di Salvatore D'Agostino
Dal 2005 l’LSE, l’università londinese di economia e scienze politica, organizza dei forum mondiali itineranti chiamati ‘Urban Age’ nati inizialmente per analizzare l’evolversi delle recenti trasformazioni urbane di alcune grandi città per diventare, negli ultimi tre anni, tematica. Lo scorso 7-8 dicembre, 60 relatori provenenti da tutto il mondo, hanno discusso sul tema ‘Electric city’. Per capire meglio ciò che si è detto, vi suggerisco di leggere l’articolo di sintesi di Philippa Nicole Barr scritto per Domus, ‘La questione della tecnica’ e vedere i video sul canale You tube del forum. Invece, riprendendo questo twitter di Dan Hill, tra i relatori della conferenza:
v’invito a leggere l’articolo del sociologo Richard Sennett scritto un paio di giorni prima della conferenza per il The Guardian anticipando i temi della sua relazione.
by Richard Sennett
Recentemente Londra ha ospitato un convegno di smanettoni informatici, politici e urbanisti provenienti da tutto il mondo. Alla conferenza Urban age si è discusso di un'idea oggi molto in voga in ambito tecnologico, la smart city. [ndr libera interpretazione del traduttore nel testo originale si anticipano i temi della conferenza] Non si tratta solo di programmare il traffico stradale: i computer della smart city calcoleranno dove aprire i negozi e gli uffici, dove dovremmo dormire, a che ora alzarci e come organizzare al meglio tutte le esigenze della vita urbana. Fantascienza? Le smart city sono già una realtà in Medio Oriente e in Corea del Sud, sono diventate un punto di riferimento per gli urbanisti in Cina e un modello di riqualificazione in Europa. Grazie alla rivoluzione digitale, alla fine, la vita nelle città può essere tenuta sotto controllo. Ma siamo sicuri che questa sia una buona cosa?
Non c'è bisogno di essere romantici per avere dei dubbi. Negli anni trenta l'urbanista statunitense Lewis Mumford previde il disastro causato dalla "programmazione scientifica" dei trasporti, visibile ancora nelle autostrade super efficienti che tagliano in due le città. Lo svizzero Sigfried Giedion, esperto di architettura, temeva che l'edilizia efficiente del secondo dopoguerra avrebbe prodotto un paesaggio senz'anima di vetro acciaio e cemento. Le smart city del passato sono l'incubo di oggi.
Adesso però il dibattito sulla buona ingegneria è a un punto di svolta perché la tecnologia digitale ha spostato il cuore della questione sul modo di processare l'informazione. Questo riguarda sia i tablet che teniamo in mano connessi alle cloud, sia i centri di controllo. II pericolo è che queste città pullulanti di informazioni potrebbero non aiutare affatto le persone a pensare autonomamente o a comunicare meglio tra loro. Immaginate di essere un esperto urbanista davanti allo schermo bianco del computer e di dover disegnare una città da zero, con la libertà di incorporare nel progetto quanta più high tech possibile. Alla fine potreste uscirvene con Masdar, negli Emirati Arabi Uniti, o Songdo, in Corea del Sud. Sono due versioni della smart city. Masdar la più famosa, nel bene e nel male, e Songdo la più affascinante, anche se in parte perversa.
Masdar, costruita per ora solo a metà, è una città che sorge nel bel mezzo del deserto e il cui progetto - supervisionato dal celebre architetto Norman Foster - predispone nel loro insieme tutte le attività che vi hanno luogo, grazie alla tecnologia che monitora e regola le funzioni da un centro di comando centrale. La città è concepita secondo una visione "fordista", ovvero ogni attività è svolta in tempi e spazi ben precisi. Gli abitanti diventano consumatori di scelte preconfezionate: dove fare la spesa, come e quando andare dal dottore sono cose stabilite in anticipo grazie ai calcoli. Non c'è margine per tentativi ed errori, le persone imparano a vivere nella loro città passivamente. A Masdar "user friendly" significa scegliere all'interno di un menu di offerte e non comporre il menu.
Per creare qualcosa di davvero nuovo, oggi come ieri, bisogna trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato. Nella Boston della metà del novecento, per esempio, le "brain industries" sorsero dove nessun progettista le avrebbe mai piazzate. A Masdar invece, proprio come la Londra del "quartiere delle idee", si valuta in anticipo cosa dovrà nascere in un dato luogo, a dispetto del fatto che nelle città il vero sviluppo spesso è casuale.
Dal punto di vista architettonico Songdo e la smart city dell'alienazione: complessi residenziali compatti ed efficienti s'innalzano all'ombra delle montagne occidentali della Corea del Sud. Sembrano quelli della bolla edilizia britannica degli anni sessanta, ma con i riscaldamenti, la sicurezza e le consegne a domicilio controllati dal "cervellone" centrale di Songdo. Gli enormi blocchi di alloggi non sono concepiti come strutture dotate di individualità e l'insieme di questi edifici privi di tratti distintivi non mira a creare alcun senso di appartenenza. L'architettura uniforme non è destinata a produrre necessariamente un ambiente morto, a patto che ci sia flessibilità alla base. I monotoni grattacieli residenziali della Third avenue di New York, per esempio, al livello della strada si dividono in piccoli e irregolari negozi e caffè che trasmettono un'idea di quartiere. Ma a Songdo, dove tra un isolato e l'altro non c'è alcuna differenza, camminare per la strada è noioso e non serve a niente.
Un tentativo più intelligente di costruire una smart city arriva dai lavori in corso a Rio de Janeiro. Rio ha una lunga storia di devastanti allagamenti, aggravati dalla povertà e dalla violenza diffuse. In passato le persone sopravvivevano grazie a una complessa rete di solidarietà sociale. Oggi le nuove tecnologie dell'inforrnazione aiutano gli abitanti, in un modo molto diverso da Masdar e Songdo. Sotto la guida di Ibm, di Cisco e di altri subappaltatori, le tecnologie sono state usate per prevedere i disastri ambientali, coordinare le reazioni agli ingorghi stradali e tentare di aiutare la polizia nella lotta al crimine. II principio qui è quello della coordinazione, non quello dell'obbligo, come avviene a Masdar e a Songdo.
Ma questo paragone e forse inadeguato. Gli abitanti delle favelas, se potessero scegliere, non preferirebbero avere un luogo pianificato dove vivere? Dopotutto a Songdo non c'è nulla che non funzioni. Svariate ricerche condotte nell'ultimo decennio in città molto diverse come Chicago o Mumbai, suggeriscono che, una volta garantiti i servizi essenziali, le persone non danno molta importanza all'efficienza. Semmai mettono al primo posto la qualità della vita. Il gps a portata di mano, tanto per fare un esempio, non riesce a creare il senso di comunità. Inoltre la prospettiva di una città ordinata non è mai stata un'esca per la migrazione volontaria, né in passato verso le città europee né oggi verso le città in espansione dell'Asia o del Sudamerica. Potendo scegliere, le persone preferiscono una città aperta e indeterminata nella quale potersi fare una strada. Così sentono di avere il controllo sulle loro vite.
Non c'è niente di male nella conferenza sulle smart city ospitata da Londra. La tecnologia è un grande strumento, quando è usata responsabilmente, come a Rio. Ma una città non è una macchina. Come a Masdar e a Songdo, la tecnologia può intorpidire e indebolire le persone che vivono passivamente nel suo efficiente abbraccio onnicomprensivo. Vogliamo città che funzionino bene, ma che siano aperte alle trasformazioni, alle incertezze e alla confusione della vita reale.
10 gennaio 2013
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Note:
L'articolo di Richard Sennet del Guardian, 4 dicembre 2012 è stato pubblicato su Internazionale, 'Intelligente ma non troppo', 21/27 dicembre 2012, n. 980, pp. 81-82.
Richard Sennet insegna sociologia a Londra e New York.