Facebook Header

16 agosto 2024

|088| a mano libera verso aeroporto di Milano Linate #amanolibera 16*08*2024

                  di Salvatore D'Agostino

    Sono sfinito, non ce la faccio più. Questi viaggi disorganizzati, di terza classe, richiedono un impegno enorme, uno sforzo fisico non indifferente. Tanti chilometri percorsi a piedi, tante città visitate, tanti incontri, colori, suoni, e odori che mi hanno accompagnato e, in qualche modo, trasformato. Un viaggio in cui ti butti nell'ignoto, abbandonando tutte le tue abitudini e cercando di vivere quelle del luogo che attraversi, non può che cambiarti. Non puoi essere lo stesso di prima. Ogni voglia di cambiamento implica tanta fatica. Ora torno a casa per riposarmi, dedicandomi al mio lavoro quotidiano.
    I'm exhausted, I can't take it anymore. These disorganized, third-class trips demand enormous effort, a significant physical toll. So many kilometers walked, so many cities visited, so many encounters, colors, sounds, and smells that have accompanied and, in some way, transformed me. A journey where you dive into the unknown, leaving behind all your habits and trying to live those of the place you pass through, cannot help but change you. You can't be the same as before. Every desire for change requires so much effort. Now I’m heading home to rest, dedicating myself to my daily work.


15 agosto 2024

|087| a mano libera verso aeroporto di Londra Heathrow #amanolibera 15*08*2024

                  di Salvatore D'Agostino

    Un viaggio è come un film: ha un inizio e una fine. E come in ogni finale, c’è sempre quell’immagine sfumata che ti lascia intravedere la parola "Fine," che, se vuoi, ti rimanda alla prossima proiezione.
    A journey is like a movie: it has a beginning and an end. And as in every ending, there’s always that faded image that lets you glimpse the word "The End," which, if you want, points you toward the next screening.


|086| a mano libera verso l’aeroporto internazionale Newark-Liberty #amanolibera 15*08*2024

                  di Salvatore D'Agostino

    E mentre viaggio verso l'aeroporto, ridiamo e scherziamo su tutto, e mi torna in mente una canzone di Enzo Jannacci, che ha saputo riflettere sul senso della vita e del ridere con tante delle sue composizioni. Mi viene in mente il ritornello della canzone Vivere del 1976, contenuta nell'album O vivere o ridere, che recita così:
Ridere sempre così giocondo
E ridere delle follie del mondo
E vivere finché c'è gioventù
Perché la vita è bella
La voglio vivere senza tu.
Mi fermo a pensare: cosa significa "La voglio vivere senza tu"? Poi rifletto e mi dico che forse si riferisce a quei "tu", i "tu" giudicanti che avvelenano il sorriso quotidiano. Tu sei così, tu sei insopportabile, tu sei...
E penso che sarebbe davvero bella la vita, senza quei "tu".
    And as I travel to the airport, we laugh and joke about everything, and a song by Enzo Jannacci comes to mind—he knew how to reflect on life and laughter in many of his compositions. The chorus of the 1976 song Vivere, from the album O vivere o ridere, goes like this:
Always laughing so cheerfully
And laughing at the follies of the world
And living while there’s still youth
Because life is beautiful
I want to live it without you.
I stop to think: what does "I want to live it without you" mean? Then I reflect and realize that maybe it refers to those judgmental yous, the ones that poison everyday smiles. You are like this, you are unbearable, you are...And I think how beautiful life would be without those yous.

|085| a mano libera verso Preakness Shopping Center #amanolibera 14*08*2024

                  di Salvatore D'Agostino

    Domani si torna a casa, e mentre mi trovo in questo enorme parcheggio di un centro commerciale, mi viene in mente la storia dell'architetto Victor Gruen di origine austriaca che si trasferì negli USA nel 1938, fuggendo dalla tragedia imminente causata dai populismi in Europa. Si deve a lui l'idea del centro commerciale come lo conosciamo oggi. Victor Gruen costruì, il Southdale Center, a Edina, Minnesota, nel 1956, il primo centro commerciale moderno al mondo.
Gruen era un socialista di stampo europeo; trovava i negozi sparsi nei centri cittadini inefficienti, e lo stile di vita suburbano dell'America degli anni '50 troppo "incentrato sulle auto". Voleva progettare un edificio che fosse un luogo di incontro comunitario, dove le persone potessero fare shopping, bere un caffè e socializzare, come ricordava dalla sua Vienna natia. Il Southdale Center era vagamente ispirato ai portici delle città europee densamente popolate e includeva "vetrine all'altezza degli occhi" per attirare i clienti nei negozi. Gruen immaginava un centro che avrebbe incluso "un centro medico, scuole e residenze," non solo una serie di negozi sfarzosi. Lo descriveva come un luogo che avrebbe potuto "soddisfare le esigenze odierne e della vita odierna" e unire la comunità, offrendo "un nuovo spazio per l'istinto umano primario di mescolarsi con gli altri."
E mentre penso a questo, mi rendo conto che l'Europa, a distanza di qualche decennio, trovò geniale questa soluzione e la importò. Ma in questo ritorno al punto di partenza si è creato un corto circuito: l'idea originale di Gruen, nata in Europa e portata negli USA, torna indietro come un surrogato, perdendo quel paradosso iniziale che Gruen aveva voluto.
Domani torno a casa, e con me porto questa lezione importante.
    Tomorrow, I’m heading home, and while I stand in this huge parking lot of a shopping mall, I’m reminded of the story of architect Victor Gruen, an Austrian who moved to the USA in 1938, fleeing the looming tragedy caused by populism in Europe. He is credited with the idea of the shopping mall as we know it today. Victor Gruen built the Southdale Center in Edina, Minnesota, in 1956, the first modern shopping mall in the world.
Gruen was a European-style socialist; he found scattered shops in city centers inefficient, and the suburban lifestyle of 1950s America too "car-centered." He wanted to design a building that would be a community gathering place, where people could shop, grab a coffee, and socialize, much like he remembered from his native Vienna. The Southdale Center was loosely inspired by the arcades of densely populated European cities and featured "eye-level windows" to attract customers into the stores.
Gruen envisioned a center that would include "a medical center, schools, and residences," not just a series of flashy shops. He described it as a place that could "meet the needs of today’s life and society" and unite the community, offering "a new space for the primal human instinct to mingle with others."
And as I think about this, I realize that Europe, decades later, found this solution brilliant and imported it. But in this return to the starting point, a short circuit occurred: Gruen's original idea, born in Europe and taken to the USA, came back as a surrogate, losing the initial paradox that Gruen had intended.
Tomorrow I go home, and I carry this important lesson with me.

|084| a mano libera verso Wanaque #amanolibera 14*08*2024

                 di Salvatore D'Agostino

    Mentre mi trovo all'interno della casa di mio zio, mi viene in mente una parola che ho imparato in Portogallo: saudade. Letteralmente significa "nostalgia," ma ho capito che non si tratta di una semplice nostalgia per il luogo di origine o per da dove si è partiti. La saudade è un sentimento più complesso, un atteggiamento fisico e mentale. Come uomo, vivo la mia vita legato profondamente al luogo di origine, ma qui, su questa terra, mi sento italiano, spagnolo, pakistano, africano, irlandese, inglese, e così via, all'infinito, perché questa terra contiene lo spirito di tutto il mondo. Le architetture degli interni non hanno uno stile preciso, ma vivono nel riflesso della saudade. Trovi tracce delle tradizioni dei luoghi di origine. Se dovessi definire lo stile delle case negli Stati Uniti, lo chiamerei "stile saudade," perché intimamente legato ad altri luoghi.
    As I find myself inside my uncle's house, a word I learned in Portugal comes to mind: saudade. Literally, it means "nostalgia," but I’ve come to understand it’s not just simple longing for one’s place of origin or where one started. Saudade is a more complex feeling, a physical and mental state. As a man, I live my life deeply connected to my place of origin, but here, on this land, I feel Italian, Spanish, Pakistani, African, Irish, English, and so on, endlessly, because this land contains the spirit of the entire world. The interior designs don’t have a precise style but exist in the reflection of saudade. You find traces of traditions from places of origin. If I had to define the style of homes in the United States, I would call it "saudade style," because it is intimately tied to other places.

14 agosto 2024

|083| a mano libera in giro per Manhattan #amanolibera 13*08*2024

                 di Salvatore D'Agostino


    Non ricordo quando e chi mi ha detto che a New York i tassisti sono tutti di origine pakistana. Forse l’ho letto in un libro, sentito in un film o ascoltato in uno dei racconti dei miei zii, che si sono trasferiti qui. Non lo so, ne ho visti alcuni, ma come in tutte le metropoli del mondo, non riesci a congelare un'identità o una tradizione: in poco tempo tutto cambia. In questo caso, Uber ha rivoluzionato tutto, anche qui.
    I don’t remember when or who told me that all taxi drivers in New York are of Pakistani origin. Maybe I read it in a book, heard it in a movie, or listened to one of my uncles' stories, who moved here. I don’t know; I’ve seen a few, but as in all the world’s metropolises, you can’t freeze an identity or a tradition: everything changes quickly. In this case, Uber has revolutionized everything, even here.

|082| a mano libera verso Manhattan #amanolibera 13*08*2024

                 di Salvatore D'Agostino

    Cari Oscar Niemeyer e Le Corbusier,
anche se l’ONU nasceva con buoni intenti, avete progettato un edificio che, più che una speranza di pace e cooperazione tra i popoli, sembra rappresentare il suo opposto. Cemento e vetro senza anima, senza pace, senza cooperazione.
Occasione sprecata.
Vostro SD
    Dear Oscar Niemeyer and Le Corbusier,
even though the UN was born with good intentions, you designed a building that, rather than embodying a hope for peace and cooperation among peoples, seems to symbolize the opposite. Concrete and glass without soul, without peace, without cooperation.
A wasted opportunity.
Yours, SD

|081| a mano libera verso Manhattan #amanolibera 13*08*2024

                 di Salvatore D'Agostino

    Mi ritrovo di fronte ai ponti iconici di Manhattan e penso a come da lì arrivino le migliaia di operai che servono a far girare il brillante circo economico di questa parte dell’isola. Non vedo la storia degli uomini ricchi e potenti, ma la fatica dei più umili che, attraversando ogni giorno questi ponti, contribuiscono a lucidare il potere dei soldi.
    I find myself in front of Manhattan's iconic bridges and think about how thousands of workers cross them, fueling the glittering economic circus of this part of the island. I don’t see the story of the rich and powerful men, but the toil of the humble workers who, crossing these bridges every day, help polish the power of money.

|080| a mano libera verso Manhattan #amanolibera 13*08*2024

                 di Salvatore D'Agostino

    C’è un espediente narrativo, comune in molti telefilm d’azione o di suspense, dove, dopo aver sconfitto il nemico o risolto casi misteriosi, la tensione si allenta. Parte una musica di sottofondo e i protagonisti, finalmente rilassati, si vedono ridere, magari mentre bevono qualcosa in un bar o si ritrovano insieme. Questo momento magico mi è capitato mentre eravamo fermi e osservavo la gente che, apparentemente uscita dal lavoro, camminava in modo sconnesso, come se tutto fosse sospeso sulle strisce pedonali. Per paradosso, mi viene in mente la scena di Full Metal Jacket, quando Stanley Kubrick usa lo stesso espediente: i soldati, dopo essere stati decimati da una cecchina vietnamita, cantano la Marcia di Topolino, in un finale lugubre e surreale. E la voce narrante riflette: «... certo, vivo in un mondo di merda, questo sì. Ma sono vivo... e non ho più paura.»
    There’s a narrative device, common in many action or suspense TV shows, where, after defeating the enemy or solving mysterious cases, the tension eases. Background music starts playing, and the protagonists, finally relaxed, are seen laughing, perhaps while drinking something at a bar or gathering together. This magical moment happened to me as we were stopped, and I watched people, seemingly just off work, walking in a disjointed way, as if everything were suspended on the crosswalk. Paradoxically, it reminds me of the scene from Full Metal Jacket, when Stanley Kubrick uses the same device: the soldiers, after being decimated by a Vietnamese sniper, sing the Mickey Mouse March, in a grim and surreal ending. And the narrator reflects: “... sure, I live in a world of shit, yes. But I’m alive... and I’m not afraid anymore.”

|079| a mano libera verso Manhattan #amanolibera 13*08*2024

                 di Salvatore D'Agostino

    Attraversando il Brooklyn Bridge, la mia memoria mi riporta a un libro letto anni fa, dove sullo sfondo si raccontano le vicende familiari di un padre e un figlio che si alternano nella costruzione del ponte. Entrambi muoiono prima che venga completato. Cerco di vagare nella mia mente, ma non riesco a ricordare l’autore. Forse Philip Roth, o più probabilmente Paul Auster. Sì, sono convinto che sia Auster, ma non riesco a ricordare in quale libro ho letto questa storia. Vorrei tanto rileggerla.
    Crossing the Brooklyn Bridge, my memory takes me back to a book I read years ago, where the background tells the family story of a father and son who take turns working on the construction of the bridge. Both die before it's completed. I try to wander in my mind, but I can't recall the author. Maybe Philip Roth, or more likely Paul Auster. Yes, I'm convinced it's Auster, but I can't remember which book I read this story in. I would really love to read it again.