10 ottobre 2011

0003 [CAPO COSTRUTTORE] know (conoscenza) e coo (cooperativa)

di Salvatore D'Agostino

Circa un anno fa Giacomo Butté* mi poneva questa domanda:
«[...] visto che sei anche un comunicatore di cultura progettuale. Trovo sbagliato la maniera in cui solitamente un progetto viene comunicato: lo si riduce ad essere solo immagine come se fosse una natura morta. Non capisco perché i progetti non vengano problematicizzati all'interno delle logiche in cui sono nati. Dovrebbe essere chiaro in ciascun progetto quali sono stati i drivers, i limiti, le esigenze, i desideri che hanno portato a quel risultato».1
Risposi che tra i miei appunti di prossime rubriche c'era quella dedicata ai progetti e, condividendo il suo disagio, stavo elaborando un’idea su come, attraverso un blog, analizzare l'architettura e non la sua immagine.

Con l’intersezione CAPO COSTRUTTORE andrò alla ricerca di architetture evitando l’agiografia dell’architetto (dal greco architékton, archi- 'CAPO' e tèkton 'COSTRUTTORE').

Per essere concreti, nel prossimo post, partirò da qui:



Questo incipit si arricchisce di un’intervista pensata grazie una segnalazione di Domenico Cogliandro:
«Lo apprezzo [Knowcoo Design Group*], per quanto lo conosca personalmente solo in parte, per la discrezione e l’attenzione lessicale del territorio su cui opera. Le sue opere, infatti, sono la lingua stessa del territorio, ne è pregno e, al tempo stesso, disposto alle variazioni fonetiche e strutturali. Apprezzo il suo metamorfismo e, per quanto possa sembrare un controsenso, la certosina attenzione alle declinazioni delle forme che determina».2
Non conoscevo i lavori del gruppo, anche se da anni seguo le vicende di alcuni di essi inoltre, Domenico, mi suggeriva:
«Il doppio cognome rimanda a paternità e maternità, come sovente i doppi cognomi, sta a te, però, scoprire con quale dei due è registrato all’anagrafe».
Ho accolto il suo invito e il 15 dicembre 2009 ho chiesto un’intervista ai Knowcoo, il 10 gennaio 2011 ho ricevuto le loro risposte che oggi pubblico. Buona lettura:

Per Knowcoo Design Group risponde Roberto Masiero.

Salvatore D'Agostino «Sono oggi invece in molti a sostenere che l’arte non ha nulla a che vedere con la società, - afferma Vittorio Gregotti - con le sue contraddizioni e con le sue speranze migliori, che essa sia divenuta semplicemente una delle tecniche di comunicazione dello stato delle cose e che tra democrazia, capitalismo ed equità non vi sono contraddizioni. A questo contribuisce in modo determinante lo spostamento dell'architettura verso l'indistinta nuova disciplina dell'estetizzazione diffusa del mondo, che sembra avere lo scopo di liberare l'architettura dal proprio fondamento specifico come da ogni autentica necessita di senso, alla ricerca di una falsa; quanto infinita confusione falsamente interdisciplinare, capace di metterla al sicuro dal rischio e dalle responsabilità della propria avventura.
II programma diventa allora l'assoluta liberazione, dell'arte, e quindi dell'architettura da tutte le discipline dissolvendole in un unico non innocente sguardo estetico. Ma liberarle da che cosa se non dall’arte stessa?»3 
L'architettura deve essere liberata dalla confusione interdisciplinare che teme Vittorio Gregotti?

Roberto Masiero
L’arte così come la concepiamo in questo nostro tempo nasce alla fine del Settecento trasformando tutto ciò che la precede in Storia dell’Arte. Nasce nel momento in cui viene a decadere il primato della mimesis e del bello oggettivo e nel momento stesso in cui la società si organizza per abbandonare il primato del valore d’uso per il valore di scambio. Nasce come motore di un processo tendente a potenziare la valorizzazione fine a se stessa, come “macchina” per la produzione di valori senza causa (Kant avrebbe detto senza fine, senza scopo), come estetizzazione diffusa. Essa è da subito negazione dell’esistente e nel contempo negazione di sé (o meglio, usa la negazione del sé per negare l’esistente). Come dice Adorno, ogni opera che voglia essere opera d’Arte nasce dal profondo desiderio di uccidere tutte le opere preesistenti. Da subito il lucidissimo Hegel ne profetizza la morte: è ovvio, dato che tutto ciò che può nascere può anche morire. Scrive: «l’Arte è un frutto staccato dall’albero che una dolce fanciulla, la storia, ci regala». Staccato dall’albero significa tolto dalla sua linfa vitale. Presentando se stessa come custode di ciò che è morto, apre in realtà ad un “altro” esistente: quei “cadaveri” sono l’esito di riti per la sopravvivenza. Da ciò la sacralità romantica dell’Arte. S’insinua dovunque con un’invasività inquietante rendendo tutto indistinto, segnando di sé l’esistente stesso (l’estetismo diffuso, appunto). È pharmacon, cioè nel contempo veleno e medicina, mortale e salvifico. Questa è la totalizzzazione estetica. Piaccia o non piaccia questo è il carattere fondamentale di ciò che mi sembra giusto chiamare il nostro Contemporaneo (Ripeto: dalla seconda metà del Settecento ad oggi).

C’è chi vorrebbe liberarsi della totalizzazione (vedi Vittorio Gregotti) impedendo all’estetica di espandersi invocando le regole del mestiere, o altre regole dettate da una presunta disciplina; c’è chi vuole fare surf nella totalizzazione estetica, divertendosi a produrre mode, eventi, messe in scena, confusione interdisciplinare (vedi quasi tutto il Postmodernismo che interpreta tutto questo come una condizione di libertà); c’è chi s’interroga su questa nuova condizione aperta dal non avere regole o di vivere nella “palude” dell’estetizzazione diffusa, per cercare di capire come uscire da questo nostro tempo (e qui mi ci metto io con pochi altri, ahimè!). Come?

Ritorniamo all’arte come pharmacon: da una parte è veleno, dall’altra è medicina; da una parte si disperde nell’esistente e per l’esistente, dall’altra resiste all’esistente, costituisce singolarità, unicità, opere capaci di essere “autogiustificate” autoregolate, autoreferenziali. Tanto più l’opera sarà se stessa (persino lontana dal suo stesso autore) tanto più aprirà al superamento dell’esistente. Da questo punto di vista il problema non è la confusione interdisciplinare o la ricerca nostalgica di un’autonomia disciplinare, ma il problema diviene come costituire l’autonomia dell’opera (le SUE regole, le SUE logiche, le SUE tecniche, le SUE evidenze… le SUE proprietà). Facile? Per nulla! Di certo questo rimette in campo una concezione dell’etica non finalistica ma della “appropriatezza”.
Forse i Greci ne sapevano qualcosa: la chiamavano sophrosyne.

Carlo Scarpa il 18 marzo 1964 fu chiamato a inaugurare l’anno accademico 1964-65 all’Istituto di Architettura di Venezia, masticando un po’ di clorato di potassio e bevendo un po’ d’acqua rilasciata da Whisky, tenne una conferenza sull’arredare: «In un certo senso quest’aula non è un’aula per assemblee di raccolta di persone, lo è provvisoriamente perché non possiamo far fronte con un edificio di ordine nuovo, non abbiamo altri canali per costruire una nuova sede autenticamente moderna Cioè la sede che ci appetisce di più al tempo che viviamo. L’Italia è cosi, essendo piena di monumenti di cui non servono più al loro scopo originario…?».4 
Dal 1956 al 2001 la superficie urbanizzata del nostro Paese è aumentata del 500% con un incremento del 20°% della popolazione da 50.000.0000 siamo passati a 60.000.000 abitanti . Un tessuto edilizio costruito da un mix di tecnici tra architetti, ingegneri e geometri che spesso hanno semplicemente trasposto il linguaggio dell’edilizia in muratura in cemento armato oggi a guardarle bene con la patina del tempo sembrano camuffarsi con l’edilizia del passato. 
Abbiamo abbandonato la cultura della città stratificata?

Sinceramente non riesco a decriptare l’argomentazione di Carlo Scarpa. Indubbiamente colpa mia. Altrettanto sinceramente non so cosa sia la “cultura della città stratificata”. Dovete scusare la mia ignoranza. Ricordo vagamente alcuni ragionamenti di Aldo Rossi che già allora mi lasciavano molto perplesso se non altro per la banale questione che non esiste una città che non sia stratificata.

Forse si allude a qualche segreta pratica progettuale che avrebbe permesso all’alchimista architetto di tenere assieme passato, presente e futuro? Forse nemmeno il buon Dio, sa tenerli assieme e, comunque, se esiste, non ci ha certo concesso questo potere altrimenti ci avrebbe donato l’eternità (che guarda caso è proprio ciò che si cerca con l’estetizzazione e sacralizzazione dell’opera d’arte). Non solo la città, ma il mondo stesso è per propria natura stratificato e con esso ciò che chiamiamo cultura. La cultura non è altro che la stratificazione stessa. Dovremmo allora scrivere che ciò che abbiamo abbandonato è la CULTURA.

Ma che cosa è la cultura: è ciò che designa il nesso globale di teoria e prassi, intendendo la prassi come agire e fare. La cultura rappresenta ciò che gli uomini fanno di se stessi e del loro mondo e quanto, inoltre, essi pensano e dicono. Da questo punto di vista c’è cultura solo se c’è progetto, cioè qualcosa che viene gettato in avanti e la stratificazione è ciò da cui partire e non ciò a cui arrivare. Diceva bene Adorno: non si tratta di conservare il passato, ma di realizzarne e suoi sogni. Non si tratta di conservare gli strati (magari con le patetiche estetiche del genius loci o del regionalismo, veramente patetico-formalistiche). Io, per altro, sono convinto che c’è un unico modo per rispettare i luoghi: progettare un’opera che sia solo se stessa (che non significa assolutamente nuova, alla moda). Non per nulla scrivendo su Casabella di Livio Vacchini ho usato l’adagio: «non sono i luoghi che fanno l’architettura, ma l’architettura che fa i luoghi e per questo l’architettura deve essere caratterizzata dal segno della responsabilità».5

Nel suo 'Saper vedere l'architettura' Bruno Zevi affermava: «La cultura degli architetti moderni è troppo legata alla loro cronaca polemica».6 
E quella critica?

Dopo Gregotti, e Carlo Scarpa adesso tocca a Zevi e di seguito trovo anche Dorfles… e poi dicono largo ai giovani. Non avete altri testi di riferimento? meno datati? meno provinciali? Tant’è!
Zevi: «La cultura degli architetti moderni è troppo legata alla loro cronaca polemica». E a che altro dovevano far riferimento? Ad un’idealistica eternità? E se ancora oggi interroghiamo le loro opere , le opere di Le Corbu, di Mies, di Kahn, non è forse perché durano al di là delle occasioni che hanno determinato le loro polemiche?
Chi oggi sottoscriverebbe la polemica di Zevi per la quale Wright era democratico perché organico e Le Corbusier antidemocratico perché rifiutava l’organicismo? Chi se la sente di dire –come scrisse Zevi- che Mario Botta è un antidemocratico perché la sua architettura tende alla simmetria? Zevi predicava bene e razzolava malissimo: scambiava la propria ideologia per la verità. Comunque faceva della “critica”:

E la cultura della critica oggi?

Perché c’è cultura critica oggi? La critica non esiste più da molto tempo. Nel migliore dei casi è giornalismo acquiescente o rabbiosa polemica.
La critica era innanzi tutto critica immanente , cioè conoscenza delle opere nelle sue tecniche, nelle sua materie, nelle sue procedure, nei suoi presupposti logici e ideologici e nel modo in cui l’opera viene recepita; la critica era confronto-scontro con l’opera, presa di posizione, accettazione o rifiuto MOTIVATO. Perché è venuta a mancare la critica? Per rispondere bisognerebbe capire che cosa è successo del lavoro intellettuale nella nostra società. Mi sembra questione troppo complessa per affrontarla in questa occasione. Di certo la totalizzazione estetica produce omologazione e questa tende a frustare la funzione intellettuale; così (in questo senso ha ragione Gregotti) tutto diventa indistinto e ciò che si perde nell’opera è la relazione fondamentale tra fare e pensare, tra ciò che nel tempo in cui la critica cercava di trovare la strada per l’emancipazione sociale (lo dico senza nostalgia) si chiama prassi e ciò che si chiamava teoria: volevamo tenerle assieme e forse proprio la nostra generazione (ho 66 anni) ha prodotto la palude estetica.

«Oggi, sotto l’etichetta di horror pleni vorrei procedere oltre: intendo, infatti, partire da un concetto che mi sembra non sia stato sufficientemente indagato, - osserva Gillo Dorfles - quello appunto del rifiuto del “troppo pieno”, del “troppo rumore” (non solo nel senso del brusio e del frastuono, ma anche nel senso usato dalla Teoria dell’informazione: rumore come opposto di informazione e dunque confusione di ogni messaggio). Gli esempi sono sotto i nostri occhi (e le nostre orecchie): basta affacciarsi alle finestre nella casa d’una nostra città, percorrere in macchina un’autostrada, osservare i muri delle metropoli e, prima di tutto, guardare e ascoltare lo spettacolo quotidiano della tv. Le nostre capacità percettive e mnestiche sono certo grandissime, ma hanno un limite. Inoltre sono destinate a ottundersi per l’eccesso di stimolazioni cui sono sottoposte. D’altro canto solo attraverso la pluralità degli stimoli – auditivi o visivi, nel caso degli spot televisivi e delle pubblicità stradali, ecc. – si ottiene una sufficiente sollecitazione, sempre con il sacrificio di quella pausa che, invece, dovrebbe accompagnare ogni fruizione estetica».7 
Che cosa osservate dalla vostra finestra?

Eccoci a inseguire Dorfles: la sua capacità di rimasticare temi già digeriti è stupefacente. Ma forse è proprio questo che il pubblico vuole. La questione che l’eccesso d’informazione annulla l’informazione stessa appartiene al dibattito degli anni ‘60. Sarebbe poco male se questo tema non fosse usato per propinarci un’idea fastidiosamente idealista che la pausa o il silenzio “dovrebbe accompagnare ogni fruizione estetica”. Quando scrive fruizione estetica cosa diavolo intende Dorfles? Forse l’idiota contemplazione di massa di fronte ai capolavori predisposti ad hoc, con l’inserviente che ti fa segno di tacere per non disturbare la contemplazione altrui? E l’emozione massificata che si produce nel delirio dei concerti organizzati negli stadi con decibel alle stelle non è forse fruizione estetica? La prima è buona, la seconda cattiva?

Cosa vedo fuori dalla finestra?

Vedo ciò che mi fa vedere ieri la televisione oggi internet con i suoi derivati; vedo che non esiste più una distinzione tra interno ed esterno, tra pubblico e privato; vedo una cultura di massa che ha ridotto le élite in servi e gli intellettuali in buffoni di corte (e forse ha fatto bene, forse è proprio su questa questione élite/massa che oggi bisogno trovare l’uscita da un universo senza uscita, forse va ripensata la stessa idea di politica…). Forse bisogna ripensare il rapporto tra il lavoro e il mondo delle idee… quello appunto che si chiamava lavoro intellettuale…

Come si svolge il vostro lavoro?

Per quanto mi riguarda credo sia fondamentale elaborare prima di qualsiasi decisione progettuale una sorta di metaprogetto (o di teoria intesa in senso assolutamente non normativo) che determini i limiti entro i quali si producono le decisioni progettuali. Ad esempio: come un’architettura si appoggia a terra, come s’innalza e come si chiude nel cielo; se e perché deve essere “corpo” unitario, o se si debba articolare in due o più “corpi”, ecc.
Comunque la questione fondamentale è mai farsi catturare dalle idee o dalle forma: pensare non è avere un’idea e l’architettura è innanzitutto COSA MENTALE. Mai farsi sedurre dalle forme: la forma è l’esito (alle volte persino inaspettato) del processo progettuale. Tutto dovrebbe essere controllato e pre-figurato sin dall’inizio. Da ciò una certezza: se qualcosa nel processo non torna (la posizione di una scala, piuttosto che le questioni relative al sistema distributivo e persino alle questioni impiantistiche) è fondamentale tornare all’inizio della fase progettuale.
Ritengo che qualsiasi sia la forma finale, le questioni strutturali devono risolvere questioni architettoniche e le questioni architettoniche debbono risolvere questioni strutturale e che a “definire” la struttura debba essere fondamentalmente la luce.
Questo il mio lavoro nel progetto d’architettura, ma la mia vita è doppia e opero anche come storico, teorico e critico dell’architettura e delle arti. In fondo non cambia molto: predisporre i materiali, elaborare critica ed interpretazione, mai farsi sedurre dalle idee, prendere posizione… 

In concreto?

Knowcoo è costituita da 5 soci, ognuno dei quali proviene da mondi differenti sebbene siano tutti legati alla progettazione: Tobia Scarpa ha contribuito in modo determinante nella definizione della storia dell’architettura e dell’industrial design italiano ed internazionale; Bruno Dolcetta ha elaborato piani urbani e territoriali in tutto il territorio nazionale; io (Roberto Masiero) opero nel campo della comunicazione e dei progetti culturali; Andrea Bozzo ha parte attiva in tutte le fasi progettuali, Roberto Canella gestisce i rapporti esterni ed è esperto in investimenti immobiliari. È questa la vera forza dello studio: un sentire comune arricchito dalle esperienze uniche di ciascuno di noi.
Quando un cliente ci sottopone un quesito ognuno dei soci porta il suo contributo, evidenziando punti di forza e lacune del suo specifico ambito. Il confronto continuo tra i soci permette di definire al meglio e nel modo più completo la soluzione che si vuole portare avanti.
Poi inevitabilmente si affida il progetto ad uno solo di noi che lo sviluppa con i collaboratori, altra risorsa fondamentale dello studio, programmando briefing successivi che consentono una visione sempre “fresca” dei temi e delle soluzioni. 

10 ottobre 2011 (ultima modifica 9 novembre 2011)
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Note:
1 Da un'intervista a Giacomo Butté: 0008 [FUGA DI CERVELLI] Colloquio Italia ---> Cina con Giacomo Butté*
2 all'interno dell'inchiesta Oltre il senso del luogo*: 0067 [OLTRE IL SENSO DEL LUOGO] Runniegghié di Domenico Cogliandro*
3 Vittorio Gregotti, Contro la fine dell’architettura, Einaudi, 2008, p. 133
4 Allegato speciale, Casabella, n. 698, marzo 2002 (registrazione di Sergio Polano)
5 Roberto Masiero, Livio Vacchini, Casabella, n. 655, aprile 1998
6 Bruno Zevi, Saper vedere l'architettura, Einaudi, Torino, 1948, p. 15
7 Gillo Dorfles, Dorfles: è tempo di intervallo, Corriere della Sera, 4 dicembre 2009*

9 commenti:

  1. Salvatore,
    mi fa piacere vedere gli sviluppi di questo approccio verso la comunicazione del progetto. Mi chiedo se valga la pena provare a fare un passo concreto: presentare un progetto comunicando le logiche (i vettori del campo in cui si trova)e i limiti che il progetto deve affrontare.
    Da quando sono qui in Cambogia ho ancora piu interesse in sviluppare quest'idea per cui il progetto lo si presenta non come valore assoluto ma come una frazione, una relazione tra il possibile e il compiuto.

    Buon lavoro

    Giacomo

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  2. Più che un'intervista mi sembra una sfida all'ultima citazione (da un rapido conteggio Masiero batte D'Agostino 5 a 4 con, a sorpresa, un'autocitazione) ;-)
    Poi, devo dire, prima di procedere nella lettura dell'intervista, sono andato subito a vedere il sito dello studio e mi è sembrato a prima vista uno studio di professionisti giovani e seri, molto concreti, forse un po' troppo grigi ma sarà stato l'effetto del sito web un po' anni '05.
    Poi, arrivo al team e scopro questo fior fiore di professionisti, persone che hanno fatto veramente la storia dell'architettura e del design e mi chiedo: cosa c'è dietro la volontà di raggrupparsi in un superstudio com'è Knowcoo? Nel senso che è la voglia di sperimentare percorsi che da soli non sarebbero possibili (penso ai supergruppi musicali in cui diversi componenti provenienti da band diverse si uniscono per progetti laterali e temporanei) oppure è specchio di una recessione incalzante che spinge a unire le forze?

    un saluto

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  3. Rem intercetta bene una domanda che avrei fatto anche io. Mi ricorda alcuni esperimenti di gruppi formati da componenti di altre band sciolte, che spesso portano risultati deludenti, ma a volte superano qualsiasi aspettativa!

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  4. "...rifiuto del “troppo pieno”, del “troppo rumore” (non solo nel senso del brusio e del frastuono, ma anche nel senso usato dalla Teoria dell’informazione: rumore come opposto di informazione e dunque confusione di ogni messaggio)..."
    Nelle telecomunicazioni, la tecnica DSL (cioè ADSL, HDSL, SDSL ecc.) non è nient'altro che rumore elettronico generato dal modem che annulla il disturbo naturale (cioè la diafonia) dovuto alle imperfezioni dei cavi (soprattutto quelli in rame). I due rumori si annullano a vicenda e così il segnale arriva veloce e pulito.
    Così dovrebbe essere un nuovo edificio. Deve tendere ad "annullare" i rumori estetici (difetti, bruttezze) degli edifici circostanti, anche se antichi. Questo, per me, è il vero organico. Non è uno stile definito, un'etichetta, quanto un segnale variabile armonizzante. Frank Gehry era molto vicino ad ottenere il DSL dell'architettura, ma purtroppo se ne è andato ad un passo dal pieno successo...
    Vil Geometra.

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  5. Giacomo,
    come dicevo nella premessa ne parlavamo circa un anno fa, per uscire fuori dall’inghippo della ‘rassegna stampa’ e dal ‘progetto spendibile’ occorre inventarsi un nuovo modo di comunicare (criticare) il progetto.
    I limiti di quest’operazione risiedono dal mezzo non convenzionale (non economico) del blog.
    Quest’estate ho preso il primo appunto, dammi il tempo di metabolizzare, poiché Wilfing non ha fretta, non deve vendere niente.
    Saluti,
    Salvatore D’Agostino

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  6. REM,
    per me la citazione è un rispetto per le idee che mi hanno e mi stanno facendo crescere.
    Non ha nessun aspetto ‘post-moderno’ o ‘post IO SONO UN PROF’, per essere chiari (perdona il link) qui ho espresso la mia idea di citazione.
    Non so rispondere alla tua domanda sui Knowcoo, ma condivido ciò che dici hanno contribuito a costruire un pezzo ‘rilevante’ della storia dell’architettura italiana sia materica che critica.
    Saluti,
    Salvatore D’Agostino

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  7. Emma,
    siamo in tre ad attendere una risposta.
    L’idea di trasporre il concetto delle band musicali, aggiungerei comprensive di jam session, nel campo dell’architettura potrebbe essere rivoluzionaria.
    Saluti,
    Salvatore D’Agostino

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  8. Vil geometra,
    non conoscevo il significato di DSL. Interessante l’analogia con il senso (ricerca) dell’architettura meno con l’organico (nella sua accezione architettonica).
    Saluti,
    Salvatore D’Agostino

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  9. Roberto Masiero,
    ne approfitto per porle altre domande poiché la lista precostituita di domande annulla il dialogo.
    A proposito di questa sua considerazione: «volevamo tenerle assieme (ndr prassi e teoria) e forse proprio la nostra generazione (ho 66 anni) ha prodotto la palude estetica».
    Lugi Greco qualche giorno fa mi ha scritto: «Perché in fondo in molti questo spaesaggio italiano dilaniato l'abbiamo solo ereditato».

    Non crede che sia troppo riduttivo leggere in termini di ‘prassi e teoria’ ciò che la sua generazione ha generato, ho lasciato generare? Ovvero questo spaesaggio che ci troviamo sotto gli occhi.
    Sui nostri tempi le trascrivo una considerazione di Peppino Ortoleva (un invito a cena più che una citazione): «C’è una contraddizione vistosa che attraversa il nostro tempo, tra la tendenza consumistica a liquidare tutto ciò che è diventato vecchio e la fascinazione che esercitano gli oggetti su cui il tempo è passato e si è depositato proprio in grazie della patita che il tempo ha lasciato su di esse, ma al di sotto di questa contrapposizione c’è forse un legame sottile, sia il consumismo dell’usa e getta, sia il bricolage del recupero di frammenti del passato sulla base del nostro gusto, negano di fatto il senso di continuità del tempo che è caratteristico del concetto di tradizione ma forse ancor più del concetto di storia». Cit.

    Saluti,
    Salvatore D'Agostino

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