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30 aprile 2009

0031 [SPECULAZIONE] In nome di cosa continuiamo a sentirci migliori?

Cristiano de Majo sul mensile Diario di questo mese ha scritto un lungo articolo ponendo delle domande alle ultime generazioni di sinistra, dal 68' in poi: «Perché nessuna di queste persone si preoccupa di misurare le proprie responsabilità? In nome di cosa continuiamo a sentirci migliori?»
A mio parere c'è una generazione vincente che ha eletto la più giovane presidente della Camera della storia italiana, Irene Pivetti, a soli 31 anni; Mara Carfagna, Ministro per le Pari Opportunità a solo 33 anni; Daniele Capezzone, portavoce del Popolo della Libertà a 37 anni e Mariastella Gelmini, Ministro dell'Istruzione, Università e Ricerca a 36 anni, una generazione importante che non può essere dileggiata e sottovalutata dagli intellettuali di sinistra.
Recentemente Eugenio Scalfari sulla Repubblica, del 19 aprile 2009, "Chi canta fuori dal coro è comunista"1 conclude così: «Bisogna resistere per costruire il futuro.». Una frase antica e perdente ricorda il monito dell'allora procuratore capo di Milano Francesco Saverio Borrelli: «Resistere, resistere, resistere»2
Da troppi anni, si resiste, senza agire. È arrivato il momento di uscire fuori dalla trincea dello snobismo culturale e sporcarsi un po' le mani.
«Spostate quei soldi, per favore, nella scuola e nella televisione. Il Paese reale è lì, ed è lì la battaglia che dovremmo combattere con quei soldi. Perché mai lasciamo scappare mandrie intere dal recinto, senza battere ciglio, per poi dannarci a inseguire i fuggitivi, uno ad uno, tempo dopo, a colpi di teatri, musei, festival, fiere e eventi, dissanguandoci in un lavoro assurdo?»3 (Alessandro Baricco)
Occorre spostarsi nel paese reale e non continuare a compiacerci senza assumerci le responsabilità, dice Cristiano de Majo. Con il suo consenso pubblico l'articolo sopracitato.4
Buona lettura.

In nome di cosa continuiamo a sentirci migliori?


Che cos’è il potere? Se un giorno mio figlio dovesse rivolgermi questa domanda, dilaniato dagli scrupoli, finirei per dargli una risposta evasiva. Per evitare condizionamenti di qualsiasi genere, formulerei un aforisma prêt-à-porter, un esercizio pedagogico interlocutorio in attesa che cresca: Il potere, figliolo, è la cosa che cerca in tutti i modi di impedire la tua espressione personale e professionale, qualunque cosa o persona ti scelga come nemico. Inventerei qualcosa del genere, senza fare nomi e senza chiamare in causa i massimi sistemi. E comunque eviterei accuratamente di prospettargli la possibilità di cambiare le cose. A questo mio figlio che non esiste ancora cercherei infondere disillusione a priori. Quella che io, durante la mia infanzia, non ho avuto. Perché ho sempre saputo da che parte stare fino a che non è arrivato il futuro.
Nato nella metà degli anni Settanta, faccio parte di una generazione cresciuta sotto l’ombrello di troppe certezze e che, per contrappasso, si è trovata risucchiata nei buchi neri di un’incertezza cosmica. Fin dalla più tenera età sono stato indottrinato, ma in un modo naturale, involontario, visto che non ci potevano essere dubbi su quale fosse la verità e dove risiedesse. A cinque anni leggevo Repubblica e Paese Sera seduto in braccio a mio padre. E più o meno a quell’età ho imparato la fondamentale distinzione tra bene (sinistra) e male (destra, centro, religione, Andreotti).
Mi tornano in mente le domeniche, quando ascoltavamo Banana Republic, il live del mitico tour De Gregori - Dalla del 1979, mentre nel nostro appartamento venivano celebrate rievocazioni ufficiali della contestazione. Ero fiero che i miei genitori, come dicevano loro, avessero fatto il Sessantotto e che mia madre avesse partecipato ai gruppi femministi di autocoscienza e che per un certo periodo avesse distribuito Lotta Continua all’università. Mi piaceva sentire quelle storie, che mi facevano venire voglia di tornare indietro nel tempo per contribuire alla causa a modo io, o anche solo per poter dire di esserci stato. A quattordici anni ero lo spettatore della Notte della Repubblica che tifava contro Sergio Zavoli.
D’estate andavamo in campeggi sulla costa greca frequentati esclusivamente da gente di una certa frangia. Erano giornalisti del Manifesto, insegnanti universitari con fantomatici trascorsi nei Nap, psichiatri antistrutturalisti che avevano fatto i candidati nelle liste di Democrazia Proletaria. Sentivo come il privilegio di essere parte di un’elite di migliori. I peggiori non li avevo mai visti. Ma immaginavo si nascondessero nel potere, la forza oscura che aveva impedito all’utopia di avverarsi.
Agli inizi degli anni Novanta ero abbastanza grande per assistere coi miei occhi alla stagione del cambiamento. L’implosione del potere reazionario che per cinquant’anni aveva tenuto in pugno l’Italia stava lasciando enormi spazi vuoti che sarebbero stati riempiti con dosi massicce di speranza. A Napoli, la mia città, l’elezione di Antonio Bassolino fu salutata come un momento di profondo rinnovamento, una specie di rivoluzione elettorale che avrebbe persino spinto qualcuno a intonare The times They’re a-Changin’. Se ci penso adesso, è incredibile come nella figura di un uomo di apparato – un uomo che avrebbe fatto dell’esercizio del potere la propria ragion d’essere politica – si concentrassero un miscuglio di aspettative così campate in aria. Di certo nessuno si aspettava il sovvertimento del sistema capitalista, ma nelle persone che conoscevo, nei miei genitori e nei loro amici, potevo intravedere un luccichio negli occhi, un senso di risarcimento per tutte le battaglie perse, le delusioni, le soddisfazioni che il potere aveva loro negato. Quella elezione, insieme ad altre, fu anche una specie di rimborso generazionale. E quindi, ancora una volta, un investimento di illusioni, fatto di quel tipico sentimento di speranza estraneo alla realpolitik che, in modo del tutto incongruo, continua, anche oggi ma più flebilmente, a percorrere lo spirito di certe manifestazioni del Pd o della sinistra radicale. Si percepisce negli inni di Fossati che risuonano, nelle bandiere che sventolano quando qualche oligarca ancora ben voluto sale sul palco di una piazza, nell’abbigliamento dei ragazzi, figli di famiglie di sinistra, passate senza soluzione di continuità dal culto di Marcuse a quello di Dario Franceschini.
Quando qualche volta mi capita di parlare con i miei genitori e i loro amici, sessantenni delusi ed estranei a qualsiasi tipo di partecipazione che veleggiano sulle acque calme delle gratificazioni spirituali ed enogastronomiche, e affronto la delicata questione del giudizio su ciò che di buono la loro generazione ha fatto, finisco quasi sempre per litigare con tutti. La loro versione della storia non mi convince, continua ad assomigliare troppo a una fiaba senza lieto fine dove i buoni avrebbero potuto vincere se non fosse stato per i cattivi (che hanno sempre la meglio). Quello che rimprovero loro è il sottrarsi a qualsiasi ammissione di responsabilità. Di solito mi rispondono che almeno ci hanno provato a fare le battaglie che andavano fatte e hanno comunque contribuito a migliorare il Paese, mentre noi – la generazione di cui faccio parte – non abbiamo neanche tentato di fare qualcosa. La mia obiezione è che il senso di quelle battaglie va letto alla luce di cosa è successo dopo. E, sotto questa luce, le famose battaglie non sembrano avere avuto molto senso se si pensa all’Italia berlusconiana o alla condizione disperatamente priva di prospettive che la maggior parte dei miei coetanei si trova ad affrontare. Sono anche loro – la generazione dei Veltroni, dei D’Alema, dei Cacciari, baby boomer passati dalle più ambiziose utopie al pragmatismo prussiano – ad avere lasciato ai propri figli quest’Italia, un luogo brado e senza futuro dove vige la legge del più forte e l’ingiustizia sociale è una prassi consolidata.
Qualche tempo fa, proprio nel corso di uno di questi rendez-vous intergenerazionali, sfinito da una discussione su Berlusconi come unica causa dei nostri guasti, mi sono messo a urlare: «Siete degli ingenui». Qualcuno mi ha urlato di rimando: «Allora spiegacelo tu cos’è il potere».
Ho capito che il problema era il diverso significato che stavamo attribuendo alla parola. Pur continuando a identificare in modo quasi automatico la parola potere con l’immagine del volgare imprenditore brianzolo tirato e abbronzato mentre passeggia con la bandana a Porto Cervo, il mio modo di relazionarmi al potere aveva cessato di essere un fatto puramente astratto. Avevo conosciuto un potere familiare e insospettabile, elegante e colto, che in qualche modo aveva demolito le mie ultime certezze.
Per fare capire ai miei genitori e ai loro amici cosa cercavo di dire, avrei potuto consigliare la lettura delle Lettere a nessuno di Antonio Moresco, quadro avvilente, tragico, grottesco del potere culturale italiano, uscito nel 1991 per Bollati Boringhieri e di recente ristampato da Einaudi.
È un libro in cui, attraverso appunti, stralci e lettere, Moresco racconta pezzi della sua vita, dagli anni Settanta, Ottanta, fino al momento della rinascita come scrittore celebrato e odiato, stimato e villipeso. La parabola delinea in modo preciso e disperato un’estenuante lotta donchisciottesca contro il potere. Dapprima, con l’impegno politico in un gruppuscolo della sinistra extraparlamentare – una vita di stenti, delusioni, frustrazioni, e fiducia mal riposta – e poi, con i tentativi di fare leggere i suoi scritti, o quantomeno di farsi ascoltare, da alcuni illustri esponenti della cultura italiana (i nessuno del titolo). Quali che siano il contesto storico e lo scenario, Moresco appare sempre come una formichina alle prese con cose titaniche e impossibili da combattere. Ma le sue lettere a Giovanni Raboni, Maria Corti, Goffredo Fofi e il fastidio o – nel migliore dei casi – il silenzio che riceve in cambio danno esattamente la misura di come le articolazioni del potere siano multiformi e mascherate. Ne esce fuori il ritratto di un Paese dove pubblicare un libro senza uniformarsi alla logica dominante – la logica delle amicizie e delle leccate di culo, dei libri scritti per andare incontro al gusto del pubblico – può risultare utopistico come realizzare una nuova rivoluzione d’ottobre.
Leggendo mi è venuto da pensare che per chi non si adegua all’esistente è sempre dietro l’angolo il rischio di fare la parte del martire. Così come lo diventa Moresco, la cui figura nel corso della lettura assume proprio la forma di un martire laico che a un certo punto si convince della sua santità. Ma bisognerebbe ribaltare la prospettiva, perché, parafrasando un vecchio adagio di sinistra, è proprio questo il caso in cui il personale deve diventare politico.

In Italia la cultura continua a essere un campo sostanzialmente di sinistra – l’ultimo settore monopolizzato dalla sinistra – ma se si volesse descrivere onestamente lo stato attuale dell’industria culturale con lo stesso grado di severità che impieghiamo per descrivere la situazione politica, si potrebbe utilizzare una lista di aggettivi simili: disastroso, dittatoriale, populista, ambiguo.
Anche qui siamo nel regno delle diseguaglianze e del conformismo, dello sfruttamento e della doppia morale. Siamo in un sistema che non è in grado di riconoscere a un testo un adeguato valore economico, a meno che l’autore di quel testo non sia uno scrittore di successo che abbia già sfondato il mercato. Nello stesso tempo abbiamo un mercato che dimostra una grande ostilità nei confronti dei prodotti difficili e quindi – da un punto di vista letterario, cinematografico, televisivo – finisce per scommettere sempre sul sicuro, sull’opera media. Viviamo, peraltro, una sindrome da trincea, in ragione della quale finiscono per essere privilegiati gli autori e le opere schierati aprioristicamente, rispetto agli sguardi obliqui, dissonanti, disturbanti, realmente anticonformisti.
La mia esperienza, che del resto è simile a quella delle persone che conosco e che fanno il mio stesso lavoro – e che quindi non è martirologica ma sistemica – delinea il quadro di una cultura autoritaria, forte con i deboli e in definitiva non libera.
Innanzitutto perché lavorare nel campo della cultura – nei giornali, nelle case editrici – molto spesso, a meno di non essere scrittori di best seller, significa abituarsi a non essere pagati, oppure a essere pagati a piacere, il che è un terribile sintomo di come la cultura stessa sia considerata un optional, una ginnastica mentale per gente ricca di famiglia, qualcosa di cui in definitiva si può anche fare a meno.
E poi ci sono le case editrici – assolutamente di sinistra – sempre più assetate di libri «freschi» e «divertenti», che possano «stuzzicare il lettore» senza essere «troppo pesanti». E che dunque a quest’atmosfera nazionale che – ne sono certo – si spingerebbero a definire plumbea, opprimente, fascistoide, volgarmente incolta, offrono la risposta dell’Intrattenimento, della volatilità, della facilità spacciata per cultura sopraffina. Che poi è la logica che guida manifestazioni come lo Strega, l’unico premio letterario al mondo dove a essere ricompensata non è la qualità o l’eventuale novità di un testo, ma la sua vendibilità.
Infine i metodi della cooptazione, che sono ancora una volta praticati attraverso lottizzazioni, corsie preferenziali, conoscenze, adulazioni. Letteralmente impossibile realizzare la normalità di essere ricevuti da chicchessia a seguito di invio del curriculum.
Lo stesso Moresco, che in un celebre articolo scritto qualche anno fa, intitolato La restaurazione5 ce fonte di molte polemiche sui blog letterari, diceva cose simili, ha giustamente fatto notare che mentre è pacifico sostenere che l’Italia sia un Paese affetto da una «intossicazione delle forme economico-politiche e democratiche», non lo è altrettanto sostenere che quest’intossicazione riguardi anche la cosiddetta cultura.
Deve essere per colpa di questa cecità che a un tratto ho incominciato a sviluppare un odio viscerale per i miti mediatici della sinistra contemporanea. Propugnatori della qualità come Fabio Fazio e Roberto Benigni e Giovanni Floris e Serena Dandini. Ognuno a suo modo ha coltivato la propria arcadia televisiva, ritenendosi esente da qualsiasi contagio, e continuando la sua opera di pedagogia delle masse. Nessuno di loro ammetterebbe di essere stato inoffensivo, o addirittura funzionale alla macchina del potere. Eppure ci dev’essere un motivo se in questo cosiddetto ventennio berlusconiano hanno continuato a lavorare, a percepire stipendi milionari, a occupare il loro spazio di potere, stabilendo cosa dovesse essere letto (Paolo Giordano), ascoltato (Giovanni Allevi), visto (Ferzan Ozpetek) – ancora intrattenimento spacciato per elevato nutrimento che soltanto loro sanno offrire – e proteggendo le loro reti di amicizie, e identificando nella destra la causa di tutti i mali, o esercitando sulla sinistra un giudizio dolcemente critico, bonario e di prammatica, come un rimprovero paterno.
Tutte queste persone di sinistra si troverebbero senz’altro d’accordo sul fatto che l’Italia sia oppressa da un’odiosa forma di potere, ma ancora una volta qual è il loro contributo? Perché nessuna di queste persone si preoccupa di misurare le proprie responsabilità? In nome di cosa continuiamo a sentirci migliori?


© Cristiano de Majo

Articolo pubblicato sul mensile Diario, aprile 2009, anno XIV n.6

Consiglio:
da ascoltare una puntata di radio tre, programma Fahrenheit, 'I trentenni dell'era Berlusconi' del 8 aprile 2009. Ospite Cristiano de Majo.

intersezioni --->SPECULAZIONE

Come usare WA ---------------------------------------------------Cos'è WA
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1Eugenio Scalfari 'Chi canta fuori dal coro è comunista', La Repubblica, 19 aprile 2009.

2s. a. Borrelli, Appello ai giudici 'Resistere come sul Piave', La Repubblica, 12 gennaio 2002.

3Alessandro Baricco, 'Basta soldi pubblici al teatro meglio puntare su scuola e tv', La Repubblica, 24 febbraio 2009.

4Mail di contatto:

Cristiano,
letto. Mi piacerebbe pubblicare l'intero articolo sul mio blog per tastare, attraverso i commenti, gli umori.
Che ne pensi?
Aspetto tue notizie a tal proposito.
SD
Inviato: lunedì 20 aprile 2009 18.19

caro salvatore, puoi pubblicare l'articolo quando vuoi.
ciao e grazie
Inviato: lunedì 20 aprile 2009 19.55


5Antonio Moresco, 'La restaurazione', sito Nazione Indiana, 22 marzo 2005: http://www.nazioneindiana.com/2005/04/09/la-restaurazione/

22 aprile 2009

0006 [FUGA DI CERVELLI] Colloquio Sudafrica ---> Italia con Louis Kruger

di Salvatore D'Agostino 
Fuga di cervelli è una TAG non una definizione. La TAG è contenitore di diversi 'punti di vista'. 

L'Italia vista e progettata dai migranti.


Adelfia (BA)

Salvatore D’Agostino Louis Kruger di anni..., originario di..., migrante a, ...qual è il tuo mestiere? 

Louis Kruger quest'anno compio 50 anni. Mezzo secolo, metà trascorso in Sudafrica, sono nato a Johannesburg e l'altra metà in Italia ad Adelfia, un paesino vicino a Bari.
Faccio l'architetto, anche se preferisco il modo di dire in inglese: sono un architetto. 

Perché hai lasciato il Sudafrica? 

Principalmente per motivi politici. Sono andato via negli anni in cui lo scontro tra la politica repressiva dell’apartheid e la lotta per la liberazione dei neri stava raggiungendo l'apice. Sebbene Boero, cioè bianco afrikaner, come chi aveva instaurato il regime segregazionista, ero assolutamente contrario alle loro idee politiche, pur non sentendomi parte del movimento di lotta attiva per l'abbattimento del regime. Ho preferito andare via come disertore, rifiutando di prestare servizio militare che all'epoca significava combattere chi voleva un Sudafrica libero.



Qual è stata la tua formazione professionale in Sudafrica?

Mi sono laureato all'università del Witwatersrand a Johannesburg, una facoltà che insegnava col metodo Bauhaus, teoria pratica, mirata sempre verso la produzione, verso il mondo del lavoro. La creatività non fine a se stessa, non un oggetto di culto, ma qualcosa a portata di tutti. L'intero quarto anno del nostro piano di studi prevedeva il lavoro presso uno studio di architettura, per poi ritornare altri due anni all'università, cosciente della professione che ci attendeva. 
La facoltà aveva docenti che in passato erano in stretto collegamento con Le Corbusier, portando "International Style" in Sudafrica, mitigandolo in seguito in un'architettura più regionale con influenza di Marcel Breuer, di Richard Neutra, di Rudolf Schindler e sopratutto di Oscar Niemeyer. 
Amancio D'Alpoim Guedes, membro del CIAM e dopo del Team 10 era il preside della facoltà. 
Leon Van Schaik, il mio professore di progettazione, ha il merito di aver portato la facoltà di architettura di Melbourne , prima come preside e dopo come Innovation Professor, a essere considerata una delle 10 migliori facoltà di architettura nel mondo.
Anche mio padre era un architetto ed è morto in un incidente stradale quando avevo dieci anni. Sono nato nella casa di un architetto, cresciuto in case di architetti e ho progettato la mia prima casa all'età di ventuno anni. Una nuova casa per il secondo matrimonio di un cliente di mio padre. In Sudafrica chiunque può presentare un progetto e farlo approvare al comune e chiunque può realizzare la propria abitazione. Non so se la burocrazia è arrivata nel frattempo anche lì.

Qual è stato invece il tuo percorso in Italia?

In un certo senso è stata la mia rivoluzione privata, mi sento di aver espiato, in parte, le colpe del mio popolo di origine, con tutte le difficoltà che ho dovuto affrontare. Appena arrivato in Italia ho scoperto che la mia laurea non era riconosciuta, non c'erano rapporti di reciprocità tra l'Italia e il Sudafrica.  Ottenere questo riconoscimento non è stato facile. Il sacrificio maggiore è stato affrontare la burocrazia per ottenere l’iscrizione alla facoltà di architettura. Studiare è stato più semplice. 
Nel frattempo ho imparato la lingua italiana e contemporaneamente la burocrazia italiana. Ora, con la lingua me la cavo, con la burocrazia ancora poco. 
Dopo quasi tre anni, un travaglio lunghissimo, mi sono iscritto alla Facoltà di architettura di Pescara, l'università più vicina, all'epoca non c'era ancora quella di Bari. 
Sin dal mio arrivo in Italia ho cominciato a lavorare in uno studio tecnico a Bari, rilasciando regolari fatture come "disegnatore" una fortuna, vedendo e capendo lentamente la situazione italiana. Quindi studiavo e lavoravo. 
Un po’ per il mio carattere, ma sopratutto influenzato dalla mentalità italiana, mi sentivo incapace di muovermi, cambiare, trovare di meglio avevo perso quell'incoscienza con cui ero venuto, o meglio, quell'ingenua fiducia con cui i giovani credono che tutto sia possibile. 
Mi sono laureato nel 1989, ho superato lo scoglio dell'abilitazione e mi sono iscritto all'ordine degli architetti. 
Da un lavoretto all'altro, ho incominciato lentamente la libera professione. 
La prassi era ancora di considerare il geometra o l'ingegnere come i progettisti e l'architetto come "abbellitore" d’interni e, qualche volta, di facciate esterne. 
Con la mia formazione e con il mio operato sul territorio sono riuscito a convincere (altrettanto lentamente) i miei clienti privati e in seguito qualche impresa di costruzione, del ruolo diverso dell'architetto. 
Non è stato facile essere concorrenziale con geometri e ingegneri (richiede pazienza e umiltà) e non è stato facile essere convincente sul valore che possa avere in più l'opera architettonica (richiede una passione e una dedizione totale) e senza che costi necessariamente di più, o che sia più complicata da realizzare (richiede una coerenza e una responsabilità), ora sono nelle condizioni di poter esprimere e ricercare uno stile personale: essere contemporaneo in un contesto internazionale, ma sopratutto attento alle condizioni locali, di un'architettura legata alla storia, al clima, ai materiali e alle tecnologie e metodi costruttivi del luogo e molto condizionata dal concetto di architettura che ha la gente, rendere dinamico questo concetto. 
Attraverso il processo d’integrazione in un contesto locale, l'immigrante è in grado di identificare, rispettare e confermare le particolarità delle condizioni locali, svolgendo un ruolo reazionario ma è soprattutto grazie alla sua condizione di estraneità, che l'immigrante riesce a individuare le limitazioni locali, e (im)portare le necessarie innovazioni, svolgendo un ruolo liberatorio.

Come?

Questa dialettica è presente in tutti i miei lavori, a volte concretamente, a volte solo nel processo creativo tra me e i miei clienti. Per ovvi motivi, è più evidente nella casa che ho realizzato per la mia famiglia ad Adelfia:

  • la tipologia e l'impostazione volumetrica, con la facciata a filo strada, relativamente chiusa e solida è contestuale, integrata con gli edifici circostanti;
  • il rivestimento di lamiera ondulata funziona come facciata tecnologica, ma è sopratutto il materiale per eccellenza usato nel Sudafrica coloniale, un materiale importato dell'Inghilterra (rivoluzione industriale/prefabbricazione) un materiale indistruttibile e riutilizzabile, che caratterizza la bidonville in tutto il mondo. L'estraneità/precarietà;
  • l'impostazione spaziale è decisamente modernista (Adolf Loos, Le Corbusier, Mies Van Der Rohe) eppure, salendo le scale da un dislivello all’altro, molti mi chiedono se è stato un recupero con ristrutturazione di un'abitazione esistente;
  • l'uso dei materiali è familiare qui ad Adelfia: il tufo a vista, la pietra a secco, la pietra per terra, materiali tradizionali che però, insieme al cemento a faccia vista rappresentano i materiali della mia infanzia, quel brutalismo di mio padre e i suoi colleghi in Sudafrica, riferendosi ai materiali di Le Corbusier a Chandigarh e l'architettura di Ricard Neutra, Marcel Breuer e Rudolf Schindler, architetti europei immigrati in America.
Credi che la trasversalità delle culture dei migranti in Italia possa migliorare in positivo la nostra visione politica?

Dipende in quali circostanze. Credo che sia troppo presto per dire: «Non ci sono ancora le condizioni giuste.» Bisognerebbe attendere ancora moltissimo per poter parlare di un processo integrativo, figuriamoci il tempo che richiederà il processo culturale interattivo a cui ti riferisci. Per ora la politica è ancora alle prese con la definizione delle regole di convivenza, spinta da problemi di intolleranza e di possibili conflitti.
Possiamo parlare per ora solo di modi di convivenza, lontano ancora dalla valorizzazione del pluralismo culturale.

Leon Van Schaik sostiene che il ruolo innovativo delle architetture1 si trova nei contesti locali, luoghi dove l’architetto deve saper mediare tra lo spirito internazionale e le esigenze locali. In questi contesti più che nelle grandi città, nasce la vera sfida per l’architettura.

Certamente non un’architettura vernacolare, ma un'architettura in grado di mediare, come dici tu, esigenze non soltanto fisiche (materiali, clima, metodi di costruzione, tecnologia, ma sopratutto quelle umane, di chi vive l'architettura (anche chi la produce), dei luoghi specifici e gruppi di persone specifici. Spesso nelle situazioni in cui si incontra una certa resistenza alla creatività personale, si affinano nuove capacità particolari, mettendo spesso in dubbio valori che sono, o rigurgitati come verità, o importati senza nessun'occhio critico da altrove. Sono convinto anch'io, che nei piccoli contesti più che nelle grandi città, nasce una delle sfide più interessanti per l'architettura, le sfide sono tante.

22 aprile 2009
Intersezioni ---> Fuga di cervelli

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1 definita al plurale in contrapposizione all'architettura degli ambienti accademici, architetture spesso ignorate. Leon Van Schaik, 'Mastering Architecture, Becoming a Creative Innovator in Practice', Wiley & Sons, Chicheste, 2005.

Foto archivio Louis Kruger

15 aprile 2009

0011 [A-B USO] Io so e ho le prove di come funziona il ciclo del cemento

Questo è un articolo difficile.
In questi giorni passati a osservare l'agonia di una regione e le finte lacrime dei politici, è arrivato il momento che, con rabbia e con dolore, nel rispetto della brava gente, riporti l'Io so di Roberto Saviano.
Un brano che attualmente resta l'unico punto di partenza per poter capire le logiche del ciclo del cemento.
Perché non si può più avallare l'ipotesi che, gli stessi cementificatori arricchitisi sfruttando il sangue economico e ahimè anche quello vero della gente, possano, da impuniti, ricostruire un territorio che hanno distrutto.
V'invito a leggere questo brano tratto dal libro di Roberto Saviano, Gomorra, Mondadori, 2006, pagine 231-240. Soprattutto la frase evidenziata con i caratteri in rosso.
Io so, come Saviano, cos'è il ciclo del cemento. Il male dell'architettura italiana deriva da quest'aberrazione. Un argomento che continua a essere sottaciuto dai critici patinati dell'architettura.
Mi chiedo, perché nessun critico abbia mai trattato questi temi, come se quest'ultimi fossero estranei alle dinamiche dei processi architettonici.
La mia architettura, inizia da qui, non posso pensare a un inizio diverso, sarei un codardo.


IO SO DI ROBERTO SAVIANO


«Il potere dei clan rimaneva il potere del cemento. Era sui cantieri che sentivo fisicamente, nelle budella, tutta la loro potenza. Per diverse estati ero andato a lavorare nei cantieri, per farmi impastare cemento non mi bastava altro che comunicare al capomastro la mia origine e nessuno mi rifiutava il lavoro. La Campania forniva i migliori edili d'Italia, i più bravi, i più veloci, i più economici, i meno rompicoglioni. Un lavoro bestiale che non sono mai riuscito a imparare particolarmente bene, un mestiere che ti può fruttare un gruzzolo cospicuo solo se sei disposto a giocarti ogni forza, ogni muscolo, ogni energia. Lavorare in ogni condizione climatica, con il passamontagna in viso così come in mutande. Avvicinarmi al cemento, con le mani e col naso, è stato l'unico modo per capire su cosa si fondava il potere, quello vero.

Fu quando morì Francesco Iacomino però che compresi sino in fondo i meccanismi dell'edilizia. Aveva trentatré anni quando lo trovarono con la tuta da lavoro sul selciato, all'incrocio tra via Quattro Orologi e via Gabriele D'Annunzio a Ercolano. Era caduto da un'impalcatura. Dopo l'incidente erano scappati tutti, geometra compreso. Nessuno ha chiamato l'autoambulanza, temendo potesse arrivare prima della loro fuga. Allora, mentre scappavano, avevano lasciato il corpo a metà strada, ancora vivo, mentre sputava sangue dai polmoni. Quest'ennesima notizia di morte, uno dei trecento edili che crepavano ogni anno nei cantieri in Italia si era come ficcata in qualche parte del mio corpo. Con la morte di Iacomino mi si innescò una rabbia di quelle che somigliano più a un attacco d'asma piuttosto che a una smania nervosa. Avrei voluto fare come il protagonista de La vita agra di Luciano Bianciardi che arriva a Milano con la volontà di far saltare in aria il Pirellone per vendicare i quarantotto minatori di Ribolla, massacrati da un'esplosione in miniera, nel maggio 1954, nel pozzo Camorra.



Chiamato così per le infami condizioni di lavoro. Dovevo forse anch'io scegliermi un palazzo, il Palazzo, da far saltare in aria, ma ancor prima di infilarmi nella schizofrenia dell'attentatore, appena entrai nella crisi asmatica di rabbia mi rimbombò nelle orecchie l'Io so di Pasolini come un jingle musicale che si ripeteva sino all'assillo.




E così invece di setacciare palazzi da far saltare in aria, sono andato a Casarsa, sulla tomba di Pasolini. Ci sono andato da solo, anche se queste cose per renderle meno patetiche bisognerebbe farle in compagnia. In banda. Un gruppo di fedeli lettori, una fidanzata. Ma io ostinatamente sono andato da solo.

Casarsa è un bel posto, uno di quei posti dove ti viene facile pensare a qualcuno che voglia campare di scrittura, e invece ti è difficile pensare a qualcuno che se ne va dal paese per scendere più giù, oltre la linea dell'inferno. Andai sulla tomba di Pasolini non per un omaggio, neanche per una celebrazione. Pier Paolo Pasolini. Il nome uno e trino, come diceva Caproni, non è il mio santino laico, né un Cristo letterario. Mi andava di trovare un posto. Un posto dove fosse ancora possibile riflettere senza vergogna sulla possibilità della parola. La possibilità di scrivere dei meccanismi del potere, al di là delle storie, oltre i dettagli. Riflettere se era ancora possibile fare i nomi, a uno a uno, indicare i visi, spogliare i corpi dei reati e renderli elementi dell'architettura dell'autorità. Se era ancora possibile inseguire come porci da tartufo le dinamiche del reale, l'affermazione dei poteri, senza metafore, senza mediazioni, con la sola lama della scrittura.

Presi il treno da Napoli per Pordenone, un treno lentissimo dal nome assai eloquente sulla distanza che doveva percorrere: Marco Polo. Una distanza enorme sembra separare il Friuli dalla Campania. Partito alle otto meno dieci arrivai in Friuli alle sette e venti del giorno dopo, attraversando una notte freddissima che non mi diede tregua per dormire neanche un po'. Da Pordenone con un bus arrivai a Casarsa e scesi camminando a testa bassa come chi sa già dove andare e la strada può anche riconoscerla guardandosi la punta delle scarpe. Mi persi, ovviamente. Ma dopo aver vagato inutilmente riuscii a raggiungere via Valvasone, il cimitero dove è sepolto Pasolini e tutta la sua famiglia. Sulla sinistra, poco dopo l'ingresso, c'era un'aiuola di terra nuda. Mi avvicinai a questo quadrato con al centro due lastre di marmo bianco, piccole, e vidi la tomba. "Pier Paolo Pasolini (1922-1975)." Al fianco, poco più in là, quella della madre. Mi sembrò d'essere meno solo, e lì iniziai a biascicare la mia rabbia, con i pugni stretti sino a far entrare le unghie nella carne del palmo. Iniziai a articolare il mio io so, l'io so del mio tempo.



Io so e ho le prove. Io so come hanno origine le economie e dove prendono l'odore. L'odore dell'affermazione e della vittoria. Io so cosa trasuda il profitto. Io so. E la verità della parola non fa prigionieri perché tutto divora e di tutto fa prova. E non deve trascinare controprove e imbastire istruttorie. Osserva, soppesa, guarda, ascolta. Sa. Non condanna in nessun gabbio e i testimoni non ritrattano. Nessuno si pente. Io so e ho le prove. Io so dove le pagine dei manuali d'economia si dileguano mutando i loro frattali in materia, cose, ferro, tempo e contratti. Io so. Le prove non sono nascoste in nessuna pen-drive celata in buche sotto terra. Non ho video compromettenti in garage nascosti in inaccessibili paesi di montagna. Né possiedo documenti ciclostilati dei servizi segreti. Le prove sono inconfutabili perché parziali, riprese con le iridi, raccontate con le parole e temprate con le emozioni rimbalzate su ferri e legni. Io vedo, trasento, guardo, parlo, e così testimonio, brutta parola che ancora può valere quando sussurra: «È falso» all'orecchio di chi ascolta le cantilene a rima baciata dei meccanismi di potere. La verità è parziale, in fondo se fosse riducibile a formula oggettiva sarebbe chimica. Io so e ho le prove. E quindi racconto. Di queste verità.

Cerco sempre di calmare quest'ansia che mi prende ogni volta che cammino, ogni volta che salgo scale, prendo ascensori, quando struscio le suole su zerbini e supero soglie. Non posso fermare un rimuginio d'anima perenne su come sono stati costruiti palazzi e case. E se poi ho qualcuno a portata di parola riesco con difficoltà a trattenermi dal raccontare come si tirano su piani e balconi sino al tetto. Non è un senso di colpa universale che mi pervade, né un riscatto morale verso chi è stato cassato dalla memoria storica. Piuttosto cerco di dismettere quel meccanismo brechtiano che invece ho connaturato, di pensare alle mani e ai piedi della storia. Insomma più alle ciotole perennemente vuote che portarono alla presa della Bastiglia che ai proclami della Gironda e dei Giacobini. Non riesco a non pensarci. Ho sempre questo vizio. Come qualcuno che guardando Vermeer pensasse a chi ha mescolato i colori, tirato la tela coi legni, assemblato gli orecchini di perle, piuttosto che contemplare il ritratto. Una vera perversione. Non riesco proprio a scordarmi come funziona il ciclo del cemento quando vedo una rampa di scale, e non mi distrae da come si mettono in torre le impalcature il vedere una verticale di finestre. Non riesco a far finta di nulla. Non riesco proprio a vedere solo il parato e penso alla malta e alla cazzuola. Sarà forse che chi nasce in certi meridiani ha rapporto con alcune sostanze in modo singolare, unico. Non tutta la materia viene recepita allo stesso modo in ogni luogo. Credo che in Qatar l'odore di petrolio e benzina rimandi a sensazioni e sapori che sanno di residenze immense, occhiali da sole e limousine. Lo stesso odore acido del carbonfossile, a Minsk, credo rimandi a facce scure, fughe di gas, e città affumicate mentre in Belgio rimanda all'odore d'aglio degli italiani e alla cipolla dei maghrebini. Lo stesso accade col cemento per l'Italia, per il mezzogiorno. Il cemento. Petrolio del sud. Tutto nasce dal cemento. Non esiste impero economico nato nel mezzogiorno che non veda il passaggio nelle costruzioni: gare d'appalto, appalti, cave, cemento, inerti, malta, mattoni, impalcature, operai. L'armamentario dell'imprenditore italiano è questo. L'imprenditore italiano che non ha i piedi del suo impero nel cemento non ha speranza alcuna. È il mestiere più semplice per far soldi nel più breve tempo possibile, conquistare fiducia, assumere persone nel tempo adatto di un'elezione, distribuire salari, accaparrarsi finanziamenti, moltiplicare il proprio volto sulle facciate dei palazzi che si edificano. Il talento del costruttore è quello del mediatore e del rapace. Possiede la pazienza del certosino compilatore di documentazioni burocratiche, di attese interminabili, di autorizzazioni sedimentate come lente gocce di stalattiti. E poi il talento di rapace, capace di planare su terreni insospettabili sottrarli per pochi quattrini e poi serbarli sino a quando ogni loro centimetro e ogni buco divengono rivendibili a prezzi esponenziali. L'imprenditore rapace sa come usare becco e artigli. Le banche italiane sanno accordare ai costruttori il massimo credito, diciamo che le banche italiane sembrano edificate per i costruttori. E quando proprio non ha meriti e le case che costruirà non bastano come garanzie, ci sarà sempre qualche buon amico che garantirà per lui. La concretezza del cemento e dei mattoni è l'unica vera materialità che le banche italiane conoscono. Ricerca, laboratorio, agricoltura, artigianato, i direttori di banca li immaginano come territori vaporosi, iperurani senza presenza di gravità. Stanze, piani, piastrelle, prese del telefono e della corrente, queste le uniche concretezze che riconoscono. Io so e ho le prove. So come è stata costruita mezz'Italia. E più di mezza. Conosco le mani, le dita, i progetti. E la sabbia. La sabbia che ha tirato su palazzi e grattacieli. Quartieri, parchi, ville. A Castelvolturno nessuno dimentica le file infinite dei camion che depredavano il Volturno della sua sabbia. Camion in fila, che attraversavano le terre costeggiate da contadini che mai avevano visto questi mammut di ferro e gomma. Erano riusciti a rimanere, a resistere senza emigrare e sotto i loro occhi gli portavano via tutto. Ora quella sabbia è nelle pareti dei condomini abruzzesi, nei palazzi di Varese, Asiago, Genova. Ora non è più il fiume che va al mare, ma il mare che entra nel fiume. Ora nel Volturno si pescano le spigole, e i contadini non ci sono più. Senza terra hanno iniziato ad allevare le bufale, dopo le bufale hanno messo su piccole imprese edili assumendo giovani nigeriani e sudafricani sottratti ai lavori stagionali, e quando non si sono consorziati con le imprese dei clan hanno incontrato la morte precoce. Io so e ho le prove. Le ditte d'estrazione vengono autorizzate a sottrarre quantità minime, e in realtà mordono e divorano intere montagne. Montagne e colline sbriciolate e impastate nel cemento finiscono ovunque. Da Tenerife a Sassuolo. La deportazione delle cose ha seguito quella degli uomini. In una trattoria di San Felice a Cancello, ho incontrato don Salvatore, vecchio mastro. Una specie di salma ambulante, non aveva più di cinquant'anni, ma ne dimostrava ottanta. Mi ha raccontato che per dieci anni ha avuto il compito di smistare nelle impastatrici le polveri di smaltimento fumi. Con la mediazione delle ditte dei clan lo smaltimento occultato nel cemento è divenuta la forza che permette alle imprese di presentarsi alle gare d'appalto con prezzi da manodopera cinese. Ora garage, pareti e pianerottoli hanno nel loro petto i veleni. Non accadrà nulla sin quando qualche operaio, magari maghrebino, inalerà le polveri crepando qualche anno dopo e incolperà la malasorte per il suo cancro.

Io so e ho le prove. Gli imprenditori italiani vincenti provengono dal cemento. Loro stessi sono parte del ciclo del cemento. Io so che prima di trasformarsi in uomini di fotomodelle, in manager da barca, in assalitori di gruppi finanziari, in acquirenti di quotidiani, prima di tutto questo e dietro tutto questo c'è il cemento, le ditte in subappalto, la sabbia, il pietrisco, i camioncini zeppi di operai che lavorano di notte e scompaiono al mattino, le impalcature marce, le assicurazioni fasulle. Lo spessore delle pareti è ciò su cui poggiano i trascinatori dell'economia italiana. La costituzione dovrebbe mutare. Scrivere che si fonda sul cemento e sui costruttori. Sono loro i padri. Non Ferruccio Parri, non Luigi Einaudi, non Pietro Nenni, non il comandante Valerio. Furono i palazzinari a tirare per lo scalpo l'Italia affossata dal crac Sindona e dalla condanna senza appello del Fondo Monetario Internazionale. Cementifici, appalti, palazzi e quotidiani.

Nell'edilizia finiscono gli affiliati al giro di boa. Dopo che si fa una carriera da killer, da estorsore o da palo, si finisce nell'edilizia o a raccogliere spazzatura. Piuttosto che filmati e conferenze a scuola, potrebbe essere interessante prendere i nuovi affiliati e portarli a fare un giro per cantieri mostrando il destino che li attende. Se galera e morte dovessero risparmiarli staranno su un cantiere, invecchiando e scatarrando sangue e calce. Mentre imprenditori e affaristi che i boss credevano di gestire avranno committenze milionarie. Di lavoro si muore. In continuazione. La velocità di costruzioni, la necessità di risparmiare su ogni tipo di sicurezza e su ogni rispetto d'orario. Turni disumani nove dodici ore al giorno compreso sabato e domenica. Cento euro a settimana la paga con lo straordinario notturno e domenicale di cinquanta euro ogni dieci ore. I più giovani se ne fanno anche quindici. Magari tirando coca. Quando si muore nei cantieri, si avvia un meccanismo collaudato. Il corpo senza vita viene portato via e viene simulato un incidente stradale. Lo mettono in un'auto che poi fanno cadere in scarpate o dirupi, non dimenticando di incendiarla prima. La somma che l'assicurazione pagherà verrà girata alla famiglia come liquidazione. Non è raro che per simulare l'incidente si feriscano anche i simulatori in modo grave, soprattutto quando c'è da ammaccare un'auto contro il muro, prima di darle fuoco con il cadavere dentro. Quando il mastro è presente il meccanismo funziona bene. Quando è assente spesso il panico attanaglia gli operai. E allora si prende il ferito grave, il quasi cadavere e lo si lascia quasi sempre vicino a una strada che porta all'ospedale. Si passa con la macchina si adagia il corpo e si fugge. Quando proprio lo scrupolo è all'eccesso si avverte un'autoambulanza. Chiunque prende parte alla scomparsa o all'abbandono del corpo quasi cadavere sa che lo stesso faranno i colleghi qualora dovesse accadere al suo corpo di sfracellarsi o infilzarsi. Sai per certo che chi ti è a fianco in caso di pericolo ti soccorrerà nell'immediato per sbarazzarsi di te, ti darà il colpo di grazia. E così si ha una specie di diffidenza nei cantieri. Chi ti è a fianco potrebbe essere il tuo boia, o tu il suo. Non ti farà soffrire, ma sarà colui che ti lascerà crepare da solo su un marciapiede o ti darà fuoco in un'auto. Tutti i costruttori sanno che funziona in questo modo. E le ditte del sud danno garanzie migliori. Lavorano e scompaiono e ogni guaio se lo risolvono senza clamore. Io so e ho le prove. E le prove hanno un nome. In sette mesi nei cantieri a nord di Napoli sono morti quindici operai edili. Caduti, finiti sotto pale meccaniche, o spiaccicati da gru gestite da operai stremati dalle ore di lavoro. Bisogna far presto. Anche se i cantieri durano anni, le ditte in subappalto devono lasciar posto subito ad altre. Guadagnare, battere cassa e andare altrove. Oltre il 40 per cento delle ditte che operano in Italia sono del sud. Agro aversano, napoletano, salernitano. A sud possono ancora nascere gli imperi, le maglie dell'economia si possono forzare e l'equilibrio dell'accumulazione originaria non è stato ancora completato. A sud bisognerebbe appendere, dalla Puglia alla Calabria, dei cartelloni con il BENVENUTO per gli imprenditori che vogliono lanciarsi nell'agone del cemento e in pochi anni entrare nei salotti romani e milanesi. Un BENVENUTO che sa di buona fortuna dato che la ressa è molta e pochissimi galleggiano sulle sabbie mobili. Io so. E ho le prove. E i nuovi costruttori, proprietari di banche e di panfili, principi del gossip e maestà di nuove baldracche celano il loro profitto. Forse hanno ancora un'anima. Hanno vergogna di dichiarare da dove vengono i propri guadagni. Nel loro paese modello, negli USA, quando un imprenditore riesce a divenire riferimento finanziario, quando raggiunge fama e successo accade che convoca analisti e giovani economisti per mostrare la propria qualità economica, e svelare le strade battute per la vittoria sul mercato. Qui silenzio. E il danaro è solo danaro. E gli imprenditori vincenti che vengono dall'aversano, da una terra malata di camorra, rispondono senza vergogna a chi li interroga sul loro successo: «Ho comprato a dieci e venduto a trecento». Qualcuno ha detto che a sud si può vivere come in un paradiso. Basta fissare il cielo e mai, mai osare guardare in basso. Ma non è possibile. L'esproprio d'ogni prospettiva ha sottratto anche gli spazi della vista. Ogni prospettiva si imbatte in balconi, soffitte, mansarde, condomini, palazzi abbracciati, quartieri annodati. Qui non pensi che qualcosa possa cascare dal cielo. Qui scendi giù. Ti inabissi. Perché c'è sempre un abisso nell'abisso. Così quando calpesto scale e stanze, quando salgo negli ascensori, non riesco a non sentire. Perché io so. Ed è una perversione. E così quando mi trovo tra i migliori e vincenti imprenditori non mi sento bene. Anche se questi signori sono eleganti, parlano con toni pacati, e votano a sinistra. Io sento l'odore della calce e del cemento, che esce dai calzini, dai gemelli di Bulgari, dalle loro librerie. Io so. Io so chi ha costruito il mio paese e chi lo costruisce anche adesso. So che stanotte parte un treno da Reggio Calabria che si fermerà a Napoli a mezzanotte e un quarto e sarà diretto a Milano. Sarà colmo. E alla stazione i furgoncini e le Punto polverose preleveranno i ragazzi per nuovi cantieri. Un'emigrazione senza residenza che nessuno studierà e valuterà poiché rimarrà nelle orme della polvere di calce e solo lì. Io so qual è la vera Costituzione del mio tempo, qual è la ricchezza delle imprese. Io so in che misura ogni pilastro è il sangue degli altri. Io so e ho le prove. Non faccio prigionieri.»



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5 aprile 2009

0004 [BLOG READER] L'architettura blog

«Importa solo sottolineare che lapsus ed errori possono capitare scrivendo o parlando, ma anche leggendo o ascoltando: ed è per questo che così spesso le nostre conversazioni sono fitte di interruzioni e richieste (eh? che cosa hai detto? devo aver capito male!) e le nostre letture sono spesso continue riletture, per afferrare parole che non sembrano mai stare ferme.»1
Ed è in un lapsus di lettura come è stato descritto da Stefano Bartezzaghi la causa del mio inciampo.
A proposito di una lettera di risposta2, a una scorrettezza blog3 nei miei confronti da parte di Giorgio Muratore nel suo Archiwatch.
Come di consueto, prima della pubblicazione avevo riletto la fonte4, ma il lapsus resta un mistero per psicoanalisti.
Un errore che ha sminuito e delegittimato il mio intervento circa il ruolo della critica nei blog.
Franco Purini nel suo libro, La misura italiana dell'architettura, annovera Giorgio Muratore tra i protagonisti della critica italiana attento: «alla ragione della scrittura architettonica»5 ma la scrittura analitica sul suo blog appare marginale, attento più a tutelare la propria idea di architettura che a creare i cortocircuiti necessari per alimentare una crescita culturale. Spesso gli interventi sono privi delle letture sui processi architettonici. Roland Barthes sosteneva: «appena una forma viene vista è necessario che assomigli a una cosa: l'umanità sembra condannata all'analogia.»6 La critica di Muratore è legata all'analogia.
Nella presS/Tletter n. 10-20097 Edoardo Alamaro, con la sua scrittura barocca napoletana, riporta una conversazione in occasione di una presentazione di un libro: «Purini ha rilevato (forse, mi è tarso) che la critica della rete, quella nata o abortita nei blog e nelle presS/Tletter, non riesce a sviluppare un linguaggio proprio convincente. Lasciamo stare i contenuti, per caritè di patria. Con troppi salti e trippi com’è, buchi e saltimbanchi. Intermezzi e intervalli senza galli e palli. Una critica a puntate senza punta. Né tacchi. Che non riesce a sviluppare un discorso veramente coinvolgente. E avvolgente.
Insomma un quadro preoccupante, quelli di Purini.» Evito i sic perché non conosco l'esperanto di Edoardo Alamaro.

Con l'editoriale di Domus del marzo 2009, Flavio Albanese8 annuncia l'inizio della rubrica 'Intersection' «dedicata al nuovo web», ma sembra essere più preoccupato della possibile manipolazione mediatica sull'identità, che delle potenzialità latenti del web. Più che una novità Domus propone un risveglio. Dov'è stata la critica nella prima fase Web?
Vi consiglio di vedere la cura grafica di Onlab con Tobias Krafczyk9 (creatori di una pagina che per contrasto non è fruibile via web, con la possibilità di una lettura 'tattile') e gli articoli di Nicholas G. Carr , Bruce Sterling, Lev Manovich, Richard Baraniuk, David Weinberger, Stefan Heidenreich.

Se Purini appare preoccupato (forse perché legge solo archiwacth e presS/Tletter) io non lo sono, se è vero che i blog di architettura in Italia10 non hanno colto appieno le loro potenzialità, non va trascurato ciò che attualmente i blog in modo latente stanno producendo.
Vi è una contraddizione di fondo nelle idee di Muratore, di Purini, e nel ritardo di Albanese, la nostra epoca non può più essere spiegata per semplificazioni tassonomiche. Occorre capire a pieno la complessità del nostro tempo analizzando la logica del web dal suo interno.
Non più apocalittici accorati appelli su cosa salvare da questa mutazione (come è stata chiamata da Alessandro Baricco), ma entrare dentro la mutazione: «E adesso ci starebbe bene un bel paragrafo per spiegare cosa secondo me bisognerebbe portare in salvo nella mutazione. Ma il fatto è che non ho le idee molto chiare, al proposito. So che c'è sicuramente qualcosa, ma cosa, è difficile dirlo, adesso, con esattezza.» (Alessandro Baricco) 11
Non è facile capirlo e tantomeno inutile parlarne in questi termini pre WWW o da osservatori esterni.
La riflessione sull'utilità dei blog, avviata su Wilfing Architettura, mi ha portato a selezionare alcuni post che raccontano una cultura 'altra' svincolata dalla cultura 'editoriale', aventi un importante autonomia. Ecco tre esempi:

Andrea Graziano architetto e autore del blog DigitAG& e Davide Del Giudice neoarchitetto autore del blog Made in California hanno dato vita ad AAST ovvero: Advanced Architecture Settimo Tokio.
«Da più di due anni infatti dialoghiamo, ci interfacciamo e discutiamo sulle tematiche dello scripting e del computational design nell'architettura ed in questi due anni abbiamo avuto modo, attraverso i nostri blog, di conoscere moltissime persone.»12 Graziano inoltre spiega che in questi anni ha potuto constatare come ci siano due categorie di utenti, gli studenti e i professionisti, quest'ultimi anche se italiani spesso lavorano all'estero. «Con il passare del tempo con molti di questi colleghi italiani all'estero si è instaurato un rapporto di amicizia (per lo più virtuale) con un sempre più fitto dialogo da cui abbiamo capito alcune cose che tutti accomunano. Innanzitutto la disponibilità al confronto, a raccontarsi ed a rendere palesi i propri lavori e le proprie sperimentazioni (cosa che si contrappone sostanzialmente ad una italianissima tendenza all'occultamento ed al segreto).»13
Si inizia martedì 7 aprile 2009 alle 17,30, Settimo Torinese, Teatro Garybaldi – Via Garibaldi 4 con la conferenza di Filippo Innocenti, Architetto presso Zaha Hadid Architects London. Per gli altri appuntamenti leggere sul blog AAST [Link].
AAST si lega all'idea dell'architettura parametrica teorizzata nel 1939/40 da Luigi Moretti e si propone di promuovere la ricerca tramite l’uso di software parametrici e generativi.
Un'idea nata attraverso i blog che supera l'input dell'accademia e degli accademici.

Fabio Fornasari autore del Blog Luoghi Sensibili14, architetto, libero professionista e insegnante universitario, da classico viaggiatore da anni indaga i luoghi virtuali e Mario Gerosa, autore del blog Played Italy giornalista e capo redattore della rivista AD Architectural Digest sono stati intervistati dalla rivista di Architettura e design Ottagono cui ha dedicato la copertina (autore della foto lo stesso Fabio Fornasari) e lo sviluppo del tema: Metacreatività, materia e immaginario. Il lavoro degli autori attraverso lo strumento del blog è stato fondamentale. In una vecchia intervista Mario Gerosa dice: «Per quanto riguarda le linee di tendenza, è estremamente difficile definire dei trends. Second Life e i mondi virtuali in generale sono dei flussi in continua mutazione, non si possono congelare dei movimenti. Le tendenze in SL (second life N.d.R.) sono come quelle creature aliene che si possono modificare all’istante, come gli skull dei Fantastici Quattro.
Per percepire le tendenze nei mondi virtuali bisogna entrarci, lasciarsi trasportare, far parte di quelle culture. Se si rimane osservatori distaccati, non si capisce niente di ciò che vi succede.»15
La vita reale non può considerare aliena la vita virtuale.
La mutazione non è un omicidio perpetrato a danno dell'identità ma semplicemnete il suo sviluppo.
Per questo tipo d'indagine sarebbe impossibile pensare ad una sede diversa da un blog.

Antonino Saggio è un architetto, critico, professore universitario e autore del blog Conferenze e talks of Architettura by Antonino Saggio16. È il primo professore universitario a credere negli strumenti offerti dal web, tutte le sue lezioni o conferenze sono pubblicate sul blog. In questo modo ha fondato il primo podcast informale in un'università di architettura.
Il blog diventa uno strumento di mediazione fondamentale per scambiare conoscenze con i suoi studenti.
Nei corsi, i lavori degli allievi sono resi noti attraverso l'apertura di blog personali. Una lezione che dall'aula si espande attraverso il web.
Ascoltando le lezioni sul podacast, può succedere che si venga incuriositi dal suo entusiasmo «ho pensato ad una cosa fantastica!»", dalle sue urla incalzanti per animare il dibattito e dagli applausi che spesso sanciscono la fine della lezione. Su Facebook è stato fondato un gruppo Cloniamo il prof. Antonino Saggio!! a cura dei suoi studenti.
V'invito a leggere un dialogo sviluppatosi all'interno dell'ultimo corso:
Studente: Andrea Albanese, L'ellenismo e il dinamismo, blog Pensieri di un protoarchitetto, 17 marzo 2009 [qui]
Professore: Antonino Saggio, Del dinamismo in rapporto al concetto di Modernità, Blog Conferenze e talks of Architettura by Antonino Saggio, 27 marzo 2009 [qui]
Un guru o un'idea concreta d'insegnamento interattivo?

Ciò che appare evidente è il ritardo della critica sullo sviluppo culturale del web. Non capire le mutazioni significa ignorare le dinamiche del presente e soprattutto del futuro.
Dopo un anno di Wilfing Architettura ho la sensazione
di usare uno strumento già datato.
Bruce Sterling ha scritto: «La maggior parte dei blog di oggi non sono affatto blog. Sono fondamentalmente riviste con un altro nome. E il 94% dei blog è già morto.»17
Gianluca Nicoletti giornalista e conduttore radiofonico del programma Melog 2.0 su radio 24, il 2 aprile 2009, nella sua pagina Facebook ha annunciato: Facebook è morto.


Ah! Dimenticavo
il 3 aprile sul sito della rivista Domus è stato aperto un blog redazionale18.
Che tempismo!

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1Stefano Bartezzaghi, Non ne ho la più squallida idea, Mondadori, Milano, 2006, p. 166

2
Giorgio Muratore, D'Agostino ... incazzatissimo ..., Blog Archiwatch, 16 febbraio 2009 [qui]

3Salvatore D'Agostino, D'Agostino ... amareggiato ..., Blog Archiwatch, 10 marzo 2009 [qui]

4Eduardo Alamaro, Amara Befana napoletana..., Blog Archiwatch, 7 gennaio 2009 [qui] (Leggendo il mio commento a questo post si può notare come l'errore si ripete.
)

5Franco Purini, La misura italiana dell'architettura, Laterza, Bari, 2008, p. 22

6Roland Barthes, La camera chiara. Nota sulla fotografia, Einaudi, Torino, pp. 130

7Edorado Alamaro, Zeppole e panzarotti della critica web, presS/Tletter n.10-2009, 19 marzo 2009 [qui]


8Flavio Albanese, Architetture del pensiero in perpetual beta, Domus n. 923, Marzo 2009

9
Folding the Intersections 923 (miss)
e (Mister)



10Vedi articoli su Wilfing Architettura: [1]; [2]; [3];[4]

11Alessandro Baricco, I barbari, Biblioteca di Repubblica, Roma, 2006

12Andrea Graziano, Finalmente ..... AAST, Blog DigitAG&, 10 marzo 2009 [qui]

13Andrea Graziano, op. cit.

14
ecco come descrive la sua ricerca blog Fabio Fornasari: «La fiction è stata sostituita dal racconto della realtà. Memorie, biografie, diari e racconti di vita riempiono le pagine del digitale. Il digitale stesso più abitato, second life, talvolta ne è uno specchio.
Anche io, da tempo, raccolgo storie legate all’abitare i luoghi.

Faccio collezione di questi racconti anche a fini didattici: in un’epoca nella quale si è dichiarata la fine delle grandi narrazioni, come tanti, raccolgo storie, eventi fatti particolari apparentemente senza senso e senza una funzione. Tutti parlano di luoghi, spazi ed architetture. Non dicono, questi racconti, come si deve progettare una città o come ci si deve vivere, o ancora come si deve disegnare una architettura. Per me che li raccolgo, quanto meno, servono per capire cosa sono le città e gli edifici, in realtà, ancora meglio cosa significa abitarci dentro e intorno.»
[qui]

15s.a., Intervista a Mario Gerosa, Wuz, 27 aprile 2007 [qui]

16Franco Purini, op. cit., p.22 descrive la ricerca di Antonino Saggio nel classico schema di contrapposizione tassonomica: «La polemica zeviana continua ancora oggi attraverso i suoi seguaci, fra i quali si distinguono Luigi Prestinenza Puglisi e Antonino Saggio. Si tratta di una posizione non molto chiara, se considera Renzo Piano e Massimiliano Fuksas come audaci sperimentatori, non riconosce ad altri architetti, altrettanto capaci di produrre opere significative, dense di valori innovativi, la stessa capacità di prefigurare scenari progettuali avanzati. Le possibilità di una sperimentazione avanzata vengono individuate nella sola dimensione tecnologica, nel rilievo spettacolare delle immagini e soprattutto negli orizzonti teorici aperti dagli strumenti digitali, ampiamente mitizzati. Non solo non è riconosciuto alcun valore al lavoro sul segno architettonico, sulla corrispondenza tra spazio e struttura, sulla tettonica, sulla stratificazione semantica e sulla memoria, ma, anzi, tale lavoro viene considerato un esercizio fuori dal tempo, inutile, se non proprio dannoso. Questo orientamento è contrastato da molti critici attenti alle ragioni della scrittura architettura, tra i quali, oltre a Francesco Dal Co, Renato De Fusco, Cesare de Seta, Fulvio Irace, Giorgio Muratori, Mario Pisani, Vittorio Savi, Francesco Tentori.»

17Bruce Sterling, Tra fantascienza e realtà, Domus, marzo 2009, n. 923, p. 110

18Il primo post è firmato da Flavio Albanese, Babhell TV, Domus blog, 3 aprile 2009 [qui]