si diverte con La pupa e il secchione; non sapranno più che cosa gli viene dall’uno e che cosa dall’altro.

Lei è stato professore di Letteratura italiana contemporanea all’Università dell’Aquila.
È ritornato all'Aquila dopo il terremoto?


No, non sono più tornato all'Aquila dopo il terremoto, non ne ho più avuto l’occasione.


La precedente risposta mi riporta a un passo significativo del ‘Il contagio’: «L’appassionata analisi di Pasolini, vecchia di oltre trentanni  andrebbe rovesciata: non sono le borgate che si stanno imborghesendo, ma è la borghesia che si sta (se così si può dire) “imborgatando”. Al di là dell’esperienza biografica di pochi individui sbrancati, o dell’arroganza esibizionistica di qualche ricco che gioca al sottoproletario (“se hai dei soldi, una bella macchina e un po’ di cocaina, puoi scopare chiunque” è un motto del carcere ammirato e condiviso da Fabrizio Corona) – al di là dei casi singoli, vige un’effettiva solidarietà strutturale: nel continuum indifferenziato di chi il mondo non sa più vederlo intero, è l’ideologia di quelli che una volta si chiamavano gli esclusi (i lumpen, i sub-culturali) a risultare egemone)».[5]
Francesco Merlo nel suo recente libro ‘FAQ Italia’ - da giornalista - rivede il pensiero pasoliniano:

«Tutto l’attuale Strapaese è, magari incosapevolamente (sic), innanzitutto pasoliniano perché Pasolini, innamorato del sottoproletariato e del mondo contadino che aveva in testa e che gli pareva il tempio della premodernità antifascista, sognava nelle lucciole il ritorno a una società superata ma migliore. Oggi è lucciola pasoliniana anche il cattolicesimo che si fa tomismo, è lucciola il latino nella messa, è lucciola l’idea che la realtà dissolta possa avere ragione del mondo moderno. Ed è lucciola non solo l’Italia che si oppone ai treni veloci, ai posti, ai termovalorizzatori, alle autostrade ma anche quella che disprezza gli architetti e non vuole i grattacieli, che infatti non piacciono né al costruttore arcitaliano Berlusconi né al padano premoderno Celentano cresciuto in via Gluck, spazio metafisico maledettamente simile alla cascina Magnano di Umberto Bossi elevata a cattedra e a università della ruralità leghista».[6]
Le confesso, c’è qualcosa che non mi convince.
Mi spiego, forse quella borghesia cerderniana non aveva le capacità ‘intellettuali’ per rinnovare il paese, lasciando - non incolpevolmente - ai non borghesi ‘fisiologicamente incolti’ l’incombenza di farlo? Eppure la letteratura - con Italo Calvino attraverso il Caisotti della 'Speculazione Edilizia' e Carlo Emilio Gadda con il suo Pastrufazio ‘Della cognizione del dolore’ - aveva saputo raccontare questo delicato passaggio.


Lo shock che ha colpito gli intellettuali è stato conseguente a una troppo rapida sparizione del passato; soprattutto per quelli che venivano dalla borghesia colta, cioè da un ceto che aveva radicato il proprio privilegio nella capacità di possedere la Storia. Tra gli Anni Ottanta e i Novanta, noi tutti che insegnavamo all'università abbiamo dovuto registrare che nella mente dei giovani lo spazio e il tempo si stavano contraendo fino a diventare poco più che dei flatus vocis. Così brutalmente deprivati di un loro possedimento, gli intellettuali hanno finito per idealizzare il passato, conferendogli una tinta poetica e identificandolo con una bellezza sobria e intimista, tutto sommato stereotipa.
Forse non hanno avuto la forza di guardare in faccia la mutazione e di azzardarsi verso una nuova bellezza dai tratti sconosciuti. I nuovi meticciati li hanno chiamati barbarie, perché così era più consolante. La cultura è diventata sempre di più un bene-rifugio o al massimo un valore di scambio, non un valore d’uso da spendere nella vita bassa e caotica in cui si afferma il mutamento. I quartieri (anche mentali) abitati dagli intellettuali assomigliano sempre di più a isole felici e imbalsamate, dove non c’è una foglia fuori posto e anche gli uccellini cantano a tempo di musica. Avendo fatto di se stessi un paradiso turistico, solo l’emergenza e la sommossa li possono svegliare.

Nell'ottobre del 2008 si reca negli Emirati Arabi per un racconto di viaggio da pubblicare nella collana ‘24/7 Strager’ della Rizzoli. Alla fine del viaggio confessa: «Quasi quasi faccio il tifo per loro. Una cosa è certa: se volevo disintossicarmi, non è stata una buona idea venire qui. Questo Paese è intagliato nella stessa materia delle mie ossessioni, ha puntato sugli stessi numeri».[7]
Quali?

Beh, sono i numeri della quantità che sfida la qualità, del pretendere amore in cambio di denaro. Gli Emirati hanno attirato folle di imprenditori entusiasti e (sedicenti) adoranti solo perché tutto lì veniva strapagato, i controlli bancari erano minimi eccetera. Dubai è un luogo dove si vende l’immagine molto più che la realtà, e dove il lusso è chiamato a surrogare la felicità. Un luogo dove l’ossessione del possesso maschera oceani di disamore, di autoritarismo e di competizione frustrata. Il parallelo con la mia povera vita privata lo faccia lei.

Mentre preparavo quest’intervista mi diceva: «lunedì 19 consegnerò a Mondadori il mio prossimo romanzo».[8]
Com’è andata?

Ho effettivamente consegnato il libro, che uscirà in ottobre. Si intitola Autopsia dell’ossessione e parla giustappunto delle cose di cui alla risposta precedente.

24 maggio 2010


Intersezioni --->SPECULAZIONE
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Note:
[1] Peppe Fiore, Intervista a Walter Siti, Minima & moralia (blog), 29 luglio 2009. Link
[2]
Marshall McLuhan, Gli strumenti del comunicare, Il saggiatore, Milano, 1997, pp. 201-202
[3] Walter Siti, Il contagio, Mondadori, Milano, 2008, p. 234
[4] Antonio Cederna, Vandali in casa, Laterza, Bari, 1956
[5]
Walter Siti, Il contagio, Mondadori, Milano, 2008, p. 313
[6]
Francesco Merlo, FAQ Italia, Bompiani, Milano, 2009, p. 49
[7]
Walter Siti, Il canto del diavolo, Rizzoli, Milano, 2009, p. 200
[8]
mail del 12 aprile 2010

L'immagine è stata tratta dal libro di Walter Siti, Il contagio, Mondadori, Milano, 2008


2 commenti:

  1. Come più volte ho spiegato il blog è diventato una pagina condivisa altrove si chiacchiera sui contenuti.
    Riporto due frammenti tratti da facebook:

    1° di Facebook

    Salvatore Benintende:
    un invito a tutti i taggati: commentiamo sul blog Wilfing e non qui. grazie.

    Salvatore D'Agostino
    ---> Salvatore,
    capisco non ami facebook.
    A proposito di facebook ti riporto un commento di un mio amico: “ a quarant’’anni mi viene difficile chiedere alla gente di diventare mio amico”.
    Saluti,
    Salvatore D’Agostino

    Giuseppe Genna
    Formidabili intervistatore e intervistato. Grazie, davvero.

    Salvatore D'Agostino
    ----> Giuseppe Genna,
    lieto del tuo commento.
    Ne approfitto per dirti che il tuo intervento alla Oilproject ‘Narrazione e attenzione ai tempi frenetici di Internet' con Luca De Biasi è molto stimolante.
    Ne parlerò presto in un mio post su Wilfing Architettura.
    Ti ringrazio per gli spunti.... Mostra tutto
    Un caro saluto,
    Salvatore D’Agostino

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  2. 2° di facebook

    Francesco Alois:
    L'intervista è davvero stimolante soprattutto per il fatto che spiega alcuni "perché" per così dire sociali (perché a L'Aquila la gente non va nelle nuove case ad esempio) che sono senz'altro la parte che maggiormente dovrebbe interessare sia il progettista, sia il committente sia esso pubblico o privato, sia le amministrazioni.

    Salvatore D'Agostino:
    ---> Francesco,
    la letteratura, la poesia e l’arte (almeno una parte di essa) ci aiutano a pensare ad aree e manufatti non semplicemente in ‘funzione’ di qualche cosa.
    L’architettura deve recuperare il suo aspetto affascinante ovvero il ‘racconto’.
    I libri di Siti a volte spiazzanti al limite del corrosivo ti descrivono interni (soprattutto dell’anima) che la televisione (Siti è molto attento alla TV, cura una rubrica sulla Stampa) non racconta, poiché li coabita.
    Importante questo passaggio: « Molte periferie sembrano costruite dopo un terremoto che non c’è stato, e non sono uniformemente brutte: contengono angoli decisamente belli, scorci spaesanti e sorprendenti, biblioteche di vetro che sei al Quarticciolo e sembra d’essere a Stoccolma. La loro invivibilità è a macchia di leopardo, come la rozzezza dei nuovi barbari regnanti. Al tempo di Cederna, una borghesia colta ancora piuttosto sicura di sé poteva espellere dal proprio immaginario l’inquinamento culturale, proprio come espelleva (almeno idealmente) i palazzinari dai suoi salotti. Ora ho l’impressione che quella borghesia sia una specie in via d’estinzione e che molti abbiano dato le loro figlie in spose ai nuovi barbari. Dove le figlie sono proprio le idee, le antiche certezze. I nipotini assomigliano un po’ al nonno che ascolta Schubert e un po’ al nonno che si diverte con La pupa e il secchione; non sapranno più che cosa gli viene dall’uno e che cosa dall’altro».
    Saluti,
    Salvatore D’Agostino

    Francesco Alois:
    Questo è uno dei passaggi veramente più belli.

    RispondiElimina

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