Facebook Header

29 novembre 2010

0034 [MONDOBLOG] Dammi un minuto che mi metto fuori a scrivere

di Salvatore D'Agostino

Parafrasando il libro di Laurence Sterne ‘The life and opinions the Tristram Shandy, gentleman’ il sottotitolo di questo colloquio potrebbe essere ‘La vita e le opinioni di Luca Diffuse, gentiluomo’. Poiché più che un dialogo è un’associazione d’idee di: luoghi, incontri, cose, digressioni ed esperienze.
«Nello spirito dell'intelligenza connettiva, Writing extended explanations di Luca Diffuse, si configura dunque come una rete di saperi messi in comune, usabili e ampliabili.»1
Luca Diffuse Dammi un minuto che mi metto fuori a scrivere. Eccomi. Ciao Salvatore.

Salvatore D'Agostino
Ciao Luca.

Come stai?

Bene solo un po' di caldo.
 
Si mi dicono. In fondo ci spero. Vorrei andarmene in vacanza, non so, verso la fine del mese.

Vacanze tardive!

È bello stare in spiaggia senza troppe persone. Finora siamo stati qualche settimana in nord Europa. Ma a me piace nuotare.


Scendi in Sicilia?

Forse, ho degli amici a Palermo che ho sempre voglia di rivedere. Ho delle fatture fuori, vediamo cosa mi pagano.
Non so, che direzione prendiamo? Per ora ho da dirti di una cosa accaduta oggi. Ecco che mi ritrovo su Design Boom una casa in cui ho vissuto.

La casa poi era qui...

-


Le due finestre accanto alla canna fumaria. Poi vediamo… altre cose carine di oggi. Ho pranzato al sole. Esattamente qui, all’enoteca Carso...



Un attimo, prima del sole di stamani. Tu hai vissuto all'interno di una casa di legno che si affaccia su delle finestre?

60 mq di finestre esposte ad est. La mattina alle 6.00 sembrava Sunshine di Danny Boyle.

Quelle finestre a me ricordano Alfred Hitchcock. Nel film dove un fotoreporter (Stewart) costretto all'immobilità per la frattura di un piede, osserva dalla finestra tutto ciò che succede all'interno di un cortile. Ma qui ti trovavi davanti un muro.

No no. Si vedevano i tetti di altri Warehouses, verso East New York. Un paesaggio sparso con queste ex fabbriche di birra metti ad un km l'una dall'altra. Come isole. Certo c'era la strana sensazione di incombenza di Manhattan alle spalle un 10 km scarsi. Quella c’è sempre da Newark a Brodway Junction. Il ragazzo che abitava al nostro stesso piano aveva le finestre giuste. Quelle verso ovest e Midtown. Bellissime certo, ma a noi piaceva davvero così. East New York è un posto concreto. Era molto dolce quando con Francesca prendevamo il treno per tornare a Brooklyn. Ci sentivamo subito meglio. La luce soprattutto. Anche se - in un'altra casa - siamo stati per un paio di mesi gli unici bianchi del quartiere. Aspetta eravamo... ecco qui...



Le ultime finestre in alto a sinistra dell’edificio con gli ingressi in marmo. Scusa la deriva Street View. Non so perché mi prenda bene ora.

Cosa vedevi da lì?
 
Dalle finestre della casa che ti ho linkato per ultima ho visto arrivare l'autunno. Si sentiva la presenza del parco. Prospect Park è molto vicino. Non vedevi l’ora di farti una passeggiata. Dalle vetrate del loft di Terri invece arrivava l’inverno. Le mattine grigie più ampie e desolate mai provate. E la sera la doppia sensazione degli altri loft di quel tentativo di gentrification che è Bushwick e della vita miserabile, primitiva, potente, del villaggio che poi abbiamo impiegato almeno due mesi a scoprire. Poi era così assoluto che siamo andati a viverci. In questa casa qui...



La casa a Franklin Ave - esposta ad ovest - in autunno, ma sopratutto in inverno, ti avrà offerto la migliore luce per osservare una città.

Non so, non eravamo molto a casa. Anzi si. Io si, prima di iniziare a lavorare a Dumbo.

Che cos'è Dumbo?

'Down under manhattan bridge overpass'. È uno dei posti più belli di Brooklyn. Un episodio di gentrification di 20 anni fa. Se ti è capitata ‘La fortezza della solitudine’ di Lethem, è tutta ambientata lì ed agli Heights. È un quartiere di 20 blocks sotto al ponte di Manhattan bene o male uno dei centri della creatività mondiale. Se non altro per lo spazio disponibile. 
Tra l’altro probabile che quel libro sia uno dei motivi per cui sto così bene a Brooklyn. Una storia di ragazzini. Pomeriggi nei playground, sfide infinite a suicide. Che è un gioco bellissimo. Le linee per terra, il muro, le mani, la palla. Una cosa assoluta.
Ecco, per andare a lavorare quando vivevo a Franklyn passavo da qui...



Ho questa cosa. Quando arrivo in un posto, in una città, capisco sempre cosa mi piace, in un modo molto istintivo. E capita che il primo posto dove vado è anche poi quello che trovo il più bello dopo magari un anno che conosco bene tutto. E guarda che le città me le faccio in bici strada per strada. Ho una passione nel catalogare quartieri. Ora ti racconto.
Sono andato a nyc perché Francesca mi chiamava da lì alle 4 di notte non pensando che il fuso orario mi fosse sfavorevole. In quel periodo avevo lo studio nel retro di una galleria che ho - tipo - ristrutturato. Probabilmente il posto con la luce più bella qui in città.
Ti metto due link della piazza perché in uno c’è addirittura di spalle Massimo, uno degli operai che ci ha lavorato… 



Mentre nell’altro – oltre alla galleria – c’è la macchina del proprietario in sosta vietata...



Insomma ero lì e lei mi chiama e mi dice... 'sai io sono qui già da un po' e se resto ancora qualche mese poi non so se questa storia possa mantenere ancora il suo equilibrio...' Con molta dignità salgo su un aereo meno di una settimana dopo. Che se parti al tramonto verso ovest ti fai sette ore di tramonto. Che a me magari non interessa. Ma dopo 7 ore di tramonto romantico ci diventi. E la sera stessa siamo lì a prendere cibo in un alimentari a Dumbo. E lei mi porta a vedere i ponti. Brooklyn bridge a sx, Manhattan bridge a dx. E tu ti dici: 'beh, si può fare'...



Tutto il mio immaginario visivo di Hill street blues (And, hey! Let's be careful out there") era lì. E lì poi mi è successo tutto. Nel raggio di 150 metri. Ai limiti del ridicolo. Un giorno ero a Rebar. Un bar free wireless al primo piano del 68 di jay st. Un edificio con forse sessanta suites di gente più o meno creativa dentro...



E mi chiama uno che voleva offrirmi un lavoro. Mi chiama da 40 metri da dove ero in quel momento. Era in una suite allo stesso piano del bar. E lui pensava che io fossi in Italia. Come fai a non dare lavoro a uno che ti si presenta così? Devo avergli fatto l’effetto del teletrasporto.
Lungo il corridoio per andare a parlare col tipo della telefonata si affacciavano una serie di vetrate delle altre suites. Ti vedo un giapponese in vetrina, lavorare ad un plastico in schiuma azzurra. Sono entrato e viene fuori che era lo studio di Florian Idenburg. Praticamente SANAA negli USA. Tutto così.

Un mese fa ero in Danimarca. Avevamo affittato una utilitaria. Solo che non era disponibile ed Europcar - scusandosi – ci ha intrappolati in un suv (stesso prezzo) davvero enorme, che ci mettevo qualche secondo ad andare dal lato guidatore al lato passeggero. Auto che peraltro faceva tutto da sola. Tipo pioveva e lei da sola azionava i tergicristalli. Ne sono ancora stupito, che io solo bici e motorino.
Allora percorro la città nel panico di una macchina così spiccatamente autonoma e mi fermo in un posto a prendere su da bere. Posto che poi dopo aver visitato - non esagero - 30 gallerie, una mezza dozzina di spazi progetto, centri sociali e musei, tentativi di meatpacking district, un tot di baretti wi-fi (tipologia che mi fa stare davvero bene) ovviamente dopo tutto ciò quel posto casuale restava il più bello di tutta Copenaghen...



Ecco secondo me uno per essere felice deve sapere cosa gli piace. E cercare di restare vicino a queste cose per lui belle. E magari cercarne di più belle e non importa se poi vai a finire a lavorare sulla nostalgia. 

Che cosa intendi per ‘nostalgia’?

Intendo che a volte le cose sembrano essere davvero equilibrate e belle e si potrebbe stare così per sempre. Però ci si muove, ci si sposta ed allora quelle cose belle non sono ancora lì in quel modo e uno ne sente il ricordo in modo dolce. Aspetta, è tornata la Fra. Ora viene qui fuori a fumare. 

Mi sa che hai messo insieme tre dispositivi importanti: il vuoto, la percorribilità e la memoria.

A chiamarli così non li riconosco. 

Hai ragione troppo didascalico.

Francesca mi dice che la bici che si vede su Design Boom, quella rossa, è la sua.
Penso sia semplice, una cosa di emozioni, di cercare le cose semplici e vere, di essere felici. Cercare di essere felici. Con Francesca eravamo sul tetto di casa nostra a Franklin. Ci vedevamo solo la notte perché lei stava facendo New York Film Academy e la impegnavano tutto il giorno. E poi la sera a bere sul tetto.
East New York è pericolosa e rassicurante. Un posto in cui essere inghiottiti da qualche stanza o da 2-3 strade e sparire nella vita di quartiere. Difficile sentirsi qualcuno. Li sul tetto ci dicevamo come si sta bene a smetterla di pensare di essere importanti. Sento che ora i miei progetti sono più carini da quando non mi metto più troppo in mezzo. 


La tua frase 'cercare di essere felici' non mi offre nessuna possibilità di uscita.

Cosa vuoi dire? 


La felicità ha una geografia. Nel sud - nel mio profondo sud - è una parola desueta. Da pronunciare sottovoce.

Si... non sono sicuro di capire bene. E dicevo 'cercare' di essere felici. Ha anche un senso dirselo. Poi si. Lasciare sospese le cose più belle è un altro esercizio. Parlare chiaro ma non esaurire.
Forse per le illustrazioni, comunque ci sono un tot di ragazzini davvero giovani che guardano i miei progetti, mi scrivono.
A volte gli faccio avere anche testi in anteprima, dei progetti o delle cose che pubblico in giro. I più svegli mi servono proprio come riferimento delle cose che non vanno dette. Individuano le emozioni, le sensazioni con una bella velocità. Ed è molto divertente sentirsi goffi rispetto a loro. Quando mi sembra di aver messo giù una buona idea, un testo, magari gliela giro e mi tornano risposte del tipo: “si, si questo si sa, però...” 


E dove ti porta quel però?

Intanto banalizza quello che a me sembrava un mezzo successo. E questo è bene. Poi mi spostano verso un uso più delicato delle allusioni e tutto resta in una zona sospesa.
Allora. Ho rotto le scatole un inverno a Mario Lupano per essere in questo ‘lo-fi architecture – architecture as curatorial practice’.
Poi 2-3 mesi fa mi chiama e mi dice di venire a Venezia a lavorarci un po'. Ho conosciuto Luca Emanueli, molto carino e serio, con una famiglia davvero deliziosa e Marco Navarra, molto allegro. Carlo Ruyblas Lesi, in gamba e tranquillo ed uno studio di Treviso, Clinica Urbana, che ha come committente principale un prete spretato che pare batta moneta in una valle trentina. 

Calcola che Mario Lupano mi piace e dunque non sono obiettivo nei suoi riguardi. Una persona così preparata e seria e innovativa da sempre, poi è divertente e dolce. Io ho proprio bisogno di stargli vicino. Penso a breve di sposarmi a Las Vegas (se ripetono questo). Non mi viene in mente un altro cui potrei chiedere di farmi da testimone. E sostanzialmente neppure lo conosco. Non penso proprio accetterebbe.
Insomma ero lì con tutte queste persone più brave di me che però si erano spinte in un campo che io vivo proprio come una ‘attitudine naturale’. E mentre parlavo mi si presentano un paio dei ragazzini di cui sopra. Ultima fila. 


Gli stessi di prima?

Si. Aspetta però. Altro intermezzo. Forse questa cosa che ti racconto è in un libro di Florian che ho tradotto per PostMedia Books.
C'era Sejima a Princeton... Uno studente ha parlato tipo 40 minuti del suo progetto. Raccontato in due fogli. O forse erano due progetti, non so. Sejima in quell’intervallo di tempo consuma mediamente 600 sigarette. E quello andava lungo. Ma davvero.
Alla fine lei gli ha detto: “si si, ho capito, grazie grazie. Ma questo mi piace. E quest'altro no.”
Ecco quei ragazzini fano così. Ed io bene o male mi fido di questo modo veloce di sentire le cose.
Hai preso su la biografia di Sottsass? È un libro molto sereno. 


Amo Sottsass. A proposito della tua foto commento su Abitare online: 1000 EURO PER IL GATTO DI ISHIGAMI.

Ah, aspetta non è un mio lavoro. Sono disegni di Ishigami scansionati dal catalogo della Biennale. Era anche nelle didascalie, non so perché siano finiti lì come una mia “elaborazione”. 


Tra la fine del 1960 e l’inizio del 1970 Ettore Sottsass aveva praticamente smesso di lavorare. Rifletteva, scriveva e soprattutto disegnava. Con una gran “voglia di scappare”:
«Sentivo una grande necessità di visitare luoghi deserti, montagne, di ristabilire un rapporto fisico con il cosmo, unico ambiente reale, proprio perché non è misurabile, né prevedibile, né controllabile, né conoscibile… mi pareva che se si voleva riconquistare qualche cosa bisognasse cominciare a riconquistare i gesti microscopici, le azioni elementari, il senso della propria posizione…»2
Viaggio che intraprese nel 1970 con la giovane artista basca Eulalia Grau. Da quella vita seminomade nascono le ‘Metafore’ o ciò che chiamava ‘fare costruzione’. Disegnava una ‘costruzione’, la realizzava e la fotografava. Nella metafora ‘Architettura Virtuale’ costruisce una casa con 8 aste di legno di 3x3x2.5 mt, dove in un lato - attraverso delle funi - appende una finestra di compensato.
Questa architettura di Sottsass va oltre qualsiasi Leone d’oro.

Io sono sicuro di due cose: che la tipa con cui è partito sarà stata molto carina, e poi che - che ne so - ad una cena, non si sarebbe mai messo lì a raccontare a tutti quanto era stato brillante ed intelligente e concettuale a fare quelle cose. Credo che Sottsass intimamente si vergognasse un po' di queste sue cose meno concrete. No aspetta lo dico meglio, penso che uno non possa leggerle senza partire dal fatto che lui sostanzialmente era lì a passare delle settimane intense con una ragazza. 


Dalle foto che ho visto ti assicuro che la ragazza era molto bella.

Vedi. 


Personalmente non credo che sia una semplice concettualizzazione dell’architettura. Le metafore erano degli strumenti indispensabili per le opere di Sottsass. Nel tentativo di azzerare i significati e i segni dell’architettura - Sottsass - acquisì una profondità progettuale che in seguito traspose nelle sue opere. Se ci permetti le metafore mi ricordano i tuoi progetti raccontati a Stefano Mirti.
Ad esempio la tua recente riflessione su una facciata cieca romana. Com’è nata l’idea?

Lavoravo al terzo progetto di Small Park Narratives, i primi due erano: Greenhouse Outtakes e Headphones Park.
Progetti sulle sensazioni che possono offrire piccoli spazi naturali che ho scritto quando ero negli Stati Uniti. Il terzo progetto ha a che fare in qualche modo con la storia di una ragazza che quando in spiaggia posa la testa sul telo, ha l'impressione che un agave le parli. Ecco questo progetto non riesco ancora a farlo. Non mi vengono i disegni.
Allora ad un certo punto è diventato un’altra cosa: ‘For a while we were obsessed with rooftops
Ci sono comunque ancora superfici luminose, dove sarebbe bello sdraiarsi al sole.
I miei progetti hanno a che fare con delle piccole storie. Storie costruite attorno a comportamenti che mi fanno stare bene e che vedo far stare bene anche le persone che mi stanno attorno.
Non penso che Sottsass volesse ‘azzerare i significati ed i segni dell'architettura’. Cosa vuol dire una frase simile? Lui avrebbe solo preferito che alcuni tromboni dell'architettura azzerassero se stessi, per non perdere tempo a spiegare cose altrimenti semplicissime e fondamentali. Io davvero preferirei mantenere il discorso al livello di complessità di una passeggiata in un parchetto. 

Come leghi le tue storie con l’architettura. Nel senso della quotidiana edilizia di un studio tecnico (perdona la rudezza delle parole).

Io ho un quotidiano tecnico. I progetti che mi capitano hanno la dimensione delle ricerche che puoi vedere sul sito. Sono piccole gallerie o posti simili che lavorano in modo molto tranquillo sulla vita delle persone e del quartiere in cui vengono aperte. Soltanto che magari non mi piace l'uso del web così fortemente autopromozionale. Mi sembra ridicolo mettersi lì a far vedere a tutti quello che si fa. Nessuno pensa a quanto siano insopportabili in media le persone che parlano soltanto di se stessi? Mi piace di più... Non so… Sabato... no Venerdì ero ad una festa. Ed a un certo punto un gruppetto era lì che parlava di uno spazio che ho progettato io. Ecco meglio così.
Quanto alle cose che faccio vedere su alcuni dei siti dove pubblico... il senso è ancora quello di scambiare cose semplici e che fanno stare bene. Tempo fa avevo un blog. Penso che tu mi abbia puntato a partire da quello.
Forse sto continuando la narrazione intima di quello ma in un modo appena diverso. Dopo un anno di prove riesco a disegnare in modo decente le illustrazioni dei miei progetti. Ora per me è importante raccontare le storie di queste persone che disegno, andare oltre me stesso in questo modo, mettermi in secondo piano. Meglio, sparire.


A che cosa serve un blog per un architetto?

Non esistono differenze di genere. Quindi un blog non è utile in modo particolare ad un architetto. Magari - proprio a guardare il modo in cui comunicano gli architetti italiani - potrebbe servire a testare un modo più aperto di comunicare. Non penso che l'interminabile rassegna di ristrutturazioni che viene offerta sia granché emozionante.

Nel tuo blog facevi un uso creativo dello screenshot, ovvero, fotografavi il tuo tavolo da disegno cioè il video del tuo PC, prendevi appunti, amplificavi il tuo punto di vista, lo rielaboravi e in qualche modo destabilizzavi il disegno tecnico, che come si sa, ama parlare in modo misurato.

Ho milioni di screenshots di quando lavoro. Ora sto meno ai computers anche se continuo a voler loro bene. Davvero non destabilizzavo nulla. Salvo sempre molti screenshots e produco come sempre molti più schizzi e disegni. Gli screenshots non mi danno problemi di archiviazione, i fogli si.
Mi piace così tanto il disegno tecnico. Secondo me faccio degli esecutivi veramente densi.
Un po' fini a se stessi visto che i miei cantieri sono controllabili più che tranquillamente a voce.
Qualche giorno fa - proprio riguardo “For a while we were obsessed with rooftops” - pensavo a come mai ci fosse ancora una parte del progetto modellata in digitale... in realtà penso sia una cosa di misura e sincerità. Anche quando disegno un progetto di ricerca ne conosco e ne peso le misure.
Non ti sembro misurato? 


Abbandoniamo il blog e il senso della misura, ti confesso che non ho mai letto il tuo libro scritto con Mariella Tesse ‘Sanaa. Kazuyo Sejima + Ryue Nishizawa. Bellezza disarmante’.

Hai fatto bene. Era scritto in termini eccessivamente entusiastici. Però il libro ha un ottimo indice.

Da anni scrivi per Exibart. Credi che sia possibile fare della buona critica in un contenitore Web che ama citare tutti e tutto?

È un po’ che non scrivo per Exibart. Per un po’ di tempo ho condotto la loro rubrica di architettura. Effettivamente non era possibile esprimersi in modo personale. Le regole erano altre ma magari ci sta pure che mi sia stato offerto uno strumento che non ho saputo usare. Non importa. Scrivendo ho la forte necessità di essere aperiodico e di parlare soltanto di ciò che mi piace. Poi sono un po’ autistico quanto a controllo della qualità. Ho bisogno di uno spazio la cui qualità dipenda esclusivamente da come la progetto io ed assieme alla sensazione di far parte di qualcosa di più vasto. La nuova rubrica su Abitare – Diffuse Outtakes – magari funzionerà così. Per ora va benissimo. Invio i pezzi, me li traducono in inglese, ma non mi editano neppure i refusi. Bello.
Io poi non faccio critica, al limite diffido anche di chiunque dica di se una cosa del genere di se stesso. Parlo delle cose che mi piacciono e nel migliore dei casi mi succede di metterle insieme in modi inattesi. Sempre nel migliore dei casi sarei interessato più che altro ad un certo tipo di scrittura…


Quale?

Contini che impara ad usare il pc, va in dipendenza per qualche chat e scambia mail con Foster Wallace? Tipo irraggiungibile per chiunque. Due giorni fa ho incontrato il traduttore proprio di Foster Wallace e di Gus Van Sant. Già bello ed irraggiungibile anche lui. Settimana prossima poi mi sono procurato un appuntamento con Heather McGowan e quasi mi vergogno ad andare.

Contini e Wallace è proprio un bel connubio. In una tua conversazione Web - commenti su abitare online - con Fabrizio Gallanti parlavi del tuo rapporto ormai inesistente con i progetti editi nelle riviste. Che cosa non va?

I progetti editi sulle riviste li trovo su Internet. Sempre ad avere voglia di andarli a cercare. Quello che mi può interessare di una rivista è come si esprime la redazione. Insomma più che la testata cerco le persone e le loro idee quando le esprimono. Il mio problema è più cartaceo che altro. In generale non porto più i miei libri con me da tanto tempo. Almeno da due traslochi fa. Proprio la settimana scorsa ho ripreso a casa dei miei due o tre cose ancestrali, il paperback di Infinite Jest, i De Lillo (uno firmato), la storia del terzo reich di Shirer, altre cose. Nella casa di Roma ora ho una grande libreria. Semivuota. Quando viene gente nuova a cena mi vergogno un po' che non sia strapiena e dico sempre questa cosa che sto scrivendo anche a te ora...

Per finire mi passi il tuo ultimo Screenshot.

Eccolo. Un saluto a chi mi ha seguito fin qui. Ciao Salvatore, grazie e a presto. 


29 novembre 2010
Intersezioni ---> MONDOBLOG
__________________________________________
Note:
1 Parafrasi di una di  frase tratta da un saggio di Antonella Sbrilli, Tristram Shandy Web: il capolavoro di Laurence Sterne come generatore di una rete di conoscenza, Engramma n. 48, ‘Internet e umanesimo’, Maggio 2006. Link: «Nello spirito dell'intelligenza connettiva, TristramShandyWeb si configura dunque come una rete di saperi messi in comune, usabili e ampliabili.»
2 Ettore Sottsass, Metafore, Milano, Skira, 2002.

26 novembre 2010

0047 [SPECULAZIONE] Il mondo di Madelon Vriesendorp



Gli altri creano per mancanza di potere. 
Io non ho bisogno di un’opera: vivo 
Albert Camus, Caligola

   Il mondo dell’arte esoterica di Madelon Vriesendorp è stato per troppi anni congelato e schiacciato dalla sovra-esposizione delle sproporzionate fortune del think tank OMA, creato insieme all'ex super-marito. “Il mio nome è Koolhaas, Rem Koolhaas”, sembra ripetere in ogni inquadratura l’architetto più influente del pianeta: e, leggendo attentamente questo bellissimo e complesso libro, si comprendono molte delle modalità che hanno formato OMA, contenitore di tutte le ansie, le perversioni, le contraddizioni intime e infine le inanità dell’architettura dell’ultimo quarto del ventesimo secolo. Si comprende molto altro. Maddie è “una quasi sconosciuta artista geniale”, olandese, che non ha creduto nella scossa tellurica e nella “bellezza terrificante” del progetto mediatico della costituenda colonia interstellare delle archistar.



   È ‘solo’ un’artista-designer-artigiana, collezionista compulsiva, che ha costruito involontariamente gli archetipi del processo mentale del marito, senza farsene una colpa e senza rivendicarne i meriti. È significativo che il suo lavoro, pur strutturatosi in quattro decenni, sia legato soprattutto a un episodio: l’illustrazione, sia pure di un libro epocale come Delirious New York. Infatti l’acquerello Flagrant Délit, del 1975, ne diventa la copertina e la metonimia: nessuno all’epoca può immaginare che, dietro l’organico delirio dell’autore, ci possa essere l’impronta ispiratrice dell’artista. Il disegno è stato usato da OMA (e non commissionato come erroneamente si pensa) a dimostrazione dell’autonomia e dell’originalità del percorso della Vriesendorp: peraltro, lei stessa racconta che il saggio è stato ultimato a New York(of course!), alla sua presenza, discreta. Su questo ‘delitto’ concettuale, e su altri, torneremo.




   Madelon Vriesendorp: l’onnivora collezionista di oggettini, cartoline e collegamenti linguistici che tanta (e troppa) importanza avranno nello sviluppo culturale dello studio da lei co-fondato nel 1975 a New York, insieme ai coniugi Elia e Zoe Zenghelis, disegna, dipinge, assembla e compone ready-made ma soprattutto attende...
I primi disegni di OMA, eseguiti da Madelon, saranno esposti, e spesso venduti, in molte gallerie europee e statunitensi, aprendo una strada nuova al disegno d’arte prestato all'architettura: lei diventa l’istinto controllato e trainante del team progettuale, quasi un architetto mancato che ricerca nuove strade nell'espressione, in tavole architettoniche mai viste fino ad allora. Quei disegni saranno contemporaneamente l’incipit e l’eredità del team.

   La mostra all’Architectural Association del 2008, fortemente voluta dal direttore Brett Steele e di cui questo libro è catalogo, ci aiuta a fare il punto su una serie di fenomeni di contaminazione tra arti diverse, che hanno visto nel rapporto tra l’artista e il “convitato di pietra” uno dei punti espressivi più interessanti, anche se poco scandagliati dalla critica militante e militare. Mi riferisco alla reversibilità delle due posizioni operative: l’arte di Madelon, che spiega l’architettura di Rem, e l’architettura di Rem, che cerca nuove strade alternative nell’arte delle avanguardie storiche.
La mostra ci illustra un processo compositivo molto simile al metodo paranoico-critico mediato da molti riferimenti, anche contrastanti – cellule artificiali surgelate nell’opera di MV: Dalí, Balthus, Delvaux, ma anche Frida Kahlo o alcuni disegni di De Chirico, la Pop art, esperienze, influenze culturali, prima che visive, una storia lunga quattro decenni(1967-2007) in sessanta ‘quadri’. Nella parabola artistica si intuisce, forse discontinua, una vivacità intellettuale, una foga concettuale e una necessità di vivere velocemente, di bruciare energia, miscelando, sovrapponendo, schiacciando forme, formule, idee, colori, edifici, architetture e personaggi misteriosi, per ri-costruire da “un mondo quotidiano semplice (il nostro universo ordinario dell’architettura) un pianeta unico, fantastico, inaspettato e, sempre, leggermente delirante”.

   Queste righe possono essere usate anche, se volete, per l’indagine anarco-progettuale e post-paranoico-critica di Rem e di OMA, perché sono la forza di entrambi i processi mentali, la loro originalità, frutto esclusivo di una sapiente serie di citazioni. In questa contraddizione c’è tutta Maddie e c’è tutto l’Office for Metropolitan Architecture, e naturalmente la loro intrinseca fragilità. Nella corposa serie di saggi che accompagnano la mostra, si alternano giudizi lusinghieri sulla capacità di indagine teoretica, una leggerezza analitica, il piacere autoerotico del calembour, il motto di spirito e il gioco di parole, e ovvietà autocelebrative sull’onda di un’apparente semplicità, da cui Madelon rifugge con tutte le sue forze culturali facendo finta di giocare.



   E ‘gioco’ è la parola che più ricorre nelle 278 pagine del libro-catalogo: un gioco solo apparentemente semplice. Ogni passaggio, ogni particolare sembra studiato per sfidarci nel sembrare bruttino, sgraziato, anestetico, ma alla fine affascinante. Questo vale anche per alcune opere che non saranno significative per l’arte contemporanea, ma nascondono qualcosa che le rende uniche in un denso mistero di contenuti profondi, da scoprire: una sovrapposizione di arcane teorie mascherate da piccole ovvietà.
Evocano, rimandano, lanciano la sfida, proprio come il Chrysler e l’Empire State Building, scoperti in flagranza di delitto, après l’amour, da un costernato Rockfeller Center cornificato (ma non sapremo mai da chi).
   Madelon Vriesendorp inserisce nell'architettura dei suoi dipinti l’elemento erotico, una delicata comix-pornografia, e ci costringe a guardare agli edifici come a macchine fisiche, sessuali, capaci di amare, soffrire
e tradire. Il mondo nei dipinti della Vriesendorp è incatenato a molte forme di ossessioni, di catalogazioni, di presagi e di intuizioni. Nei titoli straordinari delle opere c’è già tutto il dramma dell’architettura contemporanea(in generale) e di OMA (in particolare), il suo delirio di senso e la sua inevitabile irrealizzabilità o non necessaria realizzabilità.


   Non sapremo mai se l’idea dei “prigionieri volontari”, delle “piscine/zattere”, delle “città del globo prigioniero”, di “Freud illimitato”, e molto altro ancora, siano momenti realmente autonomi dal pensiero onanista, o ne rappresentino esclusivamente the glamourous side dettato dall’artista.

Conclusioni inappropriate e appropriazioni indebite

   Quello che non ci piace nel percorso culturale, di MV come di RK, è l’evidente necessità di mettere in scena, con arte e in continuazione, la normalità di un’esistenza, e la fatica inutile di rendere straordinario l’ordinario, magari un po’ più veloce. Non ci convince la costruzione mitologica a posteriori di un fenomeno onestamente sopravvalutato (OMA/AMO e tutti i derivati), oberato di citazioni, di contaminazioni prevedibili e di presunte intersezioni nate dal caso (vedi il troppo semplice circolo virtuoso Freud/Dalí/MV), che però rappresentano un impianto teorico elitario e autoreferenziale che, con una certa ingenuità, è stato accostato dalla critica ai grandi movimenti culturali del Novecento. Se Koolhaas è il più influente architetto vivente, Madelon ne è stata la matrice, anzi, direi, la nutrice concettuale; ma il fenomeno possiamo considerarlo concluso da tempo, e alcune imbarazzanti realizzazioni e progetti recenti dimostrano che l’opera di Madelon Vriesendorp ha fatto quello che ha potuto, e fino a quando ha voluto.

   Non ho parlato del saggio di Koolhaas alla fine del catalogo perché non aggiunge e non toglie nulla alla consapevolezza dell’autonomia teorica e concettuale, ma anche stilistica, di Madelon, se non nella spasmodica ma debole ricerca linguistica. Una preoccupante gentilezza e una saggezza definitiva è il titolo della predica che parla a tutti di tutto senza dire nulla, perché si limita a recitare la solita parte della rockstar, imbolsita dal successo e dal denaro, che continua a cantare Yesterday o Sympathy for the Devil, consapevole che la voce e la matita (e la penna) non sono più le stesse.




   Rendiamo, comunque, merito artistico e umano soltanto a questa bella persona che è Madelon Vriesendorp, capace di fabbricare un mito e di sopravvivere alla sua frequentazione senza perdere la freschezza del proprio linguaggio e senza mai farsi condizionare. Refrattaria ai richiami della “fama di riflesso”, è riuscita a mantenere una capacità infantile di guardare e di stupirsi, di costruire mondi fantastici, senza avere la pretesa di diventare l’altro demiurgo della famiglia. Un’artista enigmatica nella sua controllata normalità, con una grandissima voglia di cercare, di sperimentare, di costruire mind games, di imparare, così, tanto per tenere allenato il cervello che, anche nelle archistar è soggetto a repentino invecchiamento.

The World of Madelon Vriesendorp
Paintings/Postcards/Objects/Games
Edited by Shumon Basar & Stephan Trüby
Graphic design by Kasia Korczak. Photography by Sue Barr
Architectural Association, London 2008, 278 pp.

26 novembre 2010
Intersezioni ---> SPECULAZIONE

__________________________________________
Note:
* Articolo pubblicato su Domus n. 941, novembre 2010, titolo "L’osmosi sentimentale e teoretica di una coppia olandese, Madelon e Rem. Sesso e grattacieli: un’arte esoterica", pp. 98-102. Pubblicazione autorizzata dall'autore.

Immagini di Salvatore D'Agostino album flickr 800x200 : 1, 2, 3 e 4

The sentimental and theoretical osmosis of a Dutch couple – Madelon and Rem. Sex and skyscrapers: an esoteric art

by Maurizio De Caro*


“Other people create for lack of power.
I do not need work: I live.”
Albert Camus, Caligula

Madelon Vriesendorp’s world of esoteric art was for too many years frozen and crushed by over-exposure to the disproportionate fortunes of the OMA think tank, created together with her ex-super-husband. “My name is Koolhaas, Rem Koolhaas,” one of the planet’s most influential architects seems to repeat. On carefully reading this beautiful complex book, one understands many of the processes that shaped OMA, a container of all the anxieties, perversions, intimate contradictions and inanities of architecture in the last quarter of the 20th century. A lot more can be understood too. Maddie is “an almost unknown brilliant Dutch artist”, who did not believe in the upheaval and in the “terrifying beauty” of the media project for the newborn interstellar colony of archistars.
She is “just” an artist-designer-craftswoman and compulsive collector who unintentionally built the archetypes of her husband’s mental process, without hanging any blame or claiming the credit. It is significant that her work, though built up in four decades, is linked above all to one episode, one illustration, albeit for an epochal publication like Delirious New York. In fact, the watercolour Flagrant Délit, of 1975, became the book’s cover and its metonymy. No one at the time could have imagined that behind the author’s organic delirium lay perhaps the artist’s inspiring imprint.

The drawing was used by OMA (and not commissioned, as wrongly believed) as a demonstration of Vriesendorp’s autonomy and of the originality of her development. She herself, moreover, recounts that the essay was completed in New York (of course!) in her discreet presence. To this conceptual “crime”, and others, we shall be coming back later.
MV: the omnivorous collector of objects, postcards and linguistic connections that were to have so (too) much importance in the cultural development of the studio she co-founded in 1975 in New York, with Elia and Zoe Zenghelis. She drew, painted, assembled and composed ready-mades, but most of all waited. Madelon’s first drawings for OMA were exhibited and often sold in numerous European and American galleries, paving the way for art drawing lent to architecture. She became the design team’s controlled and guiding instinct, almost a would-be architect looking for new roads into expression with architectural paintings never previously seen. Those images were to be the team’s beginning as well as its legacy. The exhibition of 2008 at the Architectural Association was warmly encouraged by its director Brett Steele. This book – the exhibition catalogue – helps to sum up a number of interconnections between diverse arts. In the relations between the artist and the “Stone Guest”, these interconnections saw one of the most interesting expressive points in their career, though hardly probed by militant and military critics. I refer to the reversibility of their two working positions: Madelon’s art which explains Rem’s architecture, and Rem’s architecture which seeks new alternative ways into the early avant-garde art movements.

The exhibition and the book illustrate a process of composition very similar to the paranoiacally critical method mediated by numerous, even contrasting references, artificial cells frozen in the work of MV: Dalí, Balthus and Delvaux, but also Frida Kahlo or some of the drawings by De Chirico, pop art, cultural rather than visual experiences and influences, a story four decades long (1967-2007) in sixty “pictures”. This artistic parabola hints at a perhaps discontinuous, intellectual liveliness, a conceptual impetus and a necessity to live fast, to burn up energy, by mixing, superimposing and squashing forms, formulas, ideas and colours, buildings, architectures and mysterious characters; to reconstruct from “a simple everyday world (our ordinary universe of architecture), a single, fantastic, unexpected and always slightly delirious planet”. These lines may also be used for the anarchic design and post-paranoiac critical survey of Rem and OMA, because they are forces behind both their mental processes and originality, the exclusive fruit of apt quotations. This contradiction very much embodies both Maddie and the OMA and, naturally, their intrinsic fragility. In the hefty collection of essays accompanying the exhibition, flattering judgements of the capacity for theoretical research alternate with an analytical lightness, the self-erotic pleasures of punning, witticisms and wordplay, and self-celebratory platitudes on the wave of an apparent simplicity – shunned by Madelon with all her cultural strength while pretending to play.

“Play” is the most recurrent word in the 278 pages of the book-catalogue. In a game, only seemingly simple, every passage and every detail seems calculated to defy us by appearing ugly and aesthetically ungainly but ultimately fascinating. This also applies to some works that may not be significant for contemporary art. But they hide something that makes them unique, in a dense mystery of deep contents to be discovered: a superimposition of arcane theories masked by minor platitudes.
They evoke, refer to and pose a challenge, just like the Chrysler and the Empire State, discovered redhanded, après l’amour by a dismayed and cheated Rockefeller Center (though we will never know by whom).
MV adds to the architecture of her paintings an erotic touch, a delicate comic-pornography, compelling us to look at buildings as physical, sexual machines capable of loving, suffering and betraying.
The world in Vriesendorp’s paintings is chained to many forms of obsessions, cataloguings, omens and intuitions. The extraordinary titles of their works in themselves contain the whole drama of contemporary architecture (in general) and of OMA (in particular), its delirium of sense and its inevitable unattainability or not necessary attainability.
We shall never know whether the idea of “voluntary prisoners”, “swimming pool/rafts”, “cities of the prisoner globe”, “Freud unlimited”, and a lot more still, indicated moments that were actually free from onanist thought, or whether they represent only the glamorous side dictated by the artist.

Inappropriate conclusions and undue appropriations

What we don’t like about the cultural journey described, by MV and RK, is the constant and evident necessity to use art to stage the normality of an existence, and the useless effort of rendering the ordinary extraordinary, possibly a little bit quicker.
Unconvincing is the mythological construction – after the event – of a frankly overrated phenomenon (OMA/AMO and all its by-products), weighed down with quotations, foreseeable interconnections and presumed intersections arising from chance (witness the over-simple Freud/Dalí/MV virtuous circle). These, however, represent an elitist and self-referential theoretic basis, which, with a touch of ingenuity, has been likened by the critics to the major 20th-century movements. If Koolhaas is the most influential living architect, Madelon has been his source, indeed his conceptual foster-mother. But the phenomenon must now be considered to have fizzled out quite some time ago. A number of embarrassing recent OMA works and projects show that the work of Madelon Vriesendorp has done what it could, and for as long as she wished to do so.

Koolhaas’s essay at the end of the catalogue receives no mention here, as it adds nothing to our awareness of Madelon’s theoretic, conceptual, and stylistic independence, except in its spasmodic but feeble linguistic research. “A worrying kindness and definitive wisdom” is the title of the sermon that speaks to all about everything, without saying anything. It merely recites the usual role of the rock star wallowing in success and money and still singing Yesterday or Sympathy for the Devil, aware that the voice and the pencil (and pen) are no longer the same.

But we nevertheless accord due artistic and human merit only to the lovely Madelon Vriesendorp, with her capacity to fabricate a myth and to survive living with it, without losing the freshness of her own language or ever letting herself be browbeaten.
Refractory to the calls of a “reflected fame”, she has succeeded in maintaining a childlike capacity to look and to be amazed, to construct fantastic worlds without claiming to become the other demiurge of the family. She is an enigmatic artist in her controlled normality, with a great desire to seek and to experiment, to construct “mind games” and to learn. Thus she has kept her brain in good shape while, even among archistars, the brain is prone to sudden ageing.


The World of Madelon Vriesendorp
Paintings/Postcards/Objects/Games
Edited by Shumon Basar & Stephan Trüby
Graphic design by Kasia Korczak. Photography by Sue Barr
Architectural Association, London 2008, 278 pp.
__________________________________________

* Publication authorized (author): Maurizio De Caro, The sentimental and theoretical osmosis of a Dutch couple – Madelon and Rem. Sex and skyscrapers: an esoteric art, Domus n.941, november 2010, 98-102 pp.

23 novembre 2010

0002 [POINTS DE VUE] Franco Arminio | 23 novembre 1980 ore 19:34


Alle 19:34 di domenica 23 novembre 1980 una forte scossa della durata di circa 90 secondi colpì un'area che si estendeva dall'Irpinia al Vulture. 

1980.
Il senatore diventa sindaco. Qualche mese dopo la terra trema mentre era in corso un’assemblea sulla disoccupazione giovanile. Io non c’ero. Avevo giocato a tennis la mattina, a torso nudo. Nel pomeriggio ero andato nel bosco con una ragazza. Quando da casa mia sono andato verso la piazza ho sentito che tutto sarebbe cambiato e che stando qui avrei avuto sempre qualcosa da fare. 

1981.
Il senatore del paese si compra il loden verde che porterà per tutto il tempo che sarà sindaco. Di macchine, invece, ne cambierà tante. Una ogni sei mesi. Comincia a funzionare l’ospedale che è stato aperto subito dopo il terremoto che tra l’altro ha causato il crollo di quello di Sant’Angelo dei Lombardi. C’è un medico che fa un sacco di operazioni allo stomaco perché gli riescono benissimo. 

1982.
Comincia la ricostruzione nelle campagne. Dove c’era un rudere, uno scariazzo per i porci, viene velocemente edificata una casa in cemento armato. Comincia il valzer delle betoniere. 

1983.
Il pescivendolo di Molfetta adesso viene due volte la settimana. Prima vendeva solo alici, ora porta spigole e orate. 

1984.
Gli impiegati comunali passano da sessanta a settantacinque. La popolazione scende al di sotto dei cinquemila abitanti. Aumenta il consumo di droga. 

1985.
Il paese si riempie di ditte che vengono dal nord per la ricostruzione. Architetti, geometri e ingegneri salgono ogni mattina le scale del Comune. Apre un negozio di ottica, e pure un ristorante e una pizzeria. 

1986.
La parola più usata in paese è “contributo”. Sono i soldi che lo Stato dà per farsi la casa tutta nuova o per aggiustare la vecchia. Il problema non è avere il contributo, questo è assicurato per tutti, ma riuscire ad averne due o tre. Il senatore adesso sta a Roma, ma conosce i problemi di tutti e cerca di non scontentare nessuno. 

1987.
Il paese nuovo comincia a prendere la sua forma dadaista. Tutto merito di un architetto estroso e tirchio. Il paese sembra disegnato con le unghie più che con la matita. 

1988.
Il numero delle case supera quello degli abitanti. Il senatore diventa ministro. Il capo dell’opposizione quando gli danno la notizia non ci crede. 

1989.
Durante i suoi comizi il senatore dice poche cose, in un italiano sgrammaticato. La frase che non manca mai è io garentisco. 

1990.
Cominciano i lavori di costruzione della nuova chiesa. Un piano della scuola elementare viene requisito per fare spazio agli uffici tecnici del Comune. 

1991.
In paese si parla solo di contributi. Se ne parla ai funerali, agli sposalizi. Apre un negozio di abbigliamento per bambini e un altro negozio di ottica. 

1992.
Il principale commerciante di materiali edili è diventato ricchissimo. Importiamo mattoni, esportiamo persone. 

1993.
Si inizia a sentir parlare dello scandalo della ricostruzione. Gli oppositori locali del senatore sono come ringalluzziti. Il Comune viene occupato per chiedere conto di come sono stati spesi i soldi dei contributi. 

1994.
Siccome non si possono togliere i soldi a chi li ha presi senza averne diritto, siccome di soldi ne sono stati spesi tanti, lo Stato decide di bloccare gli stanziamenti. La decisione non tiene conto del fatto che nemmeno metà della ricostruzione è stata realizzata. 

1995.
Le grandi ditte del nord cominciano a ritirarsi. Inizia una stagione di contenziosi tra ditte e cittadini. Il senatore abbandona e fa spazio a un suo uomo di fiducia. 

1996.
Il paese nuovo ormai esibisce tutto il suo catalogo di blob dell’urbanistica. Il paese vecchio è un cantiere abbandonato. Sulle alture spuntano le prime pale eoliche. 

1997.
Il pescivendolo Tonino comincia a lamentare un calo delle vendite. I ragazzi che non hanno studiato da architetto, geometra o ingegnere devono riprendere la via dell’emigrazione. 

1998.
La gente si lamenta delle case nuove, sono fredde e scomode. La popolazione continua a diminuire. Solo nel mese di marzo muoiono venticinque persone. 

1999.
Si scongiura il pericolo che venga installata una megadiscarica vicino al paese. L’evento positivo è come una goccia nel mare delle lamentele e delle recriminazioni in cui è annegato il paese. L’ospedale funziona malissimo come sempre eppure bisogna fare molte battaglie per evitarne la chiusura. 

2000.
Arriva il nuovo secolo e un nuovo sindaco e non cambia niente. Il pesce più venduto sono di nuovo le alici, le spigole e le orate sono sparite. 

2001.
Il nuovo sindaco non ha mai svolto un lavoro vero. Si sveglia tardi la mattina e racconta barzellette a chi sta in piazza. 

2002.
I muratori non sanno che fare, muore l’ultimo contadino che sapeva fare i caciocavalli. Muoiono anche un fabbro e un falegname. Chiudono due fabbrichette all’area industriale del Calaggio fatte coi soldi del terremoto. 

2003.
Ancora installazioni di pale eoliche. Alcuni si lamentano per il rumore, alcuni per l’ombra che entra nelle case. Nessuno sa niente dei guadagni delle ditte. I cittadini continuano regolarmente a pagare le bollette della corrente elettrica.  

2004.
Il nuovo sindaco si sveglia sempre più tardi e continua a raccontare barzellette. L’opposizione langue. I cittadini stanno sempre più spesso chiusi nelle loro case esposte e sparpagliate ai quattro venti.

2005.
Chiude uno degli ultimi negozi di alimentari del paese vecchio. Al paese nuovo apre un negozio di casalinghi. Il prezzo del grano continua a calare. Molte ditte che hanno fatto le case reclamano ancora soldi dai cittadini. 

2006.
Finiscono le uscite di un giornale locale che veniva distribuito in tutto il mondo. Nel paese non ci sono più circoli culturali, le sezioni dei partiti sono chiuse. Chiude anche il bar degli scapoli. Muoiono quattro persone di cirrosi epatica. 

2007.
La farmacia posta tra il paese vecchio e quello nuovo esibisce la bandiera italiana e quella europea, come se fosse il vero municipio del paese. Il farmacista diventa presidente della squadra di calcio. I tecnici che si sono arricchiti costruendo le case adesso fanno opere inutili coi soldi europei. 

2008.
Molte case ricostruite dopo il terremoto non sono abitate da nessuno. Il paese è pieno di cantieri abbandonati. Sono le case cominciate e mai finite perché per molti sono seconde case e non hanno diritto a tutto il contributo. Lo Stato militarizza l’area del Formicoso per metterci la grande discarica di cui si parla da anni. A nulla servono le proteste dei cittadini. Il Formicoso viene inserito in un elenco di dieci siti da riempire di immondizia. 

2009.
Viene eletto il nuovo sindaco, un medico di bell’aspetto e dall’eloquio elegante e inconsistente, perfetto per i tempi che corrono. 

2010.
La Regione annuncia di voler chiudere l’ospedale. Molte proteste. Il paese si rianima intorno al suo ospedale morto, ma poi a un certo punto la protesta si spegne. Intanto un decreto legge depenna il Formicoso dall’elenco dei luoghi dove fare le discariche. È una bella notizia, ma in paese nessuno ci fa caso.

Per Wilfing Architettura una versione Web inedita del documentario 'GIOBBE A TEORA' di Franco Arminio 


23 novembre 2010 (Ultima modifica 2 dicembre 2010)
Intersezioni ---> POINTS DE VUE