di Salvatore D'Agostino
Dal 2005 l’LSE, l’università londinese di economia e scienze politica, organizza dei forum mondiali itineranti chiamati ‘Urban Age’ nati inizialmente per analizzare l’evolversi delle recenti trasformazioni urbane di alcune grandi città per diventare, negli ultimi tre anni, tematica. Lo scorso 7-8 dicembre, 60 relatori provenenti da tutto il mondo, hanno discusso sul tema ‘Electric city’. Per capire meglio ciò che si è detto, vi suggerisco di leggere l’articolo di sintesi di Philippa Nicole Barr scritto per Domus, ‘La questione della tecnica’ e vedere i video sul canale You tube del forum. Invece, riprendendo questo twitter di Dan Hill, tra i relatori della conferenza:
«New Songdo is a deprivation. There are no streets. You can’t have street smarts without a street» Sennett #UAelectric
— Dan Hill (@cityofsound) Dicembre 7, 2012
v’invito a leggere l’articolo del sociologo Richard Sennett scritto un paio di giorni prima della conferenza per il The Guardian anticipando i temi della sua relazione.
Recentemente Londra ha ospitato un convegno di smanettoni informatici, politici e urbanisti provenienti da tutto il mondo. Alla conferenza Urban age si è discusso di un'idea oggi molto in voga in ambito tecnologico, la smart city. [ndr libera interpretazione del traduttore nel testo originale si anticipano i temi della conferenza] Non si tratta solo di programmare il traffico stradale: i computer della smart city calcoleranno dove aprire i negozi e gli uffici, dove dovremmo dormire, a che ora alzarci e come organizzare al meglio tutte le esigenze della vita urbana. Fantascienza? Le smart city sono già una realtà in Medio Oriente e in Corea del Sud, sono diventate un punto di riferimento per gli urbanisti in Cina e un modello di riqualificazione in Europa. Grazie alla rivoluzione digitale, alla fine, la vita nelle città può essere tenuta sotto controllo. Ma siamo sicuri che questa sia una buona cosa?
Non c'è bisogno di essere romantici per avere dei dubbi. Negli anni trenta l'urbanista statunitense Lewis Mumford previde il disastro causato dalla "programmazione scientifica" dei trasporti, visibile ancora nelle autostrade super efficienti che tagliano in due le città. Lo svizzero Sigfried Giedion, esperto di architettura, temeva che l'edilizia efficiente del secondo dopoguerra avrebbe prodotto un paesaggio senz'anima di vetro acciaio e cemento. Le smart city del passato sono l'incubo di oggi.
Adesso però il dibattito sulla buona ingegneria è a un punto di svolta perché la tecnologia digitale ha spostato il cuore della questione sul modo di processare l'informazione. Questo riguarda sia i tablet che teniamo in mano connessi alle cloud, sia i centri di controllo. II pericolo è che queste città pullulanti di informazioni potrebbero non aiutare affatto le persone a pensare autonomamente o a comunicare meglio tra loro. Immaginate di essere un esperto urbanista davanti allo schermo bianco del computer e di dover disegnare una città da zero, con la libertà di incorporare nel progetto quanta più high tech possibile. Alla fine potreste uscirvene con Masdar, negli Emirati Arabi Uniti, o Songdo, in Corea del Sud. Sono due versioni della smart city. Masdar la più famosa, nel bene e nel male, e Songdo la più affascinante, anche se in parte perversa.
Sondgo |
Masdar, costruita per ora solo a metà, è una città che sorge nel bel mezzo del deserto e il cui progetto - supervisionato dal celebre architetto Norman Foster - predispone nel loro insieme tutte le attività che vi hanno luogo, grazie alla tecnologia che monitora e regola le funzioni da un centro di comando centrale. La città è concepita secondo una visione "fordista", ovvero ogni attività è svolta in tempi e spazi ben precisi. Gli abitanti diventano consumatori di scelte preconfezionate: dove fare la spesa, come e quando andare dal dottore sono cose stabilite in anticipo grazie ai calcoli. Non c'è margine per tentativi ed errori, le persone imparano a vivere nella loro città passivamente. A Masdar "user friendly" significa scegliere all'interno di un menu di offerte e non comporre il menu.
Per creare qualcosa di davvero nuovo, oggi come ieri, bisogna trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato. Nella Boston della metà del novecento, per esempio, le "brain industries" sorsero dove nessun progettista le avrebbe mai piazzate. A Masdar invece, proprio come la Londra del "quartiere delle idee", si valuta in anticipo cosa dovrà nascere in un dato luogo, a dispetto del fatto che nelle città il vero sviluppo spesso è casuale.
Dal punto di vista architettonico Songdo e la smart city dell'alienazione: complessi residenziali compatti ed efficienti s'innalzano all'ombra delle montagne occidentali della Corea del Sud. Sembrano quelli della bolla edilizia britannica degli anni sessanta, ma con i riscaldamenti, la sicurezza e le consegne a domicilio controllati dal "cervellone" centrale di Songdo. Gli enormi blocchi di alloggi non sono concepiti come strutture dotate di individualità e l'insieme di questi edifici privi di tratti distintivi non mira a creare alcun senso di appartenenza. L'architettura uniforme non è destinata a produrre necessariamente un ambiente morto, a patto che ci sia flessibilità alla base. I monotoni grattacieli residenziali della Third avenue di New York, per esempio, al livello della strada si dividono in piccoli e irregolari negozi e caffè che trasmettono un'idea di quartiere. Ma a Songdo, dove tra un isolato e l'altro non c'è alcuna differenza, camminare per la strada è noioso e non serve a niente.
Un tentativo più intelligente di costruire una smart city arriva dai lavori in corso a Rio de Janeiro. Rio ha una lunga storia di devastanti allagamenti, aggravati dalla povertà e dalla violenza diffuse. In passato le persone sopravvivevano grazie a una complessa rete di solidarietà sociale. Oggi le nuove tecnologie dell'inforrnazione aiutano gli abitanti, in un modo molto diverso da Masdar e Songdo. Sotto la guida di Ibm, di Cisco e di altri subappaltatori, le tecnologie sono state usate per prevedere i disastri ambientali, coordinare le reazioni agli ingorghi stradali e tentare di aiutare la polizia nella lotta al crimine. II principio qui è quello della coordinazione, non quello dell'obbligo, come avviene a Masdar e a Songdo.
Ma questo paragone e forse inadeguato. Gli abitanti delle favelas, se potessero scegliere, non preferirebbero avere un luogo pianificato dove vivere? Dopotutto a Songdo non c'è nulla che non funzioni. Svariate ricerche condotte nell'ultimo decennio in città molto diverse come Chicago o Mumbai, suggeriscono che, una volta garantiti i servizi essenziali, le persone non danno molta importanza all'efficienza. Semmai mettono al primo posto la qualità della vita. Il gps a portata di mano, tanto per fare un esempio, non riesce a creare il senso di comunità. Inoltre la prospettiva di una città ordinata non è mai stata un'esca per la migrazione volontaria, né in passato verso le città europee né oggi verso le città in espansione dell'Asia o del Sudamerica. Potendo scegliere, le persone preferiscono una città aperta e indeterminata nella quale potersi fare una strada. Così sentono di avere il controllo sulle loro vite.
Non c'è niente di male nella conferenza sulle smart city ospitata da Londra. La tecnologia è un grande strumento, quando è usata responsabilmente, come a Rio. Ma una città non è una macchina. Come a Masdar e a Songdo, la tecnologia può intorpidire e indebolire le persone che vivono passivamente nel suo efficiente abbraccio onnicomprensivo. Vogliamo città che funzionino bene, ma che siano aperte alle trasformazioni, alle incertezze e alla confusione della vita reale.
10 gennaio 2013
Per creare qualcosa di davvero nuovo, oggi come ieri, bisogna trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato. Nella Boston della metà del novecento, per esempio, le "brain industries" sorsero dove nessun progettista le avrebbe mai piazzate. A Masdar invece, proprio come la Londra del "quartiere delle idee", si valuta in anticipo cosa dovrà nascere in un dato luogo, a dispetto del fatto che nelle città il vero sviluppo spesso è casuale.
Dal punto di vista architettonico Songdo e la smart city dell'alienazione: complessi residenziali compatti ed efficienti s'innalzano all'ombra delle montagne occidentali della Corea del Sud. Sembrano quelli della bolla edilizia britannica degli anni sessanta, ma con i riscaldamenti, la sicurezza e le consegne a domicilio controllati dal "cervellone" centrale di Songdo. Gli enormi blocchi di alloggi non sono concepiti come strutture dotate di individualità e l'insieme di questi edifici privi di tratti distintivi non mira a creare alcun senso di appartenenza. L'architettura uniforme non è destinata a produrre necessariamente un ambiente morto, a patto che ci sia flessibilità alla base. I monotoni grattacieli residenziali della Third avenue di New York, per esempio, al livello della strada si dividono in piccoli e irregolari negozi e caffè che trasmettono un'idea di quartiere. Ma a Songdo, dove tra un isolato e l'altro non c'è alcuna differenza, camminare per la strada è noioso e non serve a niente.
Un tentativo più intelligente di costruire una smart city arriva dai lavori in corso a Rio de Janeiro. Rio ha una lunga storia di devastanti allagamenti, aggravati dalla povertà e dalla violenza diffuse. In passato le persone sopravvivevano grazie a una complessa rete di solidarietà sociale. Oggi le nuove tecnologie dell'inforrnazione aiutano gli abitanti, in un modo molto diverso da Masdar e Songdo. Sotto la guida di Ibm, di Cisco e di altri subappaltatori, le tecnologie sono state usate per prevedere i disastri ambientali, coordinare le reazioni agli ingorghi stradali e tentare di aiutare la polizia nella lotta al crimine. II principio qui è quello della coordinazione, non quello dell'obbligo, come avviene a Masdar e a Songdo.
Ma questo paragone e forse inadeguato. Gli abitanti delle favelas, se potessero scegliere, non preferirebbero avere un luogo pianificato dove vivere? Dopotutto a Songdo non c'è nulla che non funzioni. Svariate ricerche condotte nell'ultimo decennio in città molto diverse come Chicago o Mumbai, suggeriscono che, una volta garantiti i servizi essenziali, le persone non danno molta importanza all'efficienza. Semmai mettono al primo posto la qualità della vita. Il gps a portata di mano, tanto per fare un esempio, non riesce a creare il senso di comunità. Inoltre la prospettiva di una città ordinata non è mai stata un'esca per la migrazione volontaria, né in passato verso le città europee né oggi verso le città in espansione dell'Asia o del Sudamerica. Potendo scegliere, le persone preferiscono una città aperta e indeterminata nella quale potersi fare una strada. Così sentono di avere il controllo sulle loro vite.
Non c'è niente di male nella conferenza sulle smart city ospitata da Londra. La tecnologia è un grande strumento, quando è usata responsabilmente, come a Rio. Ma una città non è una macchina. Come a Masdar e a Songdo, la tecnologia può intorpidire e indebolire le persone che vivono passivamente nel suo efficiente abbraccio onnicomprensivo. Vogliamo città che funzionino bene, ma che siano aperte alle trasformazioni, alle incertezze e alla confusione della vita reale.
10 gennaio 2013
Intersezioni ---> CITTA'
________________________
Note:
L'articolo di Richard Sennet del Guardian, 4 dicembre 2012 è stato pubblicato su Internazionale, 'Intelligente ma non troppo', 21/27 dicembre 2012, n. 980, pp. 81-82.
Richard Sennet insegna sociologia a Londra e New York.
Grazie Salvatore, l'articolo riporta un approccio non omologato al tema, che condivido
RispondiEliminaGiulio,
Eliminat’invito a leggere l’interessante relazione di Philippa Nicole Barr poiché tenta di fare una panoramica su ciò che si è discusso.
Richard Bennett dice cose importanti ma il tema delle ‘smart city’ non va sottovalutato.
Hai mai studiato l’epopea di Milano 2, ci sei mai andato?
Ecco una ‘smart city’ ante litteram che è piaciuta agli italiani.
Milano 2 è il prototipo di moltissime condomini, anche nella tua Roma, concepiti come gatecomunity autosufficienti a misura di comodità dell’uomo.
Che sia chiaro Milano 2 e le migliaia di condomini gatecomunity non vanno confusi con gli ‘archistar’ o il tema del ‘modernismo brutto e cattivo’.
Serve un’attenta analisi sull'edilizia italiana per capire il possibile fascino che potrebbe esercitare una ‘smart city’ all'italiana.
Saluti,
Salvatore D’Agostino
ciao Salvatore,
RispondiEliminagiocando sempre di rimandi, l'altro giorno leggevo questo post di Claudio Giunta dal titolo Vite non esattamente smart su Le parole e le cose.
In relazione alle parole di Sennett mi sono appuntato questo:
"Soltanto ore più tardi, da solo (perché la folla trascina), ho pensato che non per essere luddisti, davvero no, ma cose del genere non è che abbiano questa grande importanza, non è che c’entrino poi molto con la felicità o col benessere, e che i veri problemi sono di una natura completamente diversa, e soprattutto sono più semplici, e perciò più difficili da risolvere, e che tutto questo scialo di smartness alla fine è anche (non solo, ma anche) una distrazione, un parlare d’altro. Io, faccio per dire, non ho neanche il microonde, e sto da papa."
Poi l'autore continua citando le inchieste di Günter Wallraff che afferma:
"«Credo che il mondo immaginato da Orwell sia finito con la dittatura di Stalin, e questo è un bene. Ma quello che si profila oggi è il mondo immaginato da Aldous Huxley in A Brave New World: il mondo della sottomissione volontaria, in cui l’industria del divertimento fa sì che la gente non rifletta sui propri problemi e su quelli della società, e in cui i vincoli di solidarietà nel mondo del lavoro vengono spezzati»."
Mi sembra che dietro l'idea di Smart City si profilino strane ombre soprattutto perché sembrano guidate in primis da interessi commerciali e poi politici. Il rischio di delegare il controllo delle proprie vite a sistemi "intelligenti", come sottolineato da Sennett e da Wallraff non mi sembra per niente da sottovalutare.
Rem,
Eliminagrazie per il rimando.
Il tema delle smart city in Italia si sta facendo sempre più pregnante da quando il Ministero della pubblica istruzione ha finanziato, con 655 milioni di euro, la ricerca su questo tema (vedi qui) proponendo: «Le idee dovranno proporre interventi e sviluppare modelli per risolvere problemi di scala urbana e metropolitana negli ambiti individuati dal MIUR (Sicurezza del Territorio, Invecchiamento della Società, Tecnologie Welfare ed Inclusione, Domotica, Giustizia, Scuola, Waste Management, Tecnologie del Mare, Salute, Trasporti e Mobilità Terrestre, Logistica Last-Mile, Smart Grids, Architettura Sostenibile e Materiali, Cultural Heritage, Gestione Risorse Idriche, Cloud Computing Technologies per Smart Government)».
Come vedi un’ammucchiata di temi che non hanno niente a che vedere con l’urbanistica o in senso lato con l’idea di città. La città più sensibile a questa ‘misura’ è stata Pordenone ti segnalo una sintesi di Sergio Maistrello, un pioniere dell’uso del blogger, che ha partecipato alla realizzazione del progetto leggi il suo post qui.
«La città diventa smart – dice Maistrello - se una massa critica di cittadini diventa smart nei comportamenti, nelle pratiche e nelle aspirazioni di ogni giorno. Il che ne fa un’opportunità culturale prima che tecnologica».
Questa frase scritta da Maistrello ci riporta ad una concezione di ‘massa critica’ omologata verso dei modelli. Verso una strategia di marketing urbano che condiziona il senso civico del cittadino. I cittadini smart a me fanno orrore poiché deprivati proprio ‘di massa critica’.
Ovvio, io non sono un luddista ma da analista di cose urbane ma condivido la tua preoccupazione «Il rischio di delegare il controllo delle proprie vite a sistemi "intelligenti"» poiché comporta un ritorno al modello degli anni ’80 dove la TV ci ha educati al disimpegno sociale, alla passività, al divano, ai luoghi chiusi, alla stanza e non alla piazza.
I cittadini smart mi ricordano i cittadini teledipendenti non so perché.
A presto,
Salvatore
Rem,
Eliminanon riesco a inserire i link, bizze di blogspot.
Eccoli:
1) Ministero: http://hubmiur.pubblica.istruzione.it/web/ricerca/dettaglio-news/-/dettaglioNews/viewDettaglio/21306/11213
2) Maistrello: http://www.sergiomaistrello.it/2012/12/13/come-stiamo-facendo-la-smart-city-a-pordenone/?utm_source=feedburner&utm_medium=feed&utm_campaign=Feed%3A+SergioMaistrello+%28Sergio+Maistrello%29
Grazie per la citazione. I cittadini smart ricordano i teledipendenti se si leggono i comportamenti smart con gli occhiali dei media di massa.
EliminaLeggendoli con la sensibilità dell'ecosistema di rete raccontano tutt'altro, se non l'opposto: cittadini che si affrancano dall'omologazione perché inseguono nicchie di interesse e in base a questi creano gruppi sociali, reti di collaborazione, iniziative creative; cittadini attivi che rielaborano informazioni grezze (e non più solo prodotti culturali confezionati) ricomponendole e moltiplicandone gli scopi e le destinazioni; sistemi di informazione e condivisione su scala iperlocale che non si appiattiscono sulle pagine svogliate di un giornale locale, ma si arricchiscono con le differenze messe a disposizione dai vari nodi di senso della città.
Non c'è nulla di più lontano dalla passività anni '80, dall'alienazione dietro a uno schermo, dei modelli precostituiti, dal marketing urbano, dal condizionamento dei comportamenti, negli scenari aperti dai network digitali. Tutt'altro. Suggerisco di integrare Sennett con un testo recente di David Weinberger o Luca De Biase.
Quanto alla massa critica, è semplicemente il nome che diamo alla soglia quantitativa minima oltre la quale si ottiene un mutamento qualitativo nell'uso degli strumenti di rete. Un'applicazione sociale, soprattutto se inserita in un contesto di rete come un social network, è una scatola vuota senza le persone: serve un certo numero persone per perché il sistema operativo delle relazioni cominci a produrre valore per la comunità (valore che a quel punto non è misurabile con metriche quantitative, in genere).
Grazie, a presto,
sm
Sergio Maistrello,
Eliminadue aspetti mi lasciano perplesso:
il primo è l’operazione indotta (finanziamento politico) ‘smart’ che tenta di governare e mettere ordine nel variegato ecosistema delle voci ‘civiche’ della città;
il secondo è di carattere prettamente urbano ed è l’idea di delegare le funzioni della città ai ‘dispositivi’ elettronici, una sorta di domotica su grande scala (già in uso in ambienti commerciali).
Evitando di citare solo le tesi di alcuni scettici dell’uso partecipativo del Web su tutti Sherry Turkle e Nicholas Carr mi limito a costatare che la città per sua caratteristica naturale è inclusiva (ci vivono brutti e belli, buoni e cattivi, anime sante e pedofili) e ospita, ed ha ospitato, luoghi civici concreti, fisici, attivi prima dell’avvento del Web.
Certo bisogna chiedersi (dal mio punto di vista come fa lo studioso Henry Jenkins) come sta cambiando il ‘cittadino’ e la città con l’avvento del Web?
Per capire come migliorare i normali servizi di base (già esistenti prima del Web) per il bene comune della città e non per innescare processi ‘partecipativi’ indotti in funzione di X, Y, Z.
Un bene comune che, a mio parere, dovrebbe avere una doppia matrice:
‘smart se vuoi ipersmart’ per gli aspetti riguardanti la mobilità, la sanità, l’assistenza sociale (poiché in questo caso i protocolli sono necessari);
no smart o poco smart per l’aspetto più interessante di una città che è come dice Rebecca Solnit «un poter passeggiare tra sconosciuti» senza per forza dover processare secondo la nuova estetica ‘smart’ la propria vita sociale.
Infine condivido ciò che dici “sistemi di informazione e condivisione su scala iperlocale che non si appiattiscono sulle pagine svogliate di un giornale locale, ma si arricchiscono con le differenze messe a disposizione dai vari nodi di senso della città” ma questo cambiamento non ha niente a che vedere con l’innesto soft ‘smart’ ma con qualcosa di più hard come l’incontro (scontro) sociale fuori dagli schermi.
Saluti,
Salvatore D’Agostino
Non capisco dove il modello di cui parlo nel post citato lasci pensare che si tenti di "governare e mettere ordine nel variegato ecosistema delle voci civiche della città" e "delegare le funzioni della città ai dispositivi elettronici". O ancora dove si intenda negare l'inclusività e l'eterogeneità dei soggetti che animano la città e i loro scopi. L'esatto contrario, dal mio punto di vista.
EliminaSmart, dal mio punto di vista, non coincide con tecnologia e computazione. Più smart non significa più tecnologia, più computer, più schermi, più virtualità. E anche dove c'entra la tecnologia, non è la tecnologia il punto. I processi smart possono al contrario favorire proprio il "passeggiare tra sconosciuti", moltiplicare gli spazi sociali in cui rappresentare le eterogeneità della città.
Sergio Maistrello,
Eliminacondivido i processi smart possono moltiplicare gli spazi sociali ma una città troppo smart rischia di espellere chi giustamente vuole ignorare i processi smart.
Il termine smart city è una tautologia poiché da sempre la città è adattiva, si rigenera giornalmente.
Sono quindi d’accordo nel definire protocolli ‘smart’ per esigenze sociali specifiche ma lascerei alla pancia della città intrecciare o no le relazioni più o meno intelligenti.
Saluti,
Salvatore D’Agostino
interessante
RispondiEliminalabzona.it
Labzona,
Eliminadetto tra noi anche la moglie di Richard Sennett ‘Saskia Sassen’ non è da sottovalutare.
Saluti,
Salvatore D’Agostino
Ho letto quest'articolo di Sennett con interesse perché credo che l'idea di controllo sia uno degli stratagemmi ricorrenti nel progetto urbano, prima era controllo per motivi sacro fondativi, poi per motivi meccanici e militari , poi per motivi igienici, sociali, e oggi per motivi "intelligentemente" energetici e/o ecologici. Ricordo una frase di L.B. Alberti che dice ...: " e possiamo col nostro Pensiero e immaginazione inventare forme perfette di edifici completamente separate dalla materia, fissando regolando in un certo Ordine la Disposizione e la Congiunzione delle Linee e degli Angoli." ecco oggi questa perfezione è inseguita sul terreno dell'aderenza alla materia, alla natura alla vita e anche alla morte.
RispondiEliminaLuciano.
Eliminainteressante la timeline del cambio d’ideologie sul controllo del ‘progetto urbano’.
Vitruvio nell’introduzione al suo trattato sull’architettura ‘De Architectura’ scriveva: «Fino a quando il tuo spirito divino e la tua volontà, o Cesare Imperator, erano impegnati a conquistare il dominio sul mondo e i tuoi concittadini, ormai abbattuti i tuoi nemici tutti grazie al tuo invincibile valore, traevano vanto dal tuo trionfo e dalla tua vittoria e tutte le popolazioni sottomesse stavano in attesa di un tuo cenno e il popolo romano e il Senato liberati dalla paura cominciavano a farsi guidare dai tuoi disegni politici e dalle tue decisioni altamente autorevoli, non osavo, in mezzo a situazioni così impegnative, pubblicare quanto sull'architettura avevo già scritto e le idee cui avevo dato sviluppo dopo lunghe riflessioni, trattenuto com'ero dal timore di andare incontro alla tua irritazione, disturbandoci in un momento poco opportuno.
Quando notai però che tu non ti prendevi cura soltanto della vita pubblica della comunità e dell'organizzazione dello stato, ma anche dell'opportunità di dare sviluppo all'edilizia pubblica, in modo tale che per opera tua non solo lo stato risultasse accresciuto grazie alle nuove province, ma la grandezza del potere si manifestasse anche nello straordinario prestigio degli edifici pubblici, ritenni di non dovere lasciare passare la prima occasione per pubblicare, dedicandoli a te, quei miei scritti sull'argomento in questione, e la ragione prima era che in relazione ai miei interessi in questo campo ero stato conosciuto da tuo padre ed ero stato un ammiratore del suo valore». (Vitruvio, De Architectura, Libro I, Einaudi, 1997, p. 11)
Firmitas, utilitas e venustas sono le prime armi ideologiche usate dal potere per dominare l’uomo urbano.
Le città ‘controllate’ o ‘subdolamente’ intelligenti mi ricordano le parole d’ordine di molte ‘teorie urbane e architettoniche’ a uso e consumo dei ‘poteri forti’.
Saluti,
Salvatore
Salvatore,
RispondiEliminaun altro contributo sul tema, trovato su Edge.
"Smart" di Evgeny Morozov
Rem,
Eliminala parte finale della risposta di Evgeny Morozov alla domanda posta da Edge’di cosa ci dovremmo preoccupare?’ è interessante:
«Ahimè, le soluzioni intelligenti non si traducono in risolutori di problemi intelligenti. In realtà, il contrario potrebbe essere vero: accecati dalla suggestione dei nostri strumenti, si potrebbe dimenticare che alcuni problemi e alcune imperfezioni sono solo i normali costi che derivano dall’accettare il contratto sociale di vivere con altri esseri umani, trattandoli con dignità, e garantendo, nella nostra recente ricerca di una società perfetta, di non chiudere la porta al cambiamento. Quest’ultimo di solito accade negli ambienti turbolenti, caotici, non perfettamente progettati; gli ambienti sterili, in cui tutti sono contenuti, non sono ben noti per l’innovazione, o per la varietà tecnologica e sociale.
Quando si tratta di tecnologie intelligenti, non c’è una cosa come troppo “intelligente” e non è bello».
A mio parere un ospedale dovrebbe essere il più smart possibile con medici capaci di essere poco smart al momento giusto.
Un amministratore politico dovrebbe preoccuparsi delle pari dignità sociali dei cittadini e come dici tu del lavoro, soprattutto in quei luoghi poco smart, intelligenti, difficili dove è semplicemente impossibile iniziare a immaginare di educare uno smart cittadino.
C’è da dire che l’informazione Web e l’uso delle tecnologie Web sta offendo un’opportunità infinita alle città dimenticate da Dio. La nostra percezione geografica per fortuna sta cambiando. Ogni città ha la possibilità di relazionarsi con il mondo ma per cambiare concretamente servono azioni concrete. Non attraverso una consapevolezza indotta dall’esterno ma spontanea – uomini che si alzano dalla sedia - che io chiamo heresphere, una speranza non una teoria.
Grazie per la traduzione,
Salvatore
L'equivoco delle Smart City è infatti che si confonde l'inteligenza con l'automazione
RispondiEliminaLe città per essere inteligenti devono essere strutturate in maniera da diventare otiplicatori delle singole inteligenze dei cittadini che le abitano e le utilizzano.
I modelii citati nell'articolo assomigliano più a delle gate communities nelle quali alcune categorie di esseri umani tendono a volersi rifugiare per scampare al disastro (reale o prsunto) della contemporaneità.
UNa maniera comoda (ancorchè legittima) per inseguire una esistenza facile e priva di pensieri
http://www.huffingtonpost.com/2013/01/08/paseo-cayala-guatemala-private-city_n_2434644.html
Qfwfq,
Eliminafai bene a citare le ‘gated community’ però t’invito a non demonizzarle.
Quest’anno alla biennale c’era uno studio su quattro storiche (perdona non ho qui il catalogo) ‘gated community’ dall'inizio del novecento a oggi e la loro evoluzione nel tempo.
Uno studio interessante per capire perché queste ‘città intelligenti e controllate’ sono tuttora particolarmente amate.
Da qualche settimana ho tra le mani un libro che Silvio Berlusconi distribuiva agli abitanti (o agli amici) di Milano 2. Una storia che al di là delle vicende politiche va analizzata e raccontata.
Poiché Milano 2 fu il prototipo di molti ‘condomini residenziali’italiani.
Saluti,
Salvatore D’Agostino
PS: detto tra noi terribile la città che mi hai linkato
Secondo me non tutti gli esseri umanni danno importanza all'architettura perché non tutti gli esseri umani hanno la cd sensibilità collettiva, chi si limita a soddisfare i bisogni di base ritenendoli gli unici bisogni non sente il bisogno neanche della tecnologia.
RispondiEliminaUna persona affascinata dall'architettura e dai colori
Persona affascinata dall'architettura e dai colori, leggo solo adesso il tuo commento e condivido. Se l'architettura perde il senso del collettivo, perde il senso stesso del suo essere architettura.
RispondiElimina