di Salvatore D'Agostino
Parafrasando il libro di Laurence Sterne ‘The life and opinions the Tristram Shandy, gentleman’ il sottotitolo di questo colloquio potrebbe essere ‘La vita e le opinioni di Luca Diffuse, gentiluomo’. Poiché più che un dialogo è un’associazione d’idee di: luoghi, incontri, cose, digressioni ed esperienze.
«Nello spirito dell'intelligenza connettiva, Writing extended explanations di Luca Diffuse, si configura dunque come una rete di saperi messi in comune, usabili e ampliabili.»1
Luca Diffuse Dammi un minuto che mi metto fuori a scrivere. Eccomi. Ciao Salvatore.
Salvatore D'Agostino Ciao Luca.
Come stai?
Bene solo un po' di caldo.
Si mi dicono. In fondo ci spero. Vorrei andarmene in vacanza, non so, verso la fine del mese.
Vacanze tardive!
È bello stare in spiaggia senza troppe persone. Finora siamo stati qualche settimana in nord Europa. Ma a me piace nuotare.
Scendi in Sicilia?
Forse, ho degli amici a Palermo che ho sempre voglia di rivedere. Ho delle fatture fuori, vediamo cosa mi pagano.
Non so, che direzione prendiamo? Per ora ho da dirti di una cosa accaduta oggi. Ecco che mi ritrovo su Design Boom una casa in cui ho vissuto.
La casa poi era qui...
-
Salvatore D'Agostino Ciao Luca.
Come stai?
Bene solo un po' di caldo.
Si mi dicono. In fondo ci spero. Vorrei andarmene in vacanza, non so, verso la fine del mese.
Vacanze tardive!
È bello stare in spiaggia senza troppe persone. Finora siamo stati qualche settimana in nord Europa. Ma a me piace nuotare.
Scendi in Sicilia?
Forse, ho degli amici a Palermo che ho sempre voglia di rivedere. Ho delle fatture fuori, vediamo cosa mi pagano.
Non so, che direzione prendiamo? Per ora ho da dirti di una cosa accaduta oggi. Ecco che mi ritrovo su Design Boom una casa in cui ho vissuto.
La casa poi era qui...
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Le due finestre accanto alla canna fumaria. Poi vediamo… altre cose carine di oggi. Ho pranzato al sole. Esattamente qui, all’enoteca Carso...
Un attimo, prima del sole di stamani. Tu hai vissuto all'interno di una casa di legno che si affaccia su delle finestre?
60 mq di finestre esposte ad est. La mattina alle 6.00 sembrava Sunshine di Danny Boyle.
Quelle finestre a me ricordano Alfred Hitchcock. Nel film dove un fotoreporter (Stewart) costretto all'immobilità per la frattura di un piede, osserva dalla finestra tutto ciò che succede all'interno di un cortile. Ma qui ti trovavi davanti un muro.
No no. Si vedevano i tetti di altri Warehouses, verso East New York. Un paesaggio sparso con queste ex fabbriche di birra metti ad un km l'una dall'altra. Come isole. Certo c'era la strana sensazione di incombenza di Manhattan alle spalle un 10 km scarsi. Quella c’è sempre da Newark a Brodway Junction. Il ragazzo che abitava al nostro stesso piano aveva le finestre giuste. Quelle verso ovest e Midtown. Bellissime certo, ma a noi piaceva davvero così. East New York è un posto concreto. Era molto dolce quando con Francesca prendevamo il treno per tornare a Brooklyn. Ci sentivamo subito meglio. La luce soprattutto. Anche se - in un'altra casa - siamo stati per un paio di mesi gli unici bianchi del quartiere. Aspetta eravamo... ecco qui...
Le ultime finestre in alto a sinistra dell’edificio con gli ingressi in marmo. Scusa la deriva Street View. Non so perché mi prenda bene ora.
Cosa vedevi da lì?
Dalle finestre della casa che ti ho linkato per ultima ho visto arrivare l'autunno. Si sentiva la presenza del parco. Prospect Park è molto vicino. Non vedevi l’ora di farti una passeggiata. Dalle vetrate del loft di Terri invece arrivava l’inverno. Le mattine grigie più ampie e desolate mai provate. E la sera la doppia sensazione degli altri loft di quel tentativo di gentrification che è Bushwick e della vita miserabile, primitiva, potente, del villaggio che poi abbiamo impiegato almeno due mesi a scoprire. Poi era così assoluto che siamo andati a viverci. In questa casa qui...
La casa a Franklin Ave - esposta ad ovest - in autunno, ma sopratutto in inverno, ti avrà offerto la migliore luce per osservare una città.
Non so, non eravamo molto a casa. Anzi si. Io si, prima di iniziare a lavorare a Dumbo.
Che cos'è Dumbo?
'Down under manhattan bridge overpass'. È uno dei posti più belli di Brooklyn. Un episodio di gentrification di 20 anni fa. Se ti è capitata ‘La fortezza della solitudine’ di Lethem, è tutta ambientata lì ed agli Heights. È un quartiere di 20 blocks sotto al ponte di Manhattan bene o male uno dei centri della creatività mondiale. Se non altro per lo spazio disponibile.
Tra l’altro probabile che quel libro sia uno dei motivi per cui sto così bene a Brooklyn. Una storia di ragazzini. Pomeriggi nei playground, sfide infinite a suicide. Che è un gioco bellissimo. Le linee per terra, il muro, le mani, la palla. Una cosa assoluta.
Ecco, per andare a lavorare quando vivevo a Franklyn passavo da qui...
Ecco, per andare a lavorare quando vivevo a Franklyn passavo da qui...
Ho questa cosa. Quando arrivo in un posto, in una città, capisco sempre cosa mi piace, in un modo molto istintivo. E capita che il primo posto dove vado è anche poi quello che trovo il più bello dopo magari un anno che conosco bene tutto. E guarda che le città me le faccio in bici strada per strada. Ho una passione nel catalogare quartieri. Ora ti racconto.
Sono andato a nyc perché Francesca mi chiamava da lì alle 4 di notte non pensando che il fuso orario mi fosse sfavorevole. In quel periodo avevo lo studio nel retro di una galleria che ho - tipo - ristrutturato. Probabilmente il posto con la luce più bella qui in città.
Ti metto due link della piazza perché in uno c’è addirittura di spalle Massimo, uno degli operai che ci ha lavorato…
Sono andato a nyc perché Francesca mi chiamava da lì alle 4 di notte non pensando che il fuso orario mi fosse sfavorevole. In quel periodo avevo lo studio nel retro di una galleria che ho - tipo - ristrutturato. Probabilmente il posto con la luce più bella qui in città.
Ti metto due link della piazza perché in uno c’è addirittura di spalle Massimo, uno degli operai che ci ha lavorato…
Mentre nell’altro – oltre alla galleria – c’è la macchina del proprietario in sosta vietata...
Insomma ero lì e lei mi chiama e mi dice... 'sai io sono qui già da un po' e se resto ancora qualche mese poi non so se questa storia possa mantenere ancora il suo equilibrio...' Con molta dignità salgo su un aereo meno di una settimana dopo. Che se parti al tramonto verso ovest ti fai sette ore di tramonto. Che a me magari non interessa. Ma dopo 7 ore di tramonto romantico ci diventi. E la sera stessa siamo lì a prendere cibo in un alimentari a Dumbo. E lei mi porta a vedere i ponti. Brooklyn bridge a sx, Manhattan bridge a dx. E tu ti dici: 'beh, si può fare'...
Tutto il mio immaginario visivo di Hill street blues (And, hey! Let's be careful out there") era lì. E lì poi mi è successo tutto. Nel raggio di 150 metri. Ai limiti del ridicolo. Un giorno ero a Rebar. Un bar free wireless al primo piano del 68 di jay st. Un edificio con forse sessanta suites di gente più o meno creativa dentro...
E mi chiama uno che voleva offrirmi un lavoro. Mi chiama da 40 metri da dove ero in quel momento. Era in una suite allo stesso piano del bar. E lui pensava che io fossi in Italia. Come fai a non dare lavoro a uno che ti si presenta così? Devo avergli fatto l’effetto del teletrasporto.
Lungo il corridoio per andare a parlare col tipo della telefonata si affacciavano una serie di vetrate delle altre suites. Ti vedo un giapponese in vetrina, lavorare ad un plastico in schiuma azzurra. Sono entrato e viene fuori che era lo studio di Florian Idenburg. Praticamente SANAA negli USA. Tutto così.
Lungo il corridoio per andare a parlare col tipo della telefonata si affacciavano una serie di vetrate delle altre suites. Ti vedo un giapponese in vetrina, lavorare ad un plastico in schiuma azzurra. Sono entrato e viene fuori che era lo studio di Florian Idenburg. Praticamente SANAA negli USA. Tutto così.
Un mese fa ero in Danimarca. Avevamo affittato una utilitaria. Solo che non era disponibile ed Europcar - scusandosi – ci ha intrappolati in un suv (stesso prezzo) davvero enorme, che ci mettevo qualche secondo ad andare dal lato guidatore al lato passeggero. Auto che peraltro faceva tutto da sola. Tipo pioveva e lei da sola azionava i tergicristalli. Ne sono ancora stupito, che io solo bici e motorino.
Allora percorro la città nel panico di una macchina così spiccatamente autonoma e mi fermo in un posto a prendere su da bere. Posto che poi dopo aver visitato - non esagero - 30 gallerie, una mezza dozzina di spazi progetto, centri sociali e musei, tentativi di meatpacking district, un tot di baretti wi-fi (tipologia che mi fa stare davvero bene) ovviamente dopo tutto ciò quel posto casuale restava il più bello di tutta Copenaghen...
Ecco secondo me uno per essere felice deve sapere cosa gli piace. E cercare di restare vicino a queste cose per lui belle. E magari cercarne di più belle e non importa se poi vai a finire a lavorare sulla nostalgia.
Che cosa intendi per ‘nostalgia’?
Intendo che a volte le cose sembrano essere davvero equilibrate e belle e si potrebbe stare così per sempre. Però ci si muove, ci si sposta ed allora quelle cose belle non sono ancora lì in quel modo e uno ne sente il ricordo in modo dolce. Aspetta, è tornata la Fra. Ora viene qui fuori a fumare.
Mi sa che hai messo insieme tre dispositivi importanti: il vuoto, la percorribilità e la memoria.
A chiamarli così non li riconosco.
Hai ragione troppo didascalico.
Francesca mi dice che la bici che si vede su Design Boom, quella rossa, è la sua.
Penso sia semplice, una cosa di emozioni, di cercare le cose semplici e vere, di essere felici. Cercare di essere felici. Con Francesca eravamo sul tetto di casa nostra a Franklin. Ci vedevamo solo la notte perché lei stava facendo New York Film Academy e la impegnavano tutto il giorno. E poi la sera a bere sul tetto.
East New York è pericolosa e rassicurante. Un posto in cui essere inghiottiti da qualche stanza o da 2-3 strade e sparire nella vita di quartiere. Difficile sentirsi qualcuno. Li sul tetto ci dicevamo come si sta bene a smetterla di pensare di essere importanti. Sento che ora i miei progetti sono più carini da quando non mi metto più troppo in mezzo.
La tua frase 'cercare di essere felici' non mi offre nessuna possibilità di uscita.
Cosa vuoi dire?
Francesca mi dice che la bici che si vede su Design Boom, quella rossa, è la sua.
Penso sia semplice, una cosa di emozioni, di cercare le cose semplici e vere, di essere felici. Cercare di essere felici. Con Francesca eravamo sul tetto di casa nostra a Franklin. Ci vedevamo solo la notte perché lei stava facendo New York Film Academy e la impegnavano tutto il giorno. E poi la sera a bere sul tetto.
East New York è pericolosa e rassicurante. Un posto in cui essere inghiottiti da qualche stanza o da 2-3 strade e sparire nella vita di quartiere. Difficile sentirsi qualcuno. Li sul tetto ci dicevamo come si sta bene a smetterla di pensare di essere importanti. Sento che ora i miei progetti sono più carini da quando non mi metto più troppo in mezzo.
La tua frase 'cercare di essere felici' non mi offre nessuna possibilità di uscita.
Cosa vuoi dire?
La felicità ha una geografia. Nel sud - nel mio profondo sud - è una parola desueta. Da pronunciare sottovoce.
Si... non sono sicuro di capire bene. E dicevo 'cercare' di essere felici. Ha anche un senso dirselo. Poi si. Lasciare sospese le cose più belle è un altro esercizio. Parlare chiaro ma non esaurire.
Forse per le illustrazioni, comunque ci sono un tot di ragazzini davvero giovani che guardano i miei progetti, mi scrivono.
A volte gli faccio avere anche testi in anteprima, dei progetti o delle cose che pubblico in giro. I più svegli mi servono proprio come riferimento delle cose che non vanno dette. Individuano le emozioni, le sensazioni con una bella velocità. Ed è molto divertente sentirsi goffi rispetto a loro. Quando mi sembra di aver messo giù una buona idea, un testo, magari gliela giro e mi tornano risposte del tipo: “si, si questo si sa, però...”
E dove ti porta quel però?
Intanto banalizza quello che a me sembrava un mezzo successo. E questo è bene. Poi mi spostano verso un uso più delicato delle allusioni e tutto resta in una zona sospesa.
Allora. Ho rotto le scatole un inverno a Mario Lupano per essere in questo ‘lo-fi architecture – architecture as curatorial practice’.
Poi 2-3 mesi fa mi chiama e mi dice di venire a Venezia a lavorarci un po'. Ho conosciuto Luca Emanueli, molto carino e serio, con una famiglia davvero deliziosa e Marco Navarra, molto allegro. Carlo Ruyblas Lesi, in gamba e tranquillo ed uno studio di Treviso, Clinica Urbana, che ha come committente principale un prete spretato che pare batta moneta in una valle trentina.
Calcola che Mario Lupano mi piace e dunque non sono obiettivo nei suoi riguardi. Una persona così preparata e seria e innovativa da sempre, poi è divertente e dolce. Io ho proprio bisogno di stargli vicino. Penso a breve di sposarmi a Las Vegas (se ripetono questo). Non mi viene in mente un altro cui potrei chiedere di farmi da testimone. E sostanzialmente neppure lo conosco. Non penso proprio accetterebbe.
Insomma ero lì con tutte queste persone più brave di me che però si erano spinte in un campo che io vivo proprio come una ‘attitudine naturale’. E mentre parlavo mi si presentano un paio dei ragazzini di cui sopra. Ultima fila.
Gli stessi di prima?
Si... non sono sicuro di capire bene. E dicevo 'cercare' di essere felici. Ha anche un senso dirselo. Poi si. Lasciare sospese le cose più belle è un altro esercizio. Parlare chiaro ma non esaurire.
Forse per le illustrazioni, comunque ci sono un tot di ragazzini davvero giovani che guardano i miei progetti, mi scrivono.
A volte gli faccio avere anche testi in anteprima, dei progetti o delle cose che pubblico in giro. I più svegli mi servono proprio come riferimento delle cose che non vanno dette. Individuano le emozioni, le sensazioni con una bella velocità. Ed è molto divertente sentirsi goffi rispetto a loro. Quando mi sembra di aver messo giù una buona idea, un testo, magari gliela giro e mi tornano risposte del tipo: “si, si questo si sa, però...”
E dove ti porta quel però?
Intanto banalizza quello che a me sembrava un mezzo successo. E questo è bene. Poi mi spostano verso un uso più delicato delle allusioni e tutto resta in una zona sospesa.
Allora. Ho rotto le scatole un inverno a Mario Lupano per essere in questo ‘lo-fi architecture – architecture as curatorial practice’.
Poi 2-3 mesi fa mi chiama e mi dice di venire a Venezia a lavorarci un po'. Ho conosciuto Luca Emanueli, molto carino e serio, con una famiglia davvero deliziosa e Marco Navarra, molto allegro. Carlo Ruyblas Lesi, in gamba e tranquillo ed uno studio di Treviso, Clinica Urbana, che ha come committente principale un prete spretato che pare batta moneta in una valle trentina.
Calcola che Mario Lupano mi piace e dunque non sono obiettivo nei suoi riguardi. Una persona così preparata e seria e innovativa da sempre, poi è divertente e dolce. Io ho proprio bisogno di stargli vicino. Penso a breve di sposarmi a Las Vegas (se ripetono questo). Non mi viene in mente un altro cui potrei chiedere di farmi da testimone. E sostanzialmente neppure lo conosco. Non penso proprio accetterebbe.
Insomma ero lì con tutte queste persone più brave di me che però si erano spinte in un campo che io vivo proprio come una ‘attitudine naturale’. E mentre parlavo mi si presentano un paio dei ragazzini di cui sopra. Ultima fila.
Gli stessi di prima?
Si. Aspetta però. Altro intermezzo. Forse questa cosa che ti racconto è in un libro di Florian che ho tradotto per PostMedia Books.
C'era Sejima a Princeton... Uno studente ha parlato tipo 40 minuti del suo progetto. Raccontato in due fogli. O forse erano due progetti, non so. Sejima in quell’intervallo di tempo consuma mediamente 600 sigarette. E quello andava lungo. Ma davvero.
Alla fine lei gli ha detto: “si si, ho capito, grazie grazie. Ma questo mi piace. E quest'altro no.”
Ecco quei ragazzini fano così. Ed io bene o male mi fido di questo modo veloce di sentire le cose.
Hai preso su la biografia di Sottsass? È un libro molto sereno.
Amo Sottsass. A proposito della tua foto commento su Abitare online: 1000 EURO PER IL GATTO DI ISHIGAMI.
Ah, aspetta non è un mio lavoro. Sono disegni di Ishigami scansionati dal catalogo della Biennale. Era anche nelle didascalie, non so perché siano finiti lì come una mia “elaborazione”.
Tra la fine del 1960 e l’inizio del 1970 Ettore Sottsass aveva praticamente smesso di lavorare. Rifletteva, scriveva e soprattutto disegnava. Con una gran “voglia di scappare”:
Questa architettura di Sottsass va oltre qualsiasi Leone d’oro.
Io sono sicuro di due cose: che la tipa con cui è partito sarà stata molto carina, e poi che - che ne so - ad una cena, non si sarebbe mai messo lì a raccontare a tutti quanto era stato brillante ed intelligente e concettuale a fare quelle cose. Credo che Sottsass intimamente si vergognasse un po' di queste sue cose meno concrete. No aspetta lo dico meglio, penso che uno non possa leggerle senza partire dal fatto che lui sostanzialmente era lì a passare delle settimane intense con una ragazza.
Dalle foto che ho visto ti assicuro che la ragazza era molto bella.
Vedi.
C'era Sejima a Princeton... Uno studente ha parlato tipo 40 minuti del suo progetto. Raccontato in due fogli. O forse erano due progetti, non so. Sejima in quell’intervallo di tempo consuma mediamente 600 sigarette. E quello andava lungo. Ma davvero.
Alla fine lei gli ha detto: “si si, ho capito, grazie grazie. Ma questo mi piace. E quest'altro no.”
Ecco quei ragazzini fano così. Ed io bene o male mi fido di questo modo veloce di sentire le cose.
Hai preso su la biografia di Sottsass? È un libro molto sereno.
Amo Sottsass. A proposito della tua foto commento su Abitare online: 1000 EURO PER IL GATTO DI ISHIGAMI.
Ah, aspetta non è un mio lavoro. Sono disegni di Ishigami scansionati dal catalogo della Biennale. Era anche nelle didascalie, non so perché siano finiti lì come una mia “elaborazione”.
Tra la fine del 1960 e l’inizio del 1970 Ettore Sottsass aveva praticamente smesso di lavorare. Rifletteva, scriveva e soprattutto disegnava. Con una gran “voglia di scappare”:
«Sentivo una grande necessità di visitare luoghi deserti, montagne, di ristabilire un rapporto fisico con il cosmo, unico ambiente reale, proprio perché non è misurabile, né prevedibile, né controllabile, né conoscibile… mi pareva che se si voleva riconquistare qualche cosa bisognasse cominciare a riconquistare i gesti microscopici, le azioni elementari, il senso della propria posizione…»2Viaggio che intraprese nel 1970 con la giovane artista basca Eulalia Grau. Da quella vita seminomade nascono le ‘Metafore’ o ciò che chiamava ‘fare costruzione’. Disegnava una ‘costruzione’, la realizzava e la fotografava. Nella metafora ‘Architettura Virtuale’ costruisce una casa con 8 aste di legno di 3x3x2.5 mt, dove in un lato - attraverso delle funi - appende una finestra di compensato.
Questa architettura di Sottsass va oltre qualsiasi Leone d’oro.
Io sono sicuro di due cose: che la tipa con cui è partito sarà stata molto carina, e poi che - che ne so - ad una cena, non si sarebbe mai messo lì a raccontare a tutti quanto era stato brillante ed intelligente e concettuale a fare quelle cose. Credo che Sottsass intimamente si vergognasse un po' di queste sue cose meno concrete. No aspetta lo dico meglio, penso che uno non possa leggerle senza partire dal fatto che lui sostanzialmente era lì a passare delle settimane intense con una ragazza.
Dalle foto che ho visto ti assicuro che la ragazza era molto bella.
Vedi.
Personalmente non credo che sia una semplice concettualizzazione dell’architettura. Le metafore erano degli strumenti indispensabili per le opere di Sottsass. Nel tentativo di azzerare i significati e i segni dell’architettura - Sottsass - acquisì una profondità progettuale che in seguito traspose nelle sue opere. Se ci permetti le metafore mi ricordano i tuoi progetti raccontati a Stefano Mirti.
Ad esempio la tua recente riflessione su una facciata cieca romana. Com’è nata l’idea?
Lavoravo al terzo progetto di Small Park Narratives, i primi due erano: Greenhouse Outtakes e Headphones Park.
Progetti sulle sensazioni che possono offrire piccoli spazi naturali che ho scritto quando ero negli Stati Uniti. Il terzo progetto ha a che fare in qualche modo con la storia di una ragazza che quando in spiaggia posa la testa sul telo, ha l'impressione che un agave le parli. Ecco questo progetto non riesco ancora a farlo. Non mi vengono i disegni.
Allora ad un certo punto è diventato un’altra cosa: ‘For a while we were obsessed with rooftops’
Ci sono comunque ancora superfici luminose, dove sarebbe bello sdraiarsi al sole.
I miei progetti hanno a che fare con delle piccole storie. Storie costruite attorno a comportamenti che mi fanno stare bene e che vedo far stare bene anche le persone che mi stanno attorno.
Lavoravo al terzo progetto di Small Park Narratives, i primi due erano: Greenhouse Outtakes e Headphones Park.
Progetti sulle sensazioni che possono offrire piccoli spazi naturali che ho scritto quando ero negli Stati Uniti. Il terzo progetto ha a che fare in qualche modo con la storia di una ragazza che quando in spiaggia posa la testa sul telo, ha l'impressione che un agave le parli. Ecco questo progetto non riesco ancora a farlo. Non mi vengono i disegni.
Allora ad un certo punto è diventato un’altra cosa: ‘For a while we were obsessed with rooftops’
Ci sono comunque ancora superfici luminose, dove sarebbe bello sdraiarsi al sole.
I miei progetti hanno a che fare con delle piccole storie. Storie costruite attorno a comportamenti che mi fanno stare bene e che vedo far stare bene anche le persone che mi stanno attorno.
Non penso che Sottsass volesse ‘azzerare i significati ed i segni dell'architettura’. Cosa vuol dire una frase simile? Lui avrebbe solo preferito che alcuni tromboni dell'architettura azzerassero se stessi, per non perdere tempo a spiegare cose altrimenti semplicissime e fondamentali. Io davvero preferirei mantenere il discorso al livello di complessità di una passeggiata in un parchetto.
Come leghi le tue storie con l’architettura. Nel senso della quotidiana edilizia di un studio tecnico (perdona la rudezza delle parole).
Io ho un quotidiano tecnico. I progetti che mi capitano hanno la dimensione delle ricerche che puoi vedere sul sito. Sono piccole gallerie o posti simili che lavorano in modo molto tranquillo sulla vita delle persone e del quartiere in cui vengono aperte. Soltanto che magari non mi piace l'uso del web così fortemente autopromozionale. Mi sembra ridicolo mettersi lì a far vedere a tutti quello che si fa. Nessuno pensa a quanto siano insopportabili in media le persone che parlano soltanto di se stessi? Mi piace di più... Non so… Sabato... no Venerdì ero ad una festa. Ed a un certo punto un gruppetto era lì che parlava di uno spazio che ho progettato io. Ecco meglio così.
Quanto alle cose che faccio vedere su alcuni dei siti dove pubblico... il senso è ancora quello di scambiare cose semplici e che fanno stare bene. Tempo fa avevo un blog. Penso che tu mi abbia puntato a partire da quello.
Forse sto continuando la narrazione intima di quello ma in un modo appena diverso. Dopo un anno di prove riesco a disegnare in modo decente le illustrazioni dei miei progetti. Ora per me è importante raccontare le storie di queste persone che disegno, andare oltre me stesso in questo modo, mettermi in secondo piano. Meglio, sparire.
A che cosa serve un blog per un architetto?
Non esistono differenze di genere. Quindi un blog non è utile in modo particolare ad un architetto. Magari - proprio a guardare il modo in cui comunicano gli architetti italiani - potrebbe servire a testare un modo più aperto di comunicare. Non penso che l'interminabile rassegna di ristrutturazioni che viene offerta sia granché emozionante.
Come leghi le tue storie con l’architettura. Nel senso della quotidiana edilizia di un studio tecnico (perdona la rudezza delle parole).
Io ho un quotidiano tecnico. I progetti che mi capitano hanno la dimensione delle ricerche che puoi vedere sul sito. Sono piccole gallerie o posti simili che lavorano in modo molto tranquillo sulla vita delle persone e del quartiere in cui vengono aperte. Soltanto che magari non mi piace l'uso del web così fortemente autopromozionale. Mi sembra ridicolo mettersi lì a far vedere a tutti quello che si fa. Nessuno pensa a quanto siano insopportabili in media le persone che parlano soltanto di se stessi? Mi piace di più... Non so… Sabato... no Venerdì ero ad una festa. Ed a un certo punto un gruppetto era lì che parlava di uno spazio che ho progettato io. Ecco meglio così.
Quanto alle cose che faccio vedere su alcuni dei siti dove pubblico... il senso è ancora quello di scambiare cose semplici e che fanno stare bene. Tempo fa avevo un blog. Penso che tu mi abbia puntato a partire da quello.
Forse sto continuando la narrazione intima di quello ma in un modo appena diverso. Dopo un anno di prove riesco a disegnare in modo decente le illustrazioni dei miei progetti. Ora per me è importante raccontare le storie di queste persone che disegno, andare oltre me stesso in questo modo, mettermi in secondo piano. Meglio, sparire.
A che cosa serve un blog per un architetto?
Non esistono differenze di genere. Quindi un blog non è utile in modo particolare ad un architetto. Magari - proprio a guardare il modo in cui comunicano gli architetti italiani - potrebbe servire a testare un modo più aperto di comunicare. Non penso che l'interminabile rassegna di ristrutturazioni che viene offerta sia granché emozionante.
Nel tuo blog facevi un uso creativo dello screenshot, ovvero, fotografavi il tuo tavolo da disegno cioè il video del tuo PC, prendevi appunti, amplificavi il tuo punto di vista, lo rielaboravi e in qualche modo destabilizzavi il disegno tecnico, che come si sa, ama parlare in modo misurato.
Ho milioni di screenshots di quando lavoro. Ora sto meno ai computers anche se continuo a voler loro bene. Davvero non destabilizzavo nulla. Salvo sempre molti screenshots e produco come sempre molti più schizzi e disegni. Gli screenshots non mi danno problemi di archiviazione, i fogli si.
Mi piace così tanto il disegno tecnico. Secondo me faccio degli esecutivi veramente densi.
Un po' fini a se stessi visto che i miei cantieri sono controllabili più che tranquillamente a voce.
Qualche giorno fa - proprio riguardo “For a while we were obsessed with rooftops” - pensavo a come mai ci fosse ancora una parte del progetto modellata in digitale... in realtà penso sia una cosa di misura e sincerità. Anche quando disegno un progetto di ricerca ne conosco e ne peso le misure.
Non ti sembro misurato?
Abbandoniamo il blog e il senso della misura, ti confesso che non ho mai letto il tuo libro scritto con Mariella Tesse ‘Sanaa. Kazuyo Sejima + Ryue Nishizawa. Bellezza disarmante’.
Hai fatto bene. Era scritto in termini eccessivamente entusiastici. Però il libro ha un ottimo indice.
Da anni scrivi per Exibart. Credi che sia possibile fare della buona critica in un contenitore Web che ama citare tutti e tutto?
È un po’ che non scrivo per Exibart. Per un po’ di tempo ho condotto la loro rubrica di architettura. Effettivamente non era possibile esprimersi in modo personale. Le regole erano altre ma magari ci sta pure che mi sia stato offerto uno strumento che non ho saputo usare. Non importa. Scrivendo ho la forte necessità di essere aperiodico e di parlare soltanto di ciò che mi piace. Poi sono un po’ autistico quanto a controllo della qualità. Ho bisogno di uno spazio la cui qualità dipenda esclusivamente da come la progetto io ed assieme alla sensazione di far parte di qualcosa di più vasto. La nuova rubrica su Abitare – Diffuse Outtakes – magari funzionerà così. Per ora va benissimo. Invio i pezzi, me li traducono in inglese, ma non mi editano neppure i refusi. Bello.
Io poi non faccio critica, al limite diffido anche di chiunque dica di se una cosa del genere di se stesso. Parlo delle cose che mi piacciono e nel migliore dei casi mi succede di metterle insieme in modi inattesi. Sempre nel migliore dei casi sarei interessato più che altro ad un certo tipo di scrittura…
Io poi non faccio critica, al limite diffido anche di chiunque dica di se una cosa del genere di se stesso. Parlo delle cose che mi piacciono e nel migliore dei casi mi succede di metterle insieme in modi inattesi. Sempre nel migliore dei casi sarei interessato più che altro ad un certo tipo di scrittura…
Quale?
Contini che impara ad usare il pc, va in dipendenza per qualche chat e scambia mail con Foster Wallace? Tipo irraggiungibile per chiunque. Due giorni fa ho incontrato il traduttore proprio di Foster Wallace e di Gus Van Sant. Già bello ed irraggiungibile anche lui. Settimana prossima poi mi sono procurato un appuntamento con Heather McGowan e quasi mi vergogno ad andare.
Contini e Wallace è proprio un bel connubio. In una tua conversazione Web - commenti su abitare online - con Fabrizio Gallanti parlavi del tuo rapporto ormai inesistente con i progetti editi nelle riviste. Che cosa non va?
I progetti editi sulle riviste li trovo su Internet. Sempre ad avere voglia di andarli a cercare. Quello che mi può interessare di una rivista è come si esprime la redazione. Insomma più che la testata cerco le persone e le loro idee quando le esprimono. Il mio problema è più cartaceo che altro. In generale non porto più i miei libri con me da tanto tempo. Almeno da due traslochi fa. Proprio la settimana scorsa ho ripreso a casa dei miei due o tre cose ancestrali, il paperback di Infinite Jest, i De Lillo (uno firmato), la storia del terzo reich di Shirer, altre cose. Nella casa di Roma ora ho una grande libreria. Semivuota. Quando viene gente nuova a cena mi vergogno un po' che non sia strapiena e dico sempre questa cosa che sto scrivendo anche a te ora...
Per finire mi passi il tuo ultimo Screenshot.
Eccolo. Un saluto a chi mi ha seguito fin qui. Ciao Salvatore, grazie e a presto.
29 novembre 2010
2 Ettore Sottsass, Metafore, Milano, Skira, 2002.
29 novembre 2010
Intersezioni ---> MONDOBLOG
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Note:
1 Parafrasi di una di frase tratta da un saggio di Antonella Sbrilli, Tristram Shandy Web: il capolavoro di Laurence Sterne come generatore di una rete di conoscenza, Engramma n. 48, ‘Internet e umanesimo’, Maggio 2006. Link: «Nello spirito dell'intelligenza connettiva, TristramShandyWeb si configura dunque come una rete di saperi messi in comune, usabili e ampliabili.»2 Ettore Sottsass, Metafore, Milano, Skira, 2002.