Salvatore D’Agostino
Il giorno di Sant’Ambrogio di centotre anni fa a Milano nasceva Luigi Caccia Dominioni, architetto milanese morto lo scorso tredici novembre poco prima di festeggiare il suo compleanno. Lo ricordiamo con un’intervista inedita a cura di Pierfrancesco Sacerdoti e Tommaso Cigarini, laureandi del Politecnico di Milano, che in due giorni, il quattro e il dieci novembre del 2005, si recarono nella casa in piazza Sant’Ambrogio a porre un profluvio di domande ricevendo delle risposte spontanee e spesso divertite da parte del novantunenne architetto. Pubblichiamo una riduzione dell’intervista mantenendo il tono informale e rilassato delle risposte, augurando buon compleanno Caccia!
Disegno di Pierfrancesco Sacerdoti regalato a Luigi Caccia Dominioni per il suo centesimo compleanno
Pierfrancesco Sacerdoti, Tommaso Cigarini: Quali sono i requisiti per essere un bravo architetto?
Luigi Caccia Dominioni: Essere una persona onesta. Un architetto deve essere una persona perbene, una persona onesta negli intenti. Non deve fare per sé, deve fare per gli altri. Deve far bene per tutti e due. La priorità è il cliente, chi ti domanda. Naturalmente se domanda una cosa immorale io non gliela faccio.
Che consigli darebbe a un giovane architetto alle prime armi?
Di fare tutto quello che gli capita, tutti i lavori che gli capitano per poter fare, e di non darsi delle arie, di essere semplice, cercare di fare quello che è possibile nel modo migliore possibile. Continuare a impegnarsi su quello che gli si presenta come caso occasionale.
Ci sono architetti giovani che stima ed apprezza?
Non ne ho perché non ne conosco. Siccome non ho fatto il professore universitario, non conosco i giovani. Vedo che tanti giovani cercano di fare quello che faccio io, ma lo fanno in modo diverso. Per me è difficile conoscere i giovani. Conosco i miei nipoti, ne ho tanti, quelli che per caso conosco, ma non è che abbia la possibilità di sapere quello che fanno. Io vedo dei nipoti che fanno delle cose un po’ simili alle mie, poi ce ne ho qualcuno che invece fa per conto suo, e io preferisco quello che fa per conto suo. Apprezzo di più chi cerca una sua strada.
Ci sono architetti della sua generazione, oggi dimenticati, che meritano di essere riscoperti?
Ci sono i miei compagni di scuola che sono stati: Renato Castellani, Comencini e Lattuada, che hanno fatto i registi; poi Castiglioni, che ha fatto l’architetto, ma soprattutto il designer, ha organizzato i fotomontaggi, i fonomontaggi, i suonomontaggi, tutte queste cose qui. Un altro è il Castiglioni Piergiacomo, grandissimo designer. Poi: Zanuso, grande architetto e grande designer; poco dopo di me, Magistretti, grande architetto e grande designer. Poi Banfi, Belgiojoso, Peressutti, tutti bravi. Secondo me è più difficile fare una sedia che fare un grattacielo. Quando sento parlare di Norman Foster o di Frank Gehry, secondo me sono bravissimi scultori. Renzo Piano è bravissimo, ma io preferisco Magistretti, che è capace di fare certe cose che questi non hanno mai fatto. Foster ti fa la pigna a St. Moritz, alta duecento metri, splendida, poi vado a vedere le piante: c’è da aver vergogna. Sono entusiasta di Jean Nouvel, vado a vedere l’albergo che ha fatto in Provenza: ci sono delle piante da far paura. Non lo dico per invidia, perché io sono un grande sostenitore di questi qui, ma non riesco a capire come si può fare questo e quello. Si deve fare questo e quello, capisci? Questa è la differenza. Lo dico con passione, ma con sicurezza.
Insomma, c’è tutta questa architettura fatta per farsi vedere, che segue le mode. Invece, secondo me, bisogna essere più seri, un pochettino più tranquilli. La serietà, insomma. Non so, io ancora oggi, che ho fatto l'edificio in corso Europa nel 1955/60, è una bella facciata, simpatica ma dentro di me ho ancora oggi un certo scrupolo ad aver fatto quella facciata perché penso che dietro quelle finestre di vetro c’è un tavolo, che va contro la finestra. Qualche ripensamento l’ho avuto, eh, pensando a certi tavoli che vanno contro i vetri, insomma, qualche errore lì c’è stato, qualche errore, insomma. Questi vetri che si aprono, ho preoccupazioni anche morali
Ad esempio questa qui è la pianta che io ho già fatto un paio di volte [inizia a indicare su un disegno che si trova sul suo tavolo il progetto a La Punt], perché l’ho fatta e poi ogni tanto mi torna sotto tiro e vedo che ci sono dei piccoli errori, e allora la cambio questa pianta qui, questa pianta è una pianta che praticamente è definita da che cosa? Succede che c’è un piano regolatore che mi determina questa linea, più o meno, c’è una riga qui, e c’è una riga qui, così. Poi là, ho la strada a cui devo stare a 2.50 metri di distanza. Poi ho la lista. Questa qui è una casa che deve venir lì, quindi io non posso più muoverla, deve venir lì. La forma, questa forma qui, gliela do io, queste, uno, due, e questa linea generale è data dal piano regolatore. L’altezza è data dal piano regolatore, e io sono lì bloccato. La dimensione vien fuori 280 metri circa, totale; è troppo grande, non si vende: devo farne due. E io mi arrangio, però io so che la vista di questa casa è la sua forza ed è data da questa finestra qui. Sono circa tre metri per due, son sei metri quadri, io devo giocare su questo punto. E allora ci giro intorno, la scala è là, la scala deve essere larga 2.50 metri, gli obblighi fissi di larghezza. Entro qui, a me va benone. Ma devo riuscire a combinare queste cose, in modo tale che ci sia una possibilità di arredamento per cui, cosa succede, che queste forme che io do, partono in un certo senso da questa finestra qui e praticamente da questo camino qui. Allora cosa faccio: qui vedi che è nell'angolo, però, m’arrangio perché è nell'angolo; qui non so se lo farò o non lo farò, perché può darsi che sia troppo in dentro e allora non lo farò, magari. Però c’è una, due, tre, quattro, cinque, sei, sette, otto, nove, dieci persone che godono questa vista. Poi, tac! Vado là, scavo qui, prima era qui, poi pian piano ho scavato di più, sono andato indietro e ho creato un posto dove eventualmente ci sta un tavolo da pranzo di otto, dieci persone, lì, separati. Poi, trovo il modo di mettere le camere, pazienza, non avranno quella qual vista, praticamente guardano su verso la montagna, pazienza, non si può aver tutto.
E lì c’è una vista proprio dal letto, cioè sdraiato sul letto.
Sdraiato sul letto, qui uno tenta di vedere qualcosa. E la metto lì. Ma, soprattutto, ho: un ingresso qui, metto i cappotti qui, poi qui piazzo un bagno che c’è e non c’è, ma comunque è lì, abbastanza vicino all’ingresso, quindi vedrò come la userò e poi ho uno slargo qui, per andare nella zona cucina. Zona cucina che in pratica è qui, è a cinque metri dalla sala da pranzo, perché non è lontana, perché il tragitto qui non è lungo. Quindi io sono abbastanza vicino, posso mangiare anche lì; però, se voglio fare un pranzo, qui è abbastanza vicino. Poi, dico, uno che entra mette giù il paltò, ha una certa emozione venendo avanti, insomma, vede quattro quadri che ho messo qui, qui, qui, vede qualche cosa, ha una prospettiva, ha una lunghezza che gode, è bella perché più è lunga, più è bella; la casa è piccola, però avere una lunghezza di questo genere non è facile, e uno la gode tutta, la vede, la vista, là in fondo, insomma e quindi è un certo godimento, e poi un certo modo di muoversi, eccetera. Poi, le camere sono messe, sembrano messe così, ma invece sono messe molto bene - adesso lo dico io, non lo dite voi, lo dico io – sono messe molto bene nel senso che questo letto è là, la testa è là, la testa è qui, diciamo: un angolo dritto, un angolo dritto, cioè: una parete dritta, un angolo retto, un angolo retto, qui c’è una punta – non importa niente, ci metto un comodino – e questi si allargano, si fa bene il letto qui, questi si allargano, si fa bene il letto qui, qui c’è un angolo così, e vi è un bell’armadione per questi due qui, questo qui non hanno l’armadio qui ma hanno l’armadio qui, ce l’hanno di qui, e hanno il gabinetto qui. Qui entro, e ho una porta diritta che si ribalta giusta, che va là, poi una porta giusta che si ribalta giusta contro di qui, l’altra che si ribalta giusta e va di qui. Io normalmente, quando mi danno da mettere a posto gli appartamenti, vedo che ho sempre un paio di letti da scavalcare. Eh, no, qui non ci sono mai da scavalcare, qui uno cammina diritto e va, qui cammina diritto e va, a parte che l’uomo si muove sempre per linee curve, cioè non fa mai l’angolo retto, non fa mai. Però io quando posso, non è che sia tutto storto, tutto storto per modo di dire: è tutto dritto. È tutto storto e tutto dritto. Cioè, è storto nel senso che qui uno va, viene, gira, gira, fa quel che vuole, va, e poi si mette e va lì. Però, poi, questo è dritto, questo è dritto, però, naturalmente, uno qui va inclinato, va lì, insomma il letto è là, in un angolo, non è davanti.
Quindi, questo flettersi delle pareti è generato proprio dai flussi delle persone.
Dai flussi delle persone; da un rigore, è generato da un rigore. Non è da una voluttuosità, stupida. E anche di qui, se voi guardate, questa camera qui è là, però questa apertura qui che va a guardare, siccome la vista è questa, bella, eh! Eh, poi questa camera qui non ha vista, poverina, guarda di là, eh bè, pazienza. Pazienza, è punita, però queste due, ce l’hanno. Eh insomma, c’è tutto, qui è perpendicolare, questa fa perpendicolare con questa, io arrivo di qui, e vado e vado e vado e vado e vado, ma però non trovo niente tra i piedi, eh! Trovo là in fondo il letto, là in fondo. C’è una prospettiva, qui i letti sono di qui, qui i letti sono nascosti di là, insomma, è mestiere, queste cose non sono cose così semplici, naturalmente vanno elaborate, vanno fatte tre volte, quattro volte, dieci volte. Ogni millimetro è pensato e la posizione del water, del bidet, insomma non è mai in faccia alla porta, insomma, tutte cose curate, insomma.
Lo stesso pavimento riflette.
Il pavimento gioca che va perpendicolare a questa vista qui, perpendicolare a questa vista qui, e poi va, viaggia. Però dopo, tac! Quando trova la porta, sul questo angolo posso cambiare la direzione, cambia la direzione, e van per così, insomma. Quindi, sai, tutte quelle domande lì, non lo so io, ci son dentro tutte, eh. È un mestiere il mio, è un mestiere, o è un’arte, fai come vuoi, insomma. Va bene, ma così non rispondo più alle vostre domande.
Quali sono a suo avviso le architetture e i quartieri più significativi per l’architettura del Novecento a Milano?
I bravi sono stati De Finetti, Gio Ponti. Ponti faceva le case secondo i clienti che aveva, e, quando gli capitava di poter fare, faceva abbastanza bene. Esemplari sono le case che ha fatto in via De Togni. Le case che ha fatto per la Montecatini, per Donegani, che sono fior di case, insomma. Questo per dire. E Portaluppi cos’era? Un tipo che faceva qualsiasi cosa che gli veniva in mente, però la Cascami Seta, che sta qui in via Santa Valeria è molto bella, secondo me di alta mano. Uno grande, uno che invece era un grande piantista, era Tomaso Buzzi. Il quale faceva porcate a non più finire, perché era servo del cliente, faceva troppa roba, eccetera, però era un piantista. Era l’unico piantista che ho conosciuto io bravo. L’altro era Gigi Vietti.
Io non ho imparato niente a scuola, eh. Ho imparato da Portaluppi lo spirito, la vivacità, così, e da Ponti la correttezza. Ma, dai professori, non ho imparato niente: un po’ io ero negato a imparare perché sono sempre stato molto distratto a scuola, io non esistevo, era come se non ci fossi. Però Ponti a me è capitato, Ponti presiedeva la Triennale e ci ha fatto fare, a me e a Castiglioni, le posate, e quando abbiamo fatto queste posate non eran mai pronte, e allora lui s’è messo a far posate, e c’era la Sezione Metalli che mancava di ‘ste robe. E fatte le posate - ne ha fatte quattro o cinque tipi - noi siamo arrivati all’ultimo giorno, le abbiamo messe fuori e lui ha ritirato le sue e ha messo fuori le nostre. E poi, il mese dopo è uscito con “Stile”, dicendo: “Le più belle posate del mondo”. Questo è gran classe, insomma. Una persona che ha dieci anni più di me e che si comporta così, vuol dire avere la classe. Portaluppi, invece, era spiritoso, brillante; quando correggeva gli schizzi ex tempore che facevo, foglietti qualsiasi, non facevo niente, e lui alla fine degli schizzi ex tempore prendeva uno che aveva fatto dodici tavole e diceva: “Lei, senta, lei, cosa fa, lei, non fa niente, non fa!” Dieci, dodici tavole! Fatte in un giorno, da mattina a sera. Poi andava ai miei schizzacci schifosi, mezzi bruciati perché, nel frattempo, avevano sparato delle bombe, così, fatto sta che diceva: “Caccia sì, è un’altra roba!” Era proprio lo spirito, eh. Voglio dire: lo spirito dell’uomo. Ecco.
Da quanto ci risulta lei non ha mai insegnato all'università, diversamente da alcuni suoi compagni di strada.
Ogni tanto facevo conferenze. Anzi, non faccio mai delle conferenze, faccio dei colloqui. Per esempio l’altro giorno sono venuti qui in studio da me quindici studenti di Zurigo, l’anno scorso altri quindici, poi vengono studenti di Mendrisio, poi quelli nostri.
Le sarebbe piaciuto insegnare, oppure è contento di aver dedicato tutte le sue energie alla professione?
Mi sarebbe piaciuto insegnare. Perché avevo da dire qualcosa, insomma, nel senso che forse sapevo fare imparare il mestiere a qualcuno. Ma non l’ho fatto perché non ritenevo di essere portato per questo mestiere, poi mi sono accorto che in fondo potevo dire qualcosa anch’io. Mi sono accorto, andando a fare gli esami di Stato, che c’era gente che cercava di fare le cose che facevo io, che avrei potuto fare io, ma le facevano in modo un po’ deformato, come maniera. Mentre non è una maniera, è un’essenza. Non è frivolezza, questa. Può sembrare.
Alcuni ritengono che un architetto per essere bravo debba anche essere un intellettuale. Lei cosa ne pensa?
Io penso di sì, che sia giusto. Io non lo sono [ride]. Mi sono sposato con una persona che era intellettuale, e io non lo ero. Ah, però sono andato d’accordissimo. Perché era talmente intelligente, mia moglie, che sapeva dosare il giusto.
Sua moglie che studi aveva fatto?
Mia moglie si era laureata in Lingue, poi aveva fatto Psicologia. Ma poi era una che scriveva benissimo, parlava molto bene, insomma, era quello che si dice una persona intellettuale e colta. Io, invece, sono un rusticano, di rustica progenie.
Ma sua moglie le dava dei consigli, nei progetti.
No, no, mai, mai! Era di una delicatezza, estrema.
E lei non le chiedeva consigli.
Non le chiedevo consigli. Dovrebbe essere proibito, intanto, il matrimonio tra architetti, secondo me [ride].
Però capitano!
Io lo proibirei [ride]. No, credo che sia meglio di no.
Ci sono architetti che si riconoscono sempre per una specifica cifra stilistica ed altri che cambiano registro a seconda delle circostanze in cui si trovano, preferendo mantenere una unità di metodo. Sono entrambe strade valide?
Io credo che uno deve avere un suo stile. La questione è che io faccio delle cose completamente diverse una dall’altra, perché è l’esigenza, insomma. Se mi dicono di fare un’automobile per città, è una cosa, se mi dicono di fare un’automobile da corsa, è un’altra questione. Io credo che bisognerebbe fare le case come le automobili. O le automobili come le case. Bisognerebbe adattarsi volta a volta alle condizioni. Certo, io non riesco mai a fare una casa uguale all’altra, perché non capitano mai le stesse condizioni. L’architetto è come un computer: deve decidere delle informazioni e poi fare il lavoro. Se uno registra bene le informazioni, è ben difficile che gli capiti una cosa uguale all’altra, che siano identiche, le cose. Perché, se ti capita una casa da fare sul lago di Como, che ha il sole davanti, è una cosa. Se ti capita di fare una casa a Stresa, che ha il sole dietro le spalle, e la vista è davanti, come fai? È tutto diverso; basta che il vento sia da una parte, basta che l’arrivo alla proprietà sia in un dato modo, la pendenza del terreno. Insomma, tutte queste cose, sono delle registrazioni che uno deve fare. Poi deve mettere insieme queste cose, e orientarsi come un piccione viaggiatore. Ci pensa su un po’ e poi trova la soluzione della strada. E va. Poi dopo, naturalmente, qualche cosa devi sacrificare, non è che puoi ottenere tutto da tutto. Però, in quel momento c’è la soluzione che è quella che si impone.
Vista la sua lunga collaborazione con Francesco Somaini, cosa pensa del rapporto arte-architettura?
Penso che va benissimo, basta essere affiatati, insomma. Sì, ci vuole, è importantissimo. A Somaini facevo fare il pavimento e gli facevo fare anche le sculture. Gli ho fatto fare tutto, insomma. Certe volte ho paura a usare certi generi di artisti, perché o l’artista è tuo amico e capisce e collabora. Non posso preparare delle pareti così, per poi chiamare un pittore che fa quel che vuol lui, ho paura. Se ci fossero Leonardo da Vinci o Michelangelo Buonarroti li chiamo subito, ma se viene questa gente che possono essere anche bravissimi, per carità, ho paura. Ho lavorato con Fontana, con Somaini, e mi sono sempre trovato bene. Le altre volte, chiamo la gente per fare una vetrata, e se te la sbagliano cosa fai? La getti via? Non è facile il rapporto.
Le è capitato di…
Di gettar via no, ma di trovarmi fregato sì. Ho sempre subìto, quindi sto molto attento.
C’è una componente di rischio.
Una componente di rischio altissima. Oggi gli artisti fan dei quadri che son fatti di quattro linee o di quattro colori. Non è che a me non piaccia Rothko, per carità, io lo adoro Rothko. A Fontana volevo un bene dell’anima. Però, insomma, io ho paura. Se mi fido, allora mi fido.
Ci sono architetti, come Le Corbusier e Mendelsohn, che legavano la loro ricerca architettonica alla musica. Ama la musica? Crede ci sia un rapporto tra architettura e musica?
Penso di sì, ma io non conosco la musica purtroppo. Insomma, mi piace, ma non me ne intendo. A me piacciono i Cherubini, mi piacciono questa gente qui. Da Mozart, insomma. Wagner a me non piace. Sono un po’ frivolo, ecco. Mi piacciono le cose un po’ leggere.
Dopo molti anni di stasi Milano sembra volersi dare un profilo simile a quello di molte città europee. Ne sono un esempio i concorsi banditi per aree strategiche per il futuro sviluppo della città, che da anni richiedono una soluzione: i progetti per la Fiera, la Città della Moda, la nuova sede della Regione Lombardia, la città ideale di Santa Giulia. Cosa pensa dei progetti vincitori? Ha delle proposte in merito?
Non penso niente, non voglio dare risposte a niente. Io sono preoccupatissimo e ho l’impressione che tutte queste cose siano fatte con concorsi-appalto. Quindi sono concorsi che vengono assegnati a chi vince l’appalto. E fatte, secondo me, da personaggi che non sono all'altezza. Sono degli ingegneri, degli affaristi, gente che si intende di altre cose ma non di architettura. E cosa succede? Succede che vince chi fa il prezzo minore. Ma non si va a fondo dei problemi. Fanno un concorso per sistemare la Fiera fuori Milano. Il concorso lo vince l’Astaldi, con Fuksas. Benissimo. Io non l’ho vista ancora, può essere bellissima, non lo so. Risultato: c’era una bella vetrata, con questa grande cosa, anche lì si va a cercar l’effetto. È una cosa per una mostra, per far vedere agli altri che cosa? E invece si fa una cosa dove entra il sole, che devi difenderti dal sole, devi consumare dell’energia per difenderti dal sole, inquinare l’atmosfera. Insomma, la razionalità, la funzionalità che fine hanno fatto? Però vince il concorso e fanno la Fiera. Adesso devono vendere la Fiera di Milano per pagare le spese di questa cosa qui: altro concorso. Il concorso è lì: i grandi nomi vanno. Ma insomma, gli architetti di Milano non dico che debbano vincere i concorsi, ma che siano almeno in commissione per decidere chi vince. Ve l’ho già detto, insomma: Albini, Gardella, Rogers, Peressutti, Banfi, Belgioioso, Zanuso, Magistretti, Mangiarotti. Eh, insomma, dico! Si contano quindici giocatori, una squadra di quindici da rugby, quindici persone di altissima qualità, di Milano. Adesso Non ci sono. In commissione c’era Marco Romano, figlio di Giovanni Romano, una brava persona, fa l’urbanista, politicizzato. Basta. Poi c’era il professor Rumi, mio amico, professore di Storia. Io ho paura.
Poi Zunino chiama Foster, eh, Foster ha fatto la famosa zucca a S. Moritz, dove io costruisco. Io costruisco a La Punt, lui a S. Moritz. La zucca ha gli appartamenti da 380 metri con due letti matrimoniali, due, 380 metri! Nella sala, per andare in cucina, ci sono sei gradini o cinque gradini. Cioè, una parte di casa è alta, un’altra più bassa. Ora, a S. Moritz, che tutti, novanta per cento prima o poi hanno la gamba rotta, per via delle piste da sci, non possono far le scale. Io mi auguro che gli vada bene, a questa gente, a comprar le case. A comprar le case, a questa gente. Ora, se ti trattano le case in quel modo lì, che fai 350 metri, ma con la camera da letto, una delle camere da letto di Foster, è fatta così [disegna]. Pressappoco, eh, pressappoco. Uno dei due letti matrimoniali, è qui. Qui c’è la finestra. Qui c’è la porta d’ingresso, insomma. Il bagno è qui dietro. Si entra qui. Qui c’è una fila di armadi, qui c’è una fila di armadi, così. Pressappoco. Qui c’è la finestra. Questa parete qui è inagibile perché è tutta armadi; e questa è inagibile perché è tutta armadi. Qui c’è la porta del bagno, per cui tu devi andare a letto, vieni fuori, vieni in bagno, qui, poi cammini qui. E cosa fai? Metterai un comodino qui che stenterà a passarci, poi vediamo di mettere due comodini qui, così. Poi? Non so. Mettiamo una poltrona qui e una poltrona qui. Finito? Questa parete inagibile, parete inagibile, e questa è la camera da letto, una delle due camere da letto. Su 380 metri. Io qui [mostra il progetto per La Punt] sui 200 metri, sui 130 metri, ho: uno, due, tre, quattro, cinque, sei letti. E però, però, l’armadio che è qui. Qui ho una scrivania. Qui c’è una poltrona. Qui c’è una bella parete così. Qui ci possono stare. Qui c’è il mio bel gabinetto. Qui c’è una scrivania, così. Qui c’è il suo armadio, ce l’ha qui. Il bagno è qui. Ci si cambia e ci si veste in bagno. Eh, insomma!
Ad esempio quando ho fatto il grattacielo a Montecarlo, ho fatto una pianta che adesso non ho qui, dovrei cercarla. Avevo una scala sola, però una dentro nell'altra, cioè, una sotto l’altra, in maniera che occupavo uno spazio solo di scala e avevo due scale. E arrivando al piano, avevo undici appartamenti. Cioè, io servivo con una scala undici appartamenti. È un record, eh, mondiale. Eh, perché normalmente si riesce a servire tre, quattro, cinque appartamenti, non so, questo qui non so, questo qui è una casa che ho fatto, delle case che ho fatto a Como. Sempre basate su piante che devono essere più perfette possibile di dentro, e che però non consumassero spazio di fuori. Capisci? Eh, il trucco è lì, insomma, il trucco, eh, la serietà professionale, è lì. Ecco, per esempio, questo, è un esempio di casa, questa qui è una casa, quella là io ne avevo undici, qui però ho una scala, un ascensore, e tre appartamenti: rosa, verde, celeste. Io ho cercato di risolvere, poi dopo ho studiato le piante in modo perfetto, poi chi vende ha cambiato subito i disegnini dentro e mi ha voltato le spalle. Io avevo fatto lo studio di questi appartamenti, quindi avevo una finestra qui e una finestra qui, e un camino qui, sempre lì buttato fuori, come vedi. E questo qui faceva il leitmotiv dei tre appartamenti: uno, due e tre, eh. Cioè, avevano questa sala importante, e poi: uno, due, tre letti, ma sono appartamenti di cento metri, questi qui. Là trecentosessanta, quello là, eh. Questi qui sono di alta qualità, questi qui, insomma. In ogni modo, l’importante è di fare una cosa che funzioni bene e che consumi poco. Qui, lo spazio pubblico è questo qui e basta [si riferisce a scale, ascensori e pianerottoli]. Là avevo qualche andito, ma però relativamente avevo una scala sola, bensì che due, poi dopo si è messa a disposizione questa, insomma, insomma, è la serietà.
Temo che questa gente, non so, io mi auguro che abbiano trovato dei professionisti che li istruiscano bene, che riescano poi. Ma a me fa paura, fa paura, fa paura che diventano. Tu fai un grattacielo, ma devi fare un grattacielo che funzioni, deve avere le porte di sicurezza, per uno, due, tre, quattro, cinque, sei appartamenti. Funzionale, no, insomma. Ora mi domando e dico: cosa succederà di Milano City se la progetteranno loro?
Si può dire che a Milano c’è stato un decadimento culturale?
Io non lo so, non posso dire. Può darsi che siano più bravi di me. Può darsi che impegnati e stimolati da persone intelligenti. Tutto può darsi.
L’area di piazza Fontana è stata oggetto di molti progetti e richiede da anni una sistemazione. Lei cosa proporrebbe?
Piazza Fontana. Eh sì. Io posso raccontare di piazza S. Babila. Ecco, la fontana di piazza S. Babila, per dire [prende un foglio]. Io sono uno scrupoloso. Allora, cosa è stato il leitmotiv della fontana? Adesso non mi ricordo la pianta quale sia, neanche, bene. Però, quello che vi dico è questo: il leitmotiv di piazza S. Babila è stato fare in modo che un dottore chiamato d’urgenza, non perda neanche un secondo di tempo. Va bene? E vada dall'ammalato che magari salva, o magari lo uccide. Mettiamo che questo qui sia la piazza S. Babila [disegna]. Il perché della piazza S. Babila, se volete andare a vedere, prendete la pianta e la esaminate, vedrete che c’è una specie di coso fatto così e così [disegna], per così dire; questa diagonale che vien fuori qui, viene fuori perché in questo modo l’attraversamento più rapido è permesso malgrado la fontana. Capite? La fontana è qui, mettiamo, no, mettiamo che sia fatta così. Adesso non lo so come è fatta, è fatta così, cosà e cosà, insomma, va bè. È fatta in modo che da qui, da un coso o l’altro, uno attraversando, fa una scorciatoia. Ecco. Questo è il leitmotiv, è quella cosa sufficiente, come il vento, o l’arrivo della villa, o l’orientamento, è quello che m’ha dato la motivazione a dar la forma alla fontana. Quindi, è lo stesso pensiero sui pittori che non sanno più fare niente. Perché? Non hanno, poveretti, non hanno più la base, la base d’appoggio su cui [batte con il pugno sul tavolo]. Io ho delle basi, cerco l’appoggio per fare il salto al trampolino, no? Ci vuole l’asse a sbalzo, qui, su cui fare il salto, il salto, presalto e poi far la capriola, e fare il trampolino, perché hai la base su cui fare il balzo. Il pittore, che una volta aveva la rappresentazione della realtà, adesso si trova col foglio vuoto, e non sa cosa fare, secondo me. Cioè, non hanno queste pulsioni dall’interno come ha Rothko, per cui riesce a fare cose magnifiche lo stesso. Insomma, è difficile, eh.
Nell'intervista che le ha fatto Irace ha affermato che dopo la guerra il centro storico andava lasciato com'era, mentre bisognava fare un ring di parchi e grattacieli nella fascia compresa fra i navigli e i bastioni. Tuttavia l’area in questione era densamente edificata già allora. Crede che sarebbe stato giusto demolire gli edifici esistenti per fare spazio al verde e ai grattacieli?
C’era un momento a Milano in cui si poteva tentare di tenere il centro com'era, circondandolo con i navigli e la circonvallazione. La grande demolizione che c’era nel dopoguerra, si poteva utilizzare per fare delle oasi di verde. Insomma, c’è stata la lotta contro i grattacieli, mentre il grattacielo andava premiato per farci attorno il verde. Tu hai lì la possibilità di far centomila metri cubi. Dagliene duecento, però obbliga a liberare le zone a terra, cioè fare tutto questo verde, e fare un ring in giro a Milano costellato di grattacieli. Fossi stato chiamato, avrei fatto così.
Condivide le trasformazioni urbanistiche del centro di Milano proposte negli anni cinquanta, ad esempio la Racchetta, gli Assi Attrezzati e il Centro Direzionale?
Il Centro Direzionale credo che sia abbastanza giusto. La Racchetta è stata un fallimento, no? Ma poi sono sempre state fatte purtroppo delle mezze misure, ecco. Anche del Centro Direzionale praticamente non si è fatto niente.
E gli Assi Attrezzati?
E gli Assi Attrezzati, cosa hanno fatto? Io non ho partecipato, purtroppo. Ho sbagliato. Bisognava partecipare di più e dare idee, e io non le ho date. Mi sono sbagliato. Bisognava essere più decisi nel salvare il centro di Milano, ma bisognava operare. Vi chiedo scusa per la mia debolezza. A me danno fastidio le chiesuole, le conventicole, questi gruppi. Allora pur di non entrare me ne tengo fuori.
In alcuni casi la realizzazione dei suoi edifici ha comportato la distruzione di parti del tessuto storico di Milano. Secondo lei sono giustificabili operazioni di questo tipo in un tessuto ormai così compromesso come quello di Milano?
Io mi son trovato con la strada che era già fatta, insomma. E i terreni erano liberi, mica li ho gettati giù io. Io ho fatto bene e male lì, non è che siano tanto delle gran cose, però non ho vergogna. Praticamente l’ho fatto quasi da solo, perché, tra una storia e l’altra, ce ne ho uno, due, tre da una parte, due in faccia, sono cinque case. Vercelloni li criticò chiamandoli gli 'armigeri neri' di Dominioni. Anche se di fianco c’è Magistretti, che ci sta bene.
Per diversi anni ha abitato e lavorato a Montecarlo. Quali sono stati i motivi di questo trasferimento e cosa pensa dello sviluppo di questa città? Vede delle analogie tra Milano e Montecarlo?
Sono andato a Montecarlo perché a Milano non c’era gran lavoro. Non solo: ma mia moglie stava bene al mare o in montagna e stava male a Milano. Quindi, la ragione era dovuta a ragioni familiari. Per cui o stavo a S. Moritz, o stavo al mare. A Milano non potevo stare. Per cui, mi è capitato un lavoro importante: un grattacielo di trentatre piani. E il mio cliente di Milano ha detto: “vuoi farlo? Però bisogna andare a stare a Montecarlo, perché in Francia è obbligatorio che la direzione lavori sia fatta dal professionista che progetta l’edificio. Io ho fatto il progetto e devo fare la direzione lavori, insieme ad altri architetti. Eh. Invece in Italia non si fa. Per cui cosa succede: che uno fa il progetto per un grattacielo, e progetta il soffitto. Rivestito di lastre di Carrara di due metri per quattro. L’ingegnere deve fare la cosa con le lastre due per quattro. Io sono andato a Montecarlo e ho fatto il rivestimento di due per due, piastrelline. E ho inventato io il colore, eccetera, eccetera; la forma, eccetera, eccetera; ho inventato il miscelamento, in maniera che non era continuo, insomma, ho fatto delle righe, che ci sono e non ci sono, ma si intravedono. E ho inventato la soluzione: perché avevo la direzione lavori. Cioè, la direzione lavori mi ha imposto, ecco le cose… mi ha imposto la soluzione di una facciata diversa da quella che avrei fatto normalmente con un rivestimento in marmo. Ho fatto diverso, ho dovuto inventare un tipo di piastrellina, e da una cosa nasce l’altra. Risultato: ho dovuto andare, c’era il motivo di mia moglie, ho dovuto prendere la residenza lì. Perché dovevo fare la direzione lavori. Ero obbligato. Dopo ho fatto cinque o sei case vicino a Montecarlo. Ero motivato. Quando ho finito questi lavori sono rientrato in Italia.
Il grattacielo di Parc Saint Roman, nel Principato di Monaco
Cosa pensa dello sviluppo di Montecarlo?
Uno schifo. Eppure la soluzione per Montecarlo era così semplice: grattacieli. Il posto è bellissimo, è un anfiteatro naturale magnifico. Obbligate a fare dei grattacieli [batte il pugno sul tavolo], e proibite le costruzioni orizzontali! Loro, invece, hanno fatto tutte costruzioni orizzontali, e hanno tolto la vista a tutti. C’è un magnifico anfiteatro, fai diciotto bottiglie da vino, così: ta, ta, ta, ta, ta, ché la vista passa dappertutto, viene una cosa magnifica. Sono bravissimi nel fare le strade, nel fare gli svincoli. Adesso hanno fatto una nuova stazione di Montecarlo, è magnifica. E lì, bastava fare queste cose, con tutte queste bottiglie, in questo anfiteatro, e non fare le tavolette di cioccolata che portano via la vista, han rovinato tutti i boschi. È uno schifo. Si salva solo il mio grattacielo. Il quale è fatto bene, e ha una forma particolare, anche perché – nessuno lo sa – è tangente esattamente al confine col paese limitrofo, che è Fontvieille. Fontvieille è Francia. Se tu metti il piede fuori da quella linea lì, la casa vale, non so, due milioni al metro, mentre dentro vale dodici milioni al metro. E quindi la forma, in buona parte, è data dal perimetro della frontiera.
Quando progetta i suoi edifici pensa che debbano durare per sempre o che abbiano una durata limitata nel tempo?
Bella domanda, perché devo dire che sono così superficiale che non ci penso, insomma. So benissimo che le cose durano relativamente nel tempo. Costruisco perché la costruzione sia valida nel tempo. Cerco. Il progetto è una cosa. La costruzione è un’altra. La costruzione è fatta di materiali che possono essere imperituri, e altri che sono perituri. Cerco di costruire con materiali piuttosto resistenti. Però succede quel che è successo per esempio lì in via Ippolito Nievo con la facciata celeste: ho dovuto rifare completamente la facciata. È caduto un pezzo di cinque metri quadri, senza far male a nessuno, per mia fortuna, anche se era dopo cinquant’anni, quindi la responsabilità non c’è più, ma insomma… resta sempre l’angoscia. Ho dato subito il consiglio di scender giù tutto, però ho chiamato prima il professor Finzi – non Leo Finzi, che è lo strutturista, ma l’altro Finzi – e a lui ho fatto fare uno studio stratigrafico, ed è risultato che c’era un distacco quasi del settanta per cento della facciata ed ho dovuto scender giù tutto. E rifare. Però era costruito in modo che dovesse resistere. Però era costruito in modo che dovesse resistere.
E poi ha messo dei pezzi più piccoli?
No, li ho messi uguali. Perché lì il distacco non è stato del rivestimento dall'intonaco è stato il distacco dell’intonaco dal muro, che ha ceduto. Quindi non è colpa del clinker, o di chi ha fatto il rivestimento, è stato colpa dell’intonaco fatto sotto, che non ha tenuto. Però, sai, cinquant'anni. No, la risposta è la pianta la si fa perché deve andar bene per sempre, in un certo senso. Naturalmente, gli elementi che costituiscono poi la casa sono: la scala, l’ascensore, gli impianti, eccetera, eccetera. Tendo a costruire sempre con materiali piuttosto resistenti, oppure poveri, quindi le mie facciate sono fatte di clinker, di ceramica o di pietra: la Biblioteca Vanoni a Morbegno è fatta di ciottoli di fiume, quindi quella non cadrà mai. Oppure sono fatte di intonaco. Va bene allora più o meno ho risposto.
Ripensando alle sue prime opere, le rifarebbe uguali o ce n’è qualcuna che cambierebbe?
Direi di no. Certo che cambierei, non rifarei certe cose come le ho fatte in passato. Non è che mi sia pentito di aver fatto questa casa in Piazza Sant’Ambrogio, la rifarei lo stesso, credo. Magari i tempi sono cambiati e magari avrei cambiato certe piante, certi materiali, può darsi. Però, più o meno l’avrei rifatta uguale, credo.
Dopo aver terminato i suoi edifici le capita di tornare a vederli per capire come vengono vissuti e se subiscono modifiche nel tempo?
No. Direi di no. Però, quello che capita è che sempre mi accorgo di aver fatto degli errori, quello sì. Io li conto, gli errori. Però, sono abbastanza soddisfatto se ce ne sono pochi, o se non sono gravi. Però ci sono sempre, eh.
Le farebbe piacere che le sue opere venissero tutelate o vincolate?
Il soprintendente di Bologna mi ha chiesto di far vincolare questa casa qui, per esempio. Me l’ha chiesto lui quando mi ha conosciuto e visto lavorare, mi ha detto: "Lei deve farsi vincolare quella casa lì". Il farsi fare un vincolo può essere un vantaggio da un punto di vista anche fiscale. Non me ne importa niente, a me non importa niente, se la casa è vincolata o non vincolata. Io ho delle grane continue con la Soprintendenza: i progetti che faccio, continuamente, me li bocciano per le piante che faccio, vorrei sapere perché mi bocciano una mia pianta. cosa c’entra, non so, non riesco a capire. Quindi, è un vincolo pericolosissimo, perché se ti bloccano un lavoro, perché non te lo lasciano fare. Potrebbe essere giusto non lasciar fare i lavori su piante intelligenti, brillanti, per non rovinare quello che è un prodotto della mente, o un prodotto estetico, anche se è all'interno. Ma non è così, perché io ho dei casi di costruzioni che non valgono niente, e mi vengono impedite le modifiche per nessun motivo. È gravissimo, gravissimo, gravissimo, perché sono dei vincoli.
Insomma, in un caso che mi è capitato ultimamente, sono due appartamenti da duecento metri che dovevo unire, che non posso unire, e insomma, oggi duecento metri sono quindici milioni al metro, in questa zona di Sant'Ambrogio, quindici milioni al metro per duecento, cosa sono, sono sei miliardi. Allora, impedire a una persona di usare, di non poter usare sei miliardi di appartamento, insomma, è pazzesco. Per una cosa che non esiste. Perché una pianta fatta nel 1960, fosse una pianta brillante, intelligente: è una pianta orrenda, con l’ascensore cacciato dentro, si vede che è stato fatto pochi anni fa, insomma.
Quali sono gli elementi tipologici, di linguaggio e i materiali della tradizione milanese che ha fatto propri?
L’intonaco, per esempio. Ma non ho usato mai il mattone. A me forse non piace tanto, mi piace Sant'Ambrogio, ma ogni cosa ha il suo tempo. Ho usato molto le materie locali, che sono l’intonaco, e la beola, e il granito. Il granito e la beola, sì, li uso molto. Le case dovrebbero sorgere sempre col materiale del sito, perché anche urbanisticamente l’aspetto estetico della città se nasce da un materiale locale, ne assume più o meno il colore. Insomma, se una casa è fatta in Toscana, ha quella terra ocra, sembra emergere dal suolo. Urbanisticamente, io vincolerei l’uso del materiale locale. E poi, proibirei l’uso del colore inventato. Cioè: bisognerebbe sempre usare il colore delle materie locali, quindi non so, lo stesso intonaco, col colore della terra locale. Insomma, fare una specie di vincolo cromatico. Un vincolo cromatico e di materiale. Questo sarebbe già abbastanza per dare una certa uniformità all’architettura, dei coefficienti di uniformità.
E, ad esempio, ha ripreso un po’ la tipologia delle case tradizionali milanesi?
No. Non ho mai ripreso. Io sono uno che segue la richiesta del cliente e della famiglia. Da cui ne deriva automaticamente un legame alle abitudini, al modo di vivere milanese o lombardo. Ma in ogni modo, seguo caso per caso, quando vado a Genova lavoro con i genovesi, quando vado a Montecarlo lavoro con quelli là, se sono in Svizzera lavoro per gli svizzeri. Insomma, seguo la richiesta e l’esigenza.
Nelle sue prime opere si nota una compresenza tra elementi cartesiani ed elementi organici, mentre nei suoi progetti più recenti tendono a prevalere le forme organiche. Ci può spiegare le ragioni di questa evoluzione?
Sì, evoluzione nel senso che ho imparato di più il mestiere, secondo me. Questo, più si impara più ci si adegua, magari che sono le vere esigenze del cliente, e i doveri dell’architetto, insomma. L’architetto deve adattarsi al cliente, deve lavorare per il cliente, quindi c’è una maggior finezza. Queste forme che voi chiamate organiche, sono dovute a un modo di muoversi degli utenti nell'edificio.
Ma certi elementi formali, ad esempio certe forme bombate o curve, negli elementi, che si notano di più nelle sue ultime opere.
Sì, mi vengono volta a volta. Non so come vi ho raccontato per piazza S. Babila era dovuto al percorso del dottore dall'impossibilità delle persone che comprano la Coca Cola di appoggiare la lattina nei bordi, ché gli cade, insomma. Quindi, la bombatura del paracarro è dovuta alla Coca Cola, cioè ad impedire a questo signore che vuol bere la Coca Cola di lasciarla lì, sul paracarro. Cosa che invece la Gae Aulenti, in piazza Cadorna, gli ha fatto i tavoli da mangiare, addirittura, per cui lì ci resta il pane, vi restano le briciole, vi resta tutto. Io sono fatto diverso, cerco di impedire questo disordine che è spontaneo, insomma.
Nel momento in cui affronta un progetto che importanza ha il suo linguaggio personale e quanto invece il contesto?
Non so se io sia persuasivo, o meno, non so; certo che io cerco di insegnare al cliente come può vivere, non lo so bene, perché non so se precede prima il progetto, o se precede prima l’esigenza. Capite cosa voglio dire? A seconda dei casi, c’è la possibilità di fare una sala in un posto e la sala da pranzo in un altro. Ché se mi viene la sala da pranzo vicino alla cucina, io sono soddisfatto e cerco di tenere la sala da pranzo vicino alla cucina, ché se non mi viene, allora trovo il modo, così, trovo modo che una sala, che è lontana dalla sala da pranzo, ha un significato di passeggiata e di escursione da un punto all'altro della casa, così mi valorizza, in un certo senso, la casa, anche la passeggiata, insomma. Quello che era la galleria di Versailles, che era lunga, non so, trecento metri, che permetteva lo svolgersi di un percorso, in un appartamento moderno è una cosa ridotta normalmente a quindici metri. Se io metto la sala all’opposto, e la camera da pranzo all'altro opposto, per quanto faccio quindici, quindici, trenta metri, quindici a tornare, quaranta. Insomma, in un certo senso obbligo un movimento che, in un certo senso, dà qualità alla casa. Però, sono io che lo faccio, o è la pianta che mi riesce e riesco a fare la pianta, depistata, dislocata una qui e una là, insomma. Certe volte è la possibilità che la pianta mi offre di fare questo gioco.
Ecco, il vincolo.
Il vincolo. Allora io lo indico al proprietario e dico: guarda che è una qualità, non è un difetto. Quello che potrebbe essere un difetto può diventare una qualità. Basta decorare il corridoio, che è lungo, in modo tale che ci sia una successione di emozioni, e quindi si crea questa emozione, che è dovuta. Ma viene prima la pianta o vien prima l’idea? Non lo so. Certe volte può darsi che sia la pianta che mi imponga la soluzione, la trovata dell’idea.
Lei insiste sulla necessità di usare intonaci e ceramiche naturalmente colorati dalle terre che contengono. Terre e ossidi hanno tuttavia molti colori diversi, come mai allora la predilezione per tinte scure, come il bruno e il prugna, che inoltre difficilmente si ritrovano nella tradizione milanese?
No, vi spiego, ad esempio la casa di via Ippolito Nievo è celeste. Però è l’unica cosa che ho fatto di celeste, è l’unica. Perché? Perché ho inventato, ho cercato di inventare, un tipo di casa che fosse, direi, complanare coi serramenti; cioè: il rivestimento complanare col serramento. Quindi non gioco con lo scuro ma con la complanarità. Cioè: ho creato una specie di pane di ghiaccio, diciamo così. Pane di ghiaccio sarebbe, che cos’è, un parallelepipedo di ghiaccio. Cioè: allora, celeste e piano, senza dentro e fuori, capisci? Ed io ho fatto il celeste. Però il celeste, io sono contrario in genere all'uso del colore. E allora passo al crème caramel, perché il crème caramel non è un colore, è un sale. È una salatura del grès. Salare il grès diventa crème caramel. Allora non è un colore, è una materia: che è diverso. Cioè, delle mie case, tipo Ippolito Nievo, quella celeste è un colore, l’altra è una materia. E fatto di materia perché è vetro, ceramica, e non colore.
In realtà la nostra domanda era più sulla preferenza per il colore scuro rispetto al colore chiaro.
Io faccio anche il bianco. Le case di via Tolstoj, di quelle vie là, quelle case per uffici che ho fatto, sono belle case, sono bianchissime. Sono delle case con la gronda un po’ arrotondata, ma qui il bianco non è un colore; il nero non è un colore, se vuoi; negazione del colore, insomma. Sono contrario all’uso del colore. Mentre invece gli intonaci che uso sono sempre di un colore che va dal terra di Siena, al terra d’Ombra. I colori delle terre, sempre. Cioè tutta la serie delle terre la posso fare: rosse, terra rossa, terra gialla. Le terre vanno dal giallo al marrone scuro, e attraverso il rosso. Sono colori per così dire naturali che vanno dal rosso, al giallo, al rosso, al nero.
Molte volte lei si è trovato a ristrutturare abitazioni all’interno di edifici preesistenti, di cui non poteva modificare la facciata. Generalmente modifica radicalmente le suddivisioni interne, senza conservare tracce dell’assetto preesistente. Pensa che questo approccio della tabula rasa possa essere applicato ovunque, oppure ci sono casi in cui è giusto mantenere e valorizzare l’assetto spaziale precedente?
Certo, se è valido sì. Tabula rasa la faccio se non c’è niente, se no non lo faccio assolutamente. È questo che critico della Soprintendenza: se dentro queste piante ci fosse l’aspetto di qualche cosa che lì c’era un monastero, dove c’erano delle celle dei frati, piuttosto che laboratori, lascio tutto. Ma dove non c’è niente non posso lasciare queste costruzioni fatiscenti, fatte dodici, quindici, vent’anni fa. Non mi interessa.
Ma se trova, non so, un parquet decorato, un soffitto affrescato…
Se posso lo lascio, se posso lo tengo. Se c’è appena appena la possibilità, lo tengo, per carità. Però, quando queste cose sono fatte da gente che ha ripreso una cosa precedente, che è stata fatta vent’anni fa da un allievo di quello che ha già fatto i miei pavimenti, quando io avevo trent’anni, no. Questo che non sa neanche fare quello che faceva il mio mosaicista, lo butto via tranquillamente, insomma.
Ci sono critici che hanno visto un parallelismo fra alcune sue opere degli anni cinquanta e quelle coeve di Ignazio Gardella. Lei si sentiva davvero vicino a Gardella in quegli anni, oppure avvertiva maggiori affinità con altri architetti?
Gardella è stato mio grande amico, abbiamo lavorato insieme una quantità di volte, e sono un suo grande ammiratore. È stato un grandissimo architetto, però non è che abbia fanatismi.
Spesso sui libri si vede accostata questa casa di piazza Sant’Ambrogio con quella di Gardella al Parco Sempione.
Sì, forse una certa uniformità di modo di pensare c’è, però lui non era un piantista come me, non moriva sulla pianta. Era un fine esteta. Avevamo una certa affinità di ambiente e di educazione, per cui arrivavamo a certi modi di pensare o di vivere simili. Lui ha sposato una mia cugina, insomma eravamo vicini. Di famiglie, di educazione, di cose così; però eravamo del tutto diversi. Comunque i grandi sono stati Albini e Gardella.
Ci sono elementi delle sue opere milanesi che richiamano caratteri dell’architettura tradizionale engadinese, che lei conosce bene. Come mai ha sentito la necessità di usare questi elementi regionali in un contesto così diverso come quello milanese?
Penso che la facciata tradizionale, come quella engadinese, sia più utile per difendersi dalla luce che non una facciata in vetro. La facciata engadinese è molto intelligente: nel senso che ha piccole aperture, ma gli squarci gli permettono di andare a prendere le viste e il sole. Però, il tipo di architettura è interessante, insomma, è un’architettura intelligente. Mentre le architetture tutte vetro sono sciocche, queste architetture di difesa dall’agente atmosferico sono più serie. Non è che io porti un elemento di colore locale. Ho notato la serietà e la funzionalità vera di questa architettura: l’andare a prendere la vista, l’andare a prendere il sole in modo diverso.
La sua famiglia abitava da secoli nel palazzo di piazza Sant’Ambrogio. Quale rapporto la legava a questo palazzo?
La mia famiglia abita in questo palazzo da cinquecento anni. Noi siamo venuti qui nel 1492. Mentre Cristoforo Colombo scopriva le Americhe, nel 1492, noi siamo venuti da Novara a Milano, quindi abbiamo passato il Ticino [ride]. Un po’ di differenza: lui ha fatto l’Atlantico, noi il Ticino. Quindi si capisce perché io non volo, né navigo molto. Io sono nato il giorno di Sant’Ambrogio, e per di più mio papà si chiamava Ambrogio. Non è facile, insomma. Non sono interista, che si chiamava Ambrosiano, però ho fatto l’Ambrosiana, che mi hanno disfatto: l’Ambrosiana era una pinacoteca perfetta, era diventata un classico, l’hanno distrutta. Tutto perché sono arrivati i soldi della Cassa di Risparmio, e si sono dimenticati di un lavoro museografico perfetto, secondo me.
E non le hanno chiesto niente?
Niente. Non una parola. Tra l’altro credo di averlo fatto gratis, quel lavoro. Poi sono arrivati i soldi, e con i soldi hanno tolto il pavimento in veneziana, con il bordo di pietra, o di lavagna, o di beola consumata, e hanno fatto il parquet di rovere, con il bordo in giro: insomma, degno di una birreria tedesca.
Il fatto di vivere in un palazzo storico, a diretto contatto con la basilica di S. Ambrogio, è stato determinante nella sua scelta di diventare architetto, oppure i motivi sono stati altri?
No. Non ci ho pensato, non avevo dubbi di fare l’architetto perché mi divertiva disegnare, mi divertiva mettere a posto i mobili. Non era una scelta, ero come predestinato, non so perché. Mi sentivo la voglia di fare, di costruire.
Nel progettare la casa di Piazza S. Ambrogio quali sono i caratteri dell’antico palazzo che ha voluto riproporre?
Niente. Non ho riproposto niente. È venuto spontaneo l’adeguarsi all’andamento, al fiato, all’atmosfera della piazza, a questa pacatezza direi di ritmo. È una specie di assonanza, di questo passo calmo, queste poche finestre… Ho cercato di rifare una costruzione da piazza Sant’Ambrogio, e da Sant’Ambrogio. Questa calma, questa serenità, questa pacatezza, ha influenzato la scelta. Ma era abbastanza difficile la ricostruzione da fare, perché questa, la bella casa, era bruciata. La brutta, che era stata fatta nel 1928, è rimasta su tutta. Quindi sono rimaste su le costruzioni di via San Vittore, di via Carducci, e l’interno, con le scale già messe lì. Quindi dovevo collegare questa parte davanti agli appartamenti e alle scale precedenti, era abbastanza difficile.
Come ci ha raccontato, non è raro trovare registi di cinema che hanno fatto studi di architettura, oppure architetti cinefili, dimostrando l’affinità tra le due discipline. Crede che il cinema abbia qualcosa da insegnare agli architetti?
Non lo so. Non è che nelle scuole di architettura sia pieno di registi. Per caso, io ero compagno di scuola di Renato Castellani, che è stato un grandissimo regista, il più grande. Era mio compagno di scuola, studiavamo insieme, sempre. E poi, indietro di un anno, c’erano Comencini e Lattuada. Ma è un caso.
Nei condomini di via Ippolito Nievo la posizione e il dimensionamento delle finestre dipende maggiormente dalla suddivisione interna dei locali o da criteri geometrici che regolano la composizione delle facciate?
No, più dalle piante, sono veramente piante diverse una dall'altra. Però qualche volta, qualche aggiustamento lo si può anche fare [ride], anche dal punto di vista compositivo. Però la libertà è venuta da questa sovrapposizione di piante diverse. La libertà mi è nata da quello, dalla necessità. Cioè, è l’impianto che conta, insomma. Cioè, fai un progetto e vedi che le esigenze sono diverse un pochettino, c’è uno che ha due/tre figli, un altro che ne ha sei, uno che non ne ha nessuno; uno che prende un appartamento grande, uno che prende un appartamento piccolo, eccetera. E da lì, la necessità di esser liberi di poter fare una facciata che aderisca a piante diversificate.
Qualche volta la pianta diversificata la posso fare anche per mettere a posto la facciata. Solo per necessità. Normalmente cosa si fa: una facciata è dal pian terreno fino in alto tutto uguale, più o meno. È un vantaggio dal punto di vista costruttivo, è chiaramente un vantaggio. Però non è fatto per fare la Portofino, è fatto per fare una adesione alle richieste.
Ma lei ha studiato proprio ogni pianta per tutti i clienti?
Eh. Non che abbia studiato ogni pianta, ho fatto delle piante diversificate, era una casa fatta per soci di una cooperativa, praticamente. Erano già diversi. Però, per dirvi, non so, gli appartamenti sono venti; dieci sono aderenti alle piante richieste, e dieci sono inventate. Però sono inventate su una diversificazione di pianta, e di metratura, insomma.
E quella scelta degli ascensori nella facciata, da dove nasce?
Nasce dalla necessità di servire con l’ascensore anche i servizi. L’ascensore c’è anche nel centro della casa. Poi c’è quello di servizio. Quello di servizio è chiaro che se è lì in mezzo serve i due. La casa è piuttosto comoda, insomma. Che poi è anche bello, questa movimentazione della facciata.
E come mai invece l’ascensore in mezzo alle scale, non sarebbe stato più bello lasciare libera la tromba?
È un vantaggio di costo inferiore. La scala crea un vuoto, che nel centro non è goduto. Se metti l’ascensore è fruito; costa molto meno. Poi è una formula mia.
7 dicembre 2016
Pierfrancesco Sacerdoti (Milano, 1979) è architetto e svolge attività didattica e di ricerca presso il Politecnico di Milano, dove ha conseguito il dottorato in Composizione Architettonica. È intervenuto come relatore in convegni internazionali ed è autore di saggi dedicati all’architettura e all’urbanistica di Milano. I suoi campi di ricerca spaziano dall’architettura di fine Ottocento, al Liberty, all’architettura del XX secolo, ai rapporti tra cinema e architettura. Dal 2003 organizza e conduce visite guidate sull’arte e l’architettura di Milano.
Tommaso Cigarini (Milano, 1977) è architetto con esperienze di ricerca e lavoro sia all’estero che in Italia. Nel 2001, grazie al progetto Erasmus, lavora per Laurent ed Emmanuelle Beaudouin in Francia. In Italia lavora presso gli studi Caneva-Conca e Mauro Galantino. Nel 2013 si trasferisce a Lima: lavora inizialmente presso lo studio Barclay&Crousse, nel 2015 apre il proprio studio di architettura e inizia a insegnare in un laboratorio di progettazione e museografia presso l’università UPC di architettura degli interni. Ha pubblicato saggi sull’architettura in riviste italiane ed estere. Attualmente sta svolgendo, presso l’URP di Lima, un master in Museografia presso l’Universidad Ricardo Palma.
Luigi Caccia Dominioni. Case e cose da abitare. Stile di Caccia, a cura di F. Irace e P. Marini, fotografie di G. Basilico, catalogo della mostra (Museo di Castelvecchio, Verona, 7 dicembre 2002 - 9 marzo 2003), Marsilio, Venezia, 2002.
N.B.: Si ringrazia l'ingegnere Marco Pascucci, per aver reso 'udibili' le tracce audio dell'intervista registrata in audiocassetta.Le immagini senza credit sono state reperite su 'google immagini'.
Questa intervista è bellissima, viene fuori una persona pacata nei modi ma infuocata dalla passione per la propria professione. Un "piantista" eccezionale, uno che morirebbe "su una pianta". E poi bellissima la metafora dell'architetto come "piccione viaggiatore".
RispondiEliminaUn grazie e un saluto. Rem
Ciao Rem,
Eliminain un primo momento avevo eliminato le parti dove lui disegna e racconta il suo essere “piantista” rispondendo non verbalmente ma concretamente alle domande poste da Pierfrancesco e Tommaso, dopo per fortuna, ho inserito tutto.
Saluti,
Salvatore
Auguri!
RispondiEliminabella intervista. Wilfing e' passato da un melting pot ad un articolo l'anno. forse e' arrivato il momento di puntare ad un periodico cartaceo? l'ultima volta che ho suggerito qualcosa e' nato un blog.
RispondiEliminaVero e mi ha cambiato la vita roba non da poco. Grazie ma la bellezza di quest'intervista si deve a Pierfrancesco Sacerdoti e Tommaso Cigarini.
EliminaSpero di incontrarti presto magari dalle tue parti.
Un abbraccio,
Salvatore
"Quali sono i requisiti per essere un bravo architetto? Essere una persona onesta." di questi tempi del far West architettonico è una lezione importante. Bella intervista.
RispondiEliminaSemplicemente meraviglioso <3
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