24 gennaio 2011

0038 [MONDOBLOG] Dal Web a Chiasso con Fabrizio Gallanti di Abitare

di Salvatore D'Agostino
«Tra l’altro, l’unica dinamica albafetizzante, in un contesto altrimenti di peggioramento, negli ultimi anni è stata innescata da internet che ha alimentato l’inclusione di una fascia di popolazione che era poco sotto la soglia minima di accesso agli strumenti della lettura e che l’ha superata per gli stimoli trovati in rete.» (Tullio De Mauro)1
Il 4 dicembre del 2008 il sito della rivista Abitare mutava in blog, aprendo i suoi post/articoli ai commenti. A due anni dall'inaugurazione ne ho parlato con Fabrizio Gallanti - vicedirettore della rivista e curatore della sezione on-line - perdonate la deviazione verso Chiasso. Colpa mia.


Salvatore D'Agostino In uno dei primi post scrivevi: «Per chi non se ne fosse accorto Abitare è un blog, e siccome siamo blogger una delle cose che facciamo di più è guardare altri blog».

A due anni dalla sua creazione, alcuni aspetti del blog che non mi convincono:
  • la trasposizione di articoli pubblicati nella rivista con uso posticcio delle fotografie (sotto, sopra e/o nel mezzo);
  • la non identificazione (anche attraverso un feed) degli articoli postati dai diversi autori;
  • l’idea di trattare le fotografie come la musica di sottofondo dei locali: indispensabile corollario;
  • ciò che definisco sindrome da mainstream ovvero l’apertura della rivista ai contributi dei lettori con le rubriche: La biennale del popolo (pubblicazioni di foto e immagini della biennale 2010 inviate dai lettori), Mirrors(autopresentazione del proprio studio di architettura), <26@abitare (articoli e commenti degli under 26) o il tremolante videoblog della passata Triennale affidato a Fabio Novembre;
  • un’impaginazione densa tipico dei portali Web che sembra dire: «benvenuto qui puoi trovare tutto quello che cerchi basta andare a zonzo, cliccando un po’, con la tua manina.»
Perché vi è questo divario tra la rivista cartacea - dove in ogni pagina il testo e le immagini sono pensati in modo coerente - e lo spasmodico inclusivismo della versione on-line comprensivo dell’evidente incoerenza tra testo e immagini? 

Fabrizio Gallanti La fruizione di un sito è ben diversa da quella della carta. Il nostro obbiettivo era quello di essere volutamente inclusivi e poco coerenti, convertendo il sito in un luogo di molteplici intrecci. Spasmodico inclusivismo è esattamente una descrizione che ci affascina. Sono gli utilizzatori che poi navigando, perdendosi, seguendo alcuni fili conduttori selezionano quello che meglio li interessa e costruendo una continuità nel tempo, soprattutto con alcune rubriche.
Il rapporto testo immagine, rispetto alla rivista, è purtroppo determinato dal software, wordpress, che non permette la stessa agilità di impaginazione della carta. Quando dicevamo che Abitare è un blog, volevamo sottolineare che lo scheletro che lo sostiene è quello del blog, ossia uno scorrimento cronologico, dove l'ordine è dato dal tempo, ma dove non esiste sostanziale differenziazione tra i contenuti. Il divario è voluto quindi, trattandosi di due mezzi di comunicazione comunque diversi.


In questa veste Abitare non rischia l’indistinto? Ovvero l’essere in rete senza nessuna forte specificità, confondendosi con il mainstream?


Esiste un desiderio di "attualità", ossia di fornire informazioni al pubblico su ciò che sta succedendo adesso, in questo momento. Questo spiega il flusso accelerato dei post. Post, che però sono il risultato di operazioni di selezione, filtro, dibattito non solamente interne alla redazione. La specificità è data dai toni e dalle scelte, che tra l'altro combinano aeree disciplinari eterogenee, non solo quelle più prossime all'architettura. L'apertura verso altri campi (arti visive, grafica, design, cinema, ecc...) è peculiare delle riviste italiane, e di Abitare: non si tratta di riviste specializzate che forniscono informazione di tipo tecnico, ma piuttosto di piattaforme che mantengono i propri lettori coscienti di scenari più vasti, che possano essere di ispirazione per il proprio lavoro e la propria ricerca. A breve sarà in libreria un volume che celebra i 50 anni di Abitare: guardando tutti gli articoli selezionati, emerge questa forma di eclettismo colto, che non rinchiude l'architettura all'interno di interessi e di linguaggi chiudi e definiti. Se si seguono i post del sito, credo che emerga la mescolanza di temi e interessi, alcuni, forse mainstream, altri di nicchia, alcune scoperte, alcune esplorazioni curiose, alcuni rimandi ad altri siti, altri testi scritti espressamente per noi. Insomma il sito è il riflesso della comunità ampia che sostiene Abitare. E inoltre permette che sia il pubblico a costruirsi un proprio "menu", evitando un'imposizione autoritaria da parte nostra.


A che serve un blog per un architetto?

La domanda di per sé non ha molto senso. Sarebbe come dire "a cosa serve un software per un architetto?". Dipende da quale blog, dipende da quale architetto. In termini molto generali, generalissimi, diciamo che se un blog fornisce informazione, a un architetto fa bene riceverne per arricchirsi (ma come un libro, un film, un viaggio, una conversazione).

Le riviste d’architettura appaiano cronicamente incapaci di dibattere tra loro e d’influire nelle scelte politiche in corso.

Limitandosi a registrare - rispettosamente - i grossi eventi.

Tralasciando argomenti poco glamour come:
  • ricostruzione di città o territorio distrutti da eventi ‘fisiologici’ naturali; 
  • ricostruzione di città e territorio quasi distrutti dal ‘popolo del cemento’ in poco meno di sessant’anni; 
  • piano casa; revisione della legge Merloni ovvero i concorsi; 
  • riforma universitaria; 
  • l’uso politico dell’architettura; 
  • costruzione dell’opera più imponente d’Europa: il ponte di Messina; 
  • la costruzione di una miriade di ‘centri commerciali nelle campagne infrastrutturate; la squalifica ‘professionale’ della figura dell’architetto; 
  • l’emigrazione degli architetti italiani (da non confondere con i talenti).
A che cosa serve una rivista d’architettura? 

Mi sembra una lista estremamente "italiana" nei suoi temi e nei suoi accenti. Ora le riviste italiane, tali non sono dalla fine del secondo dopoguerra. Si tratta di riviste internazionali pubblicate in Italia (da quando c'erano Ponti e Rogers). Per cui occuparsi dei dieci temi in basso non avrebbe senso, perché tradirebbe le aspettative e necessità di un pubblico che sta, anche, oltre i limiti nazionali. Questo ruolo, legato anche alla scelta della lingua, però mi pare che sia assolto e molto bene dal Giornale dell'Architettura, che invece si occupa con frequenza dei temi che suggerisci.

Alcuni punti poi potrebbero avere declinazioni più "universali":
1, se si considera lo Tsunami, Katrina o il Cile;
5, se si tenta di capire come si insegna l'architettura a Londra, a Los Angeles, a Zurigo,
6, se si guarda al caso di Medellin in Colombia, per esempio.

Alcune questioni mi sembrano invece molto nostrane. Da qui l'esortazione, sempre valida, di Alberto Arbasino: «Bisogna andare in gita a Chiasso e scuotersi di dosso il provincialismo nostrano».
Anche perché, spesso ho la sensazione che solo ci si lamenti e molto poco si agisca.
A cosa servono le riviste?

A costruire un dibattito tematico, presentando progetti e idee a un pubblico, o meglio a una comunità. A far avanzare anche se di un millimetro la conoscenza e l'informazione. Pare poco, ma è già moltissimo.


Raccolgo l’invito e ritorniamo dalla gita a Chiasso.
Che cosa sta proponendo l’architettura italiana nel dibattito internazionale?

La nozione di architettura italiana è di per sé vuota. C'è stata una fase di elaborazione relativa alla città, alla storia e alla teoria, che ha avuto un forte impatto alla fine degli anni '70, il cui influsso è durato sino alla fine degli anni '80.
Da allora l'idea stessa di un attributo nazionale dell'architettura è una categoria operativa discutibile.
Rem Koolhaas è olandese nelle sue espressioni?
E Steven Holl?
Al massimo si può riconoscere un’italianità rispetto a questioni di stile, linguaggio e gusto. Ma rispetto all'elaborazione di temi di valore internazionale non c'è nulla. Il che è curioso, dato che in altre discipline l'apporto continua a essere importante come la danza, la musica o la riflessione politica. 

La riflessione politica?

Penso a tutti i pensatori politici, o meglio della filosofia politica attuali: Paolo Virno, Maurizio Lazzarato, Christian Marazzi (in realtà ticinese), Antonio Negri, Matteo Pasquinelli a Uninomade. Molti di questi, in effetti sono all'estero. In ogni caso, le riletture critiche e le attualizzazione delle teorie del marxismo prodotte in Italia continuano ad avere una risonanza internazionale.

Allora, se ci permetti, urge una gita a Chiasso.
Come guida utilizziamo il resoconto di Gianfranco Bombaci2 a proposito del recente incontro promosso dall'Istituto Svizzero dal titolo: What Ever Happened to Italian Architecture?3
«Reto Geiser, ha dato inizio alla prima giornata, dedicata al Passato, con una sua introduzione, il cui assunto di base è inconfutabile: nel secolo scorso, figure individuali come Rossi, Gregotti e Tafuri, o gruppi come Archizoom e Superstudio, hanno costruito una cultura dell'architettura, in Italia, capace di assumere una posizione di rilievo all'interno del dibattito internazionale. In seguito, il tramonto di manifesti e visioni ha gradualmente fatto uscire di scena l'architettura italiana, messa in disparte da forze commerciali e speculative.»
Per essere più chiari aggiungo una riflessione POP del vostro amato Fabio Novembre:
«Diciamocelo: i grandi maestri erano un gruppo di frustrati di successo. Erano tutti laureati in architettura, ma erano impossibilitati a costruire perché nel secondo dopoguerra i costruttori erano già degli speculatori.»4
Prima foto ricordo | Sul paesaggio speculativo del secondo dopoguerra. 

Direi che se un'architettura "nazionale", ossia che sia il prodotto di una cultura specifica ha successo e diffusione mondiale, di solito non si deve alla qualità dei progetti e delle realizzazioni, ma soprattutto alla capacità di stimolare ragionamenti, pensieri, quindi lo sviluppo di concetti, spesso separati e distanti dagli aspetti estetici. Per esempio l'eco ancora forte del pensiero di Robert Venturi e Denise Scott-Brown si deve ai loro scritti, piuttosto che ai loro lavori. Lo stesso si potrebbe dire di Rem Koolhaas e di molti altri.

In questo senso dalla fine della seconda guerra mondiale, sino alla fine degli anni '70, l'Italia ha ospitato una produzione concettuale impressionate per temi, accenti, interessi e non necessariamente caratterizzata da architetture particolarmente eccitanti. Il caso della Torre Velasca, per esempio, mi pare sintomatico. Un edificio di ottima qualità, ma comunque non eccelso, che diventa importante per i temi che tocca, più che per la propria forma (basta pensare al dibattito che scatena, con Reyner Banham nel 1960 che lo prende a esempio della "ritirata" italiana dall'architettura moderna). Per cui, figure diverse, posizioni spesso opposte (Giancarlo De Carlo e Aldo Rossi, per esempio) e traiettorie prevalentemente concettuali e astratte hanno rappresentato un perno culturale costante a livello internazionale. Direi che non è solo l'architettura italiana a essere uscita di scena, ma qualsiasi forma di pensiero sull'architettura, non solo da noi ma ovunque. Quindi la lamentazione sull'architettura italiana, nasconde in realtà una nostalgia per una densità che appare irrimediabilmente esaurita. Inoltre, il problema, forse, è che la ricchezza culturale dell'architettura italiana è anche stata un peso, impedendo lo sviluppo di una architettura meno "pensata" ma eseguita correttamente (non è un caso che tutti i maestri modernisti minori, che so un Luigi Carlo Daneri a Genova, un Giuseppe Vaccaro a Bologna, un Luigi Cosenza a Napoli o Mario Asnago e Claudio Vender a Milano non siano più stati materia di studio nelle facoltà di architettura per lungo tempo). Adesso ci troviamo, tutti, senza discorso profondo sull'architettura.
In Italia, inoltre, senza architetture interessanti, o anche solo alla moda. Perlomeno altrove (penso in Spagna, in Cile, in Croazia, in Belgio, in Corea, in Giappone), ci si può consolare sfogliando le riviste d'architettura e visitando le opere inaugurate di recente.

Sulla frustrazione degli architetti italiani del secondo dopoguerra, direi che la frase è solo una semplificazione buona per una conversazione dopo cena, dove bisogna aver sempre la battuta di spirito pronta.
«Fabrizio Gallanti ha riportato la discussione sul tema politico e su come il legame tra architettura, urbanistica e governo del territorio sia una peculiarità tutta italiana.»5
Sacco di Palermo | Costruito tra il 1950-1970
Appartamento in Via Libertà [non è uno scherzo toponomastico] 4 vani, 120 mq al 7° piano € 400.000 

Milano 2 | Costruito tra il 1970-1980
Appartamento 3 vani, 126 mq, al 1° piano, € 590.000 

Quartiere Caltagirone (Ponte di Nova-Roma) | Inizio costruzione 2004
Appartamento Via Cannaroli, 4 vani, 100 mq, al 2° piano, € 240.00
L’agenzia immobiliare inizia la promozione in questo modo:
«ALCUNI CENNI SUL LUOGO: Il 31 marzo 2007 è stato inaugurato uno tra i più grandi centri commerciali retail d'Europa, denominato "Roma Est".»
Seconda foto ricordo | Sulla politica e l'urbanistica. 

Capire la situazione attuale dell'architettura in Italia è forse più facile se si considerano alcuni dati numerici nella loro brutale nudità. Il primo è il numero di architetti iscritti agli ordini professionali, valutati intorno ai 130.000 (peraltro non ci sono, nel caos che contraddistingue il nostro paese, informazioni ufficiali - o meglio, nessuno si è mai preoccupato di raccoglierle). Gli altri dati, impressionanti, sono quelli raccolti da Giovanni Caudo, professore a Roma Tre, sul mercato immobiliare italiano.
Ora: negli ultimi dieci anni, il volume delle transazioni di immobili residenziali è passato da una media di 410.00 acquisti nel decennio precedente a circa 700.000 nell'ultimo (includendo la flessione degli ultimi due anni, dopo la crisi del 2008). Inoltre la media di grandezza degli studi professionali italiani e' di circa 1,2 addetti (compreso il titolare) per studio.

Cosa possono voler dire questi dati?

Innanzitutto che la tendenza all'acquisto della casa, non solo come prima casa ma anche come investimento, ha depotenziato la domanda di progettazione per edilizia sociale e collettiva. Secondariamente, e a fronte di una evasione fiscale endemica, i dati indicano che la maggior parte del prodotto interno lordo e' reinvestita nell'edilizia privata, non solo nella vendita e acquisto ma anche nelle successive operazioni di trasformazione, che consistono spesso in ampliamenti e ristrutturazioni. Il che quindi implica una atomizzazione dei soggetti 'progettisti' che riescono a sopravvivere al di sopra di una linea di galleggiamento risibile, con piccoli progetti di intervento interno, pratiche comunali, arredamento. La mitologia della 'casa' (non a caso sempre presente nelle ultime vicende politiche nazionali - Balducci e le tende da concordare con i fornitori, la casa di Montecarlo di Fini, le ville di Berlusconi, i mutui estinti per i deputati che cambiano di maggioranza) è complementare al sostanziale disinteresse per lo spazio e le infrastrutture collettive (per le quali, tra l'altro non ci sono i soldi). Tale disinteresse determina quindi una domanda di architettura asfittica.

La lamentela riferita all'assenza di concorsi in Italia, punta alla conseguenza del fatto che da decenni il settore pubblico non realizza opere pubbliche con costanza e con una massa considerevole: musei, scuole, asili, ospedali, caserme, piazze. Comparato con Francia, Germania, Spagna, il livello di interventi è ridicolo: basta varcare la soglia di una scuola elementare, probabilmente in un edificio dell'800 per disperarsi. È abbastanza ovvio che quando ci siano dei concorsi (riservati alle opere simbolicamente più importanti), questi siano spesso vinti da architetti stranieri, perché più esperti e allenati (e perché offrono poi maggiori garanzie di successiva realizzazione - lo studio italiano con dieci persone e i software piratati non promette nulla di buono). È abbastanza ovvio che sempre meno frequentemente gli studi italiani partecipino e vincano i concorsi all'estero (mentre agli italiani che si sono spostati in altri paesi, le cose non vanno male, anzi).
Io penso che una moratoria delle facoltà di architettura per 5 anni, sarebbe ottima. Non si accettano studenti e non si laurea nessuno. Al massimo si fa un’iperscuola di eccellenza, nazionale, con 100 studenti all'anno e i migliori docenti in circolazione. Una Normale di Pisa dell'architettura. Forse la Bocconi o la Luiss potrebbero provarci. Chiudere le facoltà permetterebbe che il mercato assorba l'eccesso di laureati e darebbe il tempo di ripensare l'insegnamento dell'architettura, lasciando che buona parte dell'attuale personale docente attuale andasse in pensione, eventualmente garantendo una qualche forma di rinnovamento. Peraltro, i modi di selezione dei futuri docenti non lasciano intravedere nulla di positivo all'orizzonte, trattandosi di tentativi di incorporare chi già c'è più o meno interno al sistema, i vari precari, ricercatori e contrattisti (spesso figli e parenti, purtroppo, di altri ordinari e associati). Ora questa visione del precariato universitario è curiosa: si tratta di un senso di colpa, molto cattolico, dove siccome qualcuno ha sofferto in passato, deve ottenere un risarcimento. Ma non ci sono evidenze che i ricercatori e i contrattisti sarebbero di per sé degli ottimi docenti. A me piacerebbe un sistema come negli Stati Uniti dove tutti i docenti siano a contratto, con rinnovi legati ai risultati. Però pagati molto bene, non le noccioline attuali, che sono svilenti per tutti (in alcune facoltà i contrattisti insegnano gratis, cinica l'istituzione e farabutti loro).

Forse, ripetere l'esame di stato ogni cinque anni sarebbe un'ottima idea. In molti paesi per rimanere iscritti agli ordini, i professionisti devono continuare a formarsi, accumulando crediti (partecipando a seminari, simposi, corsi di aggiornamento). Un sistema di questo tipo, eliminerebbe i rami secchi, attiverebbe una domanda di educazione che potrebbe ravvivare le facoltà, mettendo gomito a gomito generazioni diverse. Inietterebbe un po' di linfa in uno scenario morto. Si potrebbero tentare diverse cose. Ma la mia sensazione è che abbia ragione Mourinho: «l'Italia è come il Portogallo, tutti parlano dei problemi e nessuno fa nulla per risolverli». 
«Eppure, come giovane architetto attivo sul campo, non riesco a identificarmi in questo scenario. Non riconoscendomi in ideologie pregresse e ormai passate, penso di avere il diritto, e forse anche il dovere, di studiare, con onestà intellettuale, ed elaborare la storia, la tradizione e la produzione teorica della nostra cultura, da Rossi a Tafuri, da Branzi a Gregotti, senza per questo dover essere accusato di essere reazionario o neoconservatore. Qualcuno, a suo tempo e per sue ragioni, ha "ucciso i padri" della nostra generazione senza preoccuparsi di crescerne i figli, i quali, da autodidatta, si sono fatti le ossa in un mondo che è cambiato molto rapidamente ed è diventato globale. L'Italia ospita in questo momento numerose realtà professionali capaci di confrontarsi pienamente con il contesto internazionale, attraverso progetti, iniziative editoriali ed esposizioni. Questa condizione, però, si esaurirà presto, dato che giovani progettisti trentacinquenni europei cominciano a realizzare progetti importanti, mentre i nostri restano sulla carta. L'attuale classe dirigente ed intellettuale del Paese deve farsi carico di questa responsabilità, riprendendo un discorso di continuità teorico-critica, culturale e politica capace di interpretare, supportare e indirizzare le nuove generazioni di progettisti. Oppure farsi da parte. Altrimenti non ci resterà che continuare a canticchiare ossessivamente la solita rassicurante filastrocca: "tre elefanti si dondolavano sopra il filo di una ragnatela…» (Gianfranco Bombaci)6 
Terza foto ricordo | Sulla generazione dei padri speculatori 

Mah. I giovani trentacinquenni (mica così giovani, nel mondo uno è giovane a 20-25, non a 35, ma per fortuna l'architettura si pratica sino a tardi, l'esempio di Kahn continua a essere di conforto per tutti noi falliti) in gamba, hanno già cominciato a darsela a gambe, sia letteralmente, aprendo studi all'estero, insegnando, collaborando a progetti interdisciplinari, sia partecipando con costanza a concorsi esteri. Chi continua a lamentarsi di 'classi dirigenti' e si aspetta gesti munifici da parte di altre generazioni si inganna, o forse è complice del sistema. In fondo credo che Padoa Schioppa non fosse così distante dalla verità quando tacciava di pigrizia i ragazzi e le ragazze italiani. Bamboccioni, diceva. Penso che in nessun paese occidentale (non vale neppure la pena di parlare dei paesi emergenti) le famiglie abbiano viziato così tanto i propri figli, sin dalla tenerissima età. Il che li rende incapaci di qualsiasi azione autonoma. Mentre negli USA, per fare un esempio tanto banale quanto evidente, Mark Zuckerberg a 23 anni crea Facebook (o a 28 Andrew Mason che crea Goupon), da noi, uno trova su Repubblica o il Corriere, le lettere dei padri e delle madri (ah, le mamme italiane) che si lamentano o che i loro figli debbano andare a lavorare all’estero – e in quel caso l’autore della missiva era il rettore della Luiss, Pierluigi Celli (!) – o che a trent’anni la loro figliola è ancora precaria. Se uno ci pensa è surreale. In Italia nessuna classe dirigente deve farsi carico e può farsi carico di nulla, lo hanno capito gli studenti che manifestano.
Quando cominceranno a capire che devono anche defenestrare i propri docenti, ricercatori, insomma padri e fratelli maggiori, forse sarà un passo avanti (perché anche questi sono classe dirigente). Come dice Bombaci, qualcuno deve farsi da parte. Ora non vedo da parte dei 35enni e 40enni un movimento corale e unanime e coordinato per generare qualche forma di trasformazione e di transizione. Piuttosto, sono tutti in attesa di spiragli e occasioni, per insinuarsi nelle pieghe dei sistemi in atto. Se guardata con freddezza la situazione attuale appare così complessa, intricata e irrisolvibile che a uno cadono le braccia, e di fatto nei sondaggi e nelle inchieste del Censis, il sentimento prevalente è quello della disillusione.
In generale, e in maniera apocalittica, mi pare che tutto il paese sia in una fase di declino, lento e inesorabile, un’agonia che non finisce mai, un nonno attaccato al respiratore da troppo tempo. Forse solo un vero e proprio crollo potrebbe scuotere qualcosa e imprimere un cambio di costume, di idee, di attitudini. Basta guardare i dati dell'Economist sulla crescita internazionale, ogni settimana, per preoccuparsi. In un mondo che cambia, l'Italia non produce nulla che interessi nessuno, né alte tecnologie, né prodotti a basso prezzo. La nicchia della qualità e del lusso, applicata a prodotti a bassa complessità (formaggi, vestiti e sedie) è costantemente erosa dallo sviluppo di altre realtà (ogni volta che partono gli imprenditori italiani in Cina o India o Brasile, convinti di invadere i loro mercati, rientrano con le pive nel sacco, perché scoprono che in pochissimo tempo, laggiù, faranno meglio). 

L'architettura non può non soffrire le conseguenze di questa condizione di progressiva irrilevanza. E all'interno il sistema appare in implosione, perché non mi pare che ci siano forti spinte al cambiamento profondo: i singoli e le rappresentazioni collettive, penso all’università e agli ordini professionali, oramai sempre più inutili, stanno tentando di sopravvivere quanto più a lungo, ignorando i problemi e mettendo in campo i peggiori meccanismi clientelari e familistici. Insomma, in questo momento, mi pare che lo scenario sia piuttosto nero.

Dato che prevale una lettura individualista della società (siamo ancora a Guicciardini), a questo punto che ciascuno si salvi per sé, per cui credo che una delle poche soluzioni sia un biglietto di sola andata. 

Grazie per la gita.

24 gennaio 2011
Intersezioni ---> MONDOBLOG
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Note:
1 Tullio De Mauro (a cura di F. Erbani), La cultura degli italiani, Laterza, 2010.
2 Gianfranco Bombaci, What ever happened to Italian architecture?, DomusWeb, 10 novembre 2010. Link
3 Svoltosi a Roma il 15-16 ottobre 2010. Link
4 Intervista a Fabio Novembre, Klat, n.4, autunno 2010. Link
5 Gianfranco Bombaci, op. cit.
6 Gianfranco Bombaci, op. cit.

Abitare è online dal 1996.
Versione attuale, a cavallo tra blog e portale (gestita da Wordpress): 3 dicembre 2008
Layout: Mario Piazza + Gergely Agoston (AAP)
Progetto editoriale: Matteo Poli con Valentina Ciuffi
Software dedicato: Gergely Agoston (AAP)
Redazione: Fabrizio Gallanti, Valentina Ciuffi, Francesco Franci
Primo post: Valentina Ciuffi , MVRDV a Gwanggyo, 04 dicembre 2008 alle 18:15
Primo commento: (15 dicembre 2008)
«se ci manca un progetto culturale chiaro e di alto profilo, se ci manca la condivisione esplicita di un approccio verso l’architettura; se -soprattutto- ci manca il tempo per elaborare una proposta convincente, perché presentarsi insieme alla prossima incombente Biennale? Credo, in tutta sincerità che essere architetti/italiani/di mezza età, non sia sufficiente a costituire una coalizione significativa nella comunità internazionale”…(Stefano Boeri, 10 luglio 2002)
Così Boeri affermava nella lettera inviata a Sudjic e all’Aid’a, l’associazione fondata da Casamonti, in merito all’invito, da parte di quest’ultima, a partecipare all’iniziativa Lonely Living alla Biennale di Venezia del 2002. Come dire che il problema non è solo etico ma anche culturale. Casamonti in questi anni ha orientato il mercato dell’architettura, attraverso le sue riviste, oggi del Gruppo Il Sole 24 ore, e attraverso il suo network di lobby e appoggi che è stato trasversale e ha coinvolto gran parte dei direttori delle riviste di architettura, dei professori e dei presidi delle facoltà. Bene il tema proposto da Mirti, ma non è vero che non sia stato trattato da nessuno, vedi Espresso (nel caso fiorentino) e Gomorra nell’intreccio affari-politica-architettura nei numeri sul G.R.A e su Roma. Non si tratta solo del rapporto tra pubblico-privato dobbiamo considerare la continua assenza di un progetto politico di città, dove i politici si appiattiscono sempre più sulle logiche del mercato e del consumo.
ciao, emanuele» (Emanuele Piccardo)

21 gennaio 2011

0037 [MONDOBLOG] L'attrezzatura + NIBA

di Salvatore D'Agostino

Rossella Ferorelli laureanda ingegner-architetto blogger ubiqua Il nido e la tela di ragno e I caratteri del disturbo cronico il 15 gennaio, su facebook (ricordate la bacheca Web ad uso e consumo degli studenti del college?), ha creato il gruppo NIBA | Network Italiano dei Blog di Architettura.
In poche ore una girandola di inviti incrociati ha permesso d'iniziare un dialogo sulle pagine Web dedicate all’architettura.
Si deve ad Alessandro Rocca la migliore definizione di NIBA: «network nel network».
Ovvero la blogosfera architettonica osservata dalla 'facesfera' architettonica (perdonate il neologismo ma facebooksfera o booksfera, per via del book, mi sembrava un po’ blasfemo).

Più volte Wilfing Architettura (Febbraio 2009 - Marzo 2009 - Aprile 2009 - Maggio 2009 - Gennaio 2010 - Febbraio 2010 - Aprile 2010 - Giugno 2010 - Ottobre 2010, tutta l'inchiesta dedicata ai blogger architetti Oltre il senso del luogo e l'intersezione MONDOBLOG) ha parlato del ruolo marginale, per non dire irrilevante, della blogosfera 'architettonica' italiana. Inesistente a livello internazionale.

Vorrei chiarire due aspetti, forse un po' controversi, 'Web log e Blog':

«Lo schema di una piattaforma base per blogging - osserva Giuseppe Granieri1 - potrebbe ridursi ad un modulo per l'inserimento dei testi in un database e ad un modulo di output che li estrae e li visualizza in una pagina web, con l'ultimo testo inserito collocato in alto e gli altri a seguire verso il basso. Utilizzando un sistema simile, per pubblicare qualcosa sul Web non è necessaria nessuna competenza tecnica, se non quella di elaborare testi al computer. Se guardiamo all'organizzazione dei contenuti, caratterizzata appunto dall'annotazione più recente in alto, secondo alcuni il primo weblog [...] fu anche il primo sito web in assoluto, ovvero la pagina costruita da Tim Berners-Lee sui server del CERN (Comité Européen pour la Recherche Nucléaire).»
Web log (contratto successivamente in blog per approfondire qui) indica un sito web autogestito - personale o collettivo, con o senza redazione - dove vengono pubblicati in tempo reale storie, informazioni, notizie, opinioni o note visualizzate in ordine cronologico inverso. Non necessariamente i web log sono aperti ai commenti.
 

Wilfing Architettura dal 2008 studia la rete prendendo spunto dalle tesi sulla cultura convergente di Henry Jenkins.
«Per me, invece, - afferma Jenkins - la questione importante non è ciò che la tecnologia sta facendo a noi, ma ciò che stiamo facendo noi con la tecnologia».
WA, nel ricostruire la storia dei vent'anni di scritture Web in Italia, non ha trascurato gli articoli apparsi sui Web Log che dal 2003 (circa) s'incrociano con la sua contrazione Blog. Ad esempio il blog involontario di Francesco Tentori aperto nel 2000 ed oggi non più visibile (leggi qui).

A seguire vi propongo la seconda lezione, 'L'attrezzatura' del Corso di blog affidato dalla rivista Abitare a Geoff Manaugh autore del blog bldgblog.

Riporto un passaggio:
«Quando questo articolo sarà vecchio solo di qualche mese – lasciamo perdere gli anni – molte delle cose dette potranno sembrare terribilmente datate. Ma questa è la natura del blogging, dove qualsiasi cosa scritta più di due anni fa è antica come i Rotoli del Mar Morto».
Il prossimo MONDOBLOG ospiterà un colloquio con Fabrizio Gallanti vicedirettore della rivista Abitare, nonché curatore delle pagine on-line. Parleremo di blog e Chiasso.


di Geoff Manaugh*


Leggi le altre puntate del Corso di blog: La storiaI contenutiPer chi si scrive? e Il futuro

English translation

Nella prima puntata di questa rubrica ci siamo soffermati su cosa significhi bloggare sull’architettura e ambiente edificato, sugli spazi che gli esseri umani abitano e costruiscono
per se stessi. Il blogging, tuttavia, deve essere collocato non nell’ambito della teoria architettonica, al quale non appartiene, ma nella lunga vicenda della scrittura e dell’autopubblicazione, una tradizione visionaria che include figure come Martin Lutero, William Blake, fino a Walt Whitman e Woody Guthrie.

Questo mese ci soffermeremo su un aspetto più prosaico: la dotazione necessaria per creare un blog e per mantenerlo in vita. Si tratta, in primo luogo, dell’infrastruttura personale del blogger, dal computer all’accesso a Internet, dal software antispam al server che svolge funzione di host. Cercheremo anche di fornire una guida astratta allo shopping per tutti coloro che vogliono lanciarsi nell’esperienza del blog e una panoramica sulle difficoltà tecniche che comporta il fatto  di essere un blogger. Questa forma di scrittura, infatti, si scontra con alcuni limiti, alcuni dei quali talmente seri da non poter essere sottovalutati.

Alla base di ogni blog, si collocano due componenti chiave:un computer (che sia un desktop, un laptop o un palm) e un accesso a Internet. Dopo vengono le diverse applicazioni per il blog: negli Stati Uniti abbiamo servizi come Blogger e Wordpress, ma anche Moveable Type, Cargo, Tumblr, Typepad, Posterous ecc.

È importante sottolineare che quasi tutti i servizi di blogging sono gratuiti e che un blog può essere attivato in poco più di una mezz’ora. A questo punto, potete chiudere la rivista e iniziare con il vostro blog, e la cosa vi costerà molto meno di quanto avete speso per leggere questo articolo.
Ma ci sono anche altri costi, che sfuggono a una prima osservazione, e alcuni inconvenienti. Senza accesso a Internet è impossibile bloggare. Ciò può avere l’effetto paradossale di rendere difficili gli spostamenti. Il blog promette un’infinita mobilità – una pubblicazione senza limiti, non basata su uno specifico indirizzo – ma se l’hotel in cui alloggiate, il treno su cui viaggiate, l’aeroporto in cui sostate o l’amico che vi ospita non sono coperti dal WiFi, siete nei guai. È poi necessario predisporre un back up dei propri contenuti. Utilizzare un servizio gratuito significa spesso collocare i propri scritti – anni e anni di lavoro – su server collocati non si sa dove, in un remoto deposito posseduto da Google.
Mettiamola in un altro modo: esistono ancora un certo numero di problematiche irrisolte riguardo il mantenimento degli archivi personali nell’era dell’informazione digitale.
Il blogger prudente, quindi, non mancherà di conservare in un luogo sicuro le copie del suo lavoro.

Per bloggare è anche necessario l’accesso a un computer. Non è obbligatorio avere un proprio computer. Dopotutto, si può usare quello di qualcun’altro o andare in un Internet cafè (uno spazio sociale sempre più difficile da reperire nelle città statunitensi).
Detto ciò, in ogni modo si ha bisogno di un computer.
Per quanto mi riguarda, già prima della diffusione dei blog avevo una particolare attrazione per la scrittura a causa della sua “portabilità”, in quanto era qualcosa che potevo fare pressoché dappertutto e a basso costo. Molti miei amici avvertivano la necessità di portarsi sempre dietro la chitarra acustica o la macchina fotografica (con tanto di costose pellicole e lenti). A me, invece, bastava una biro e qualche foglio bianco.

Una o due tazze di caffè ed ero pronto a muovermi. Il blogging sconta un notevole cambiamento rispetto a quel tipo di situazione, dal momento che necessita di un apparato infrastrutturale decisamente superiore a quello a cui gli occasionali scrittori del passato avrebbero potuto pensare, per non parlare del maggior tempo da trascorrere davanti allo schermo e in luoghi chiusi.
Detto ciò, è necessario precisare che esistono vari strumenti che possono risultare utili a ogni aspirante blogger. Twitter è più che uno strumento per informare in tempo reale su che cosa state mangiando a pranzo. Può rappresentare un fantastico e straordinariamente veloce mezzo per condividere link e dare inizio a discussioni. Si può utilizzare deliciuous.com per salvare link rendendoli disponibili per reti di amici o colleghi; si possono salvare immagini su flickr.com e reindirizzarle in maniera semplice al proprio blog; si può co-postare su Facebook ecc. Quando questo articolo sarà vecchio solo di qualche mese – lasciamo perdere gli anni – molte delle cose dette potranno sembrare terribilmente datate. Ma questa è la natura del blogging, dove qualsiasi cosa scritta più di due anni fa è antica come i Rotoli del Mar Morto. L’ultimo punto da sottolineare riguarda il fatto che il blogging dipende da infrastrutture digitali, dai computer agli accessi a Internet, fino alle reti globali di satelliti e cavi sottomarini che rendono la vita online possibile. Tali reti tecnologiche, di cui sorprende la densità, dal punto di vista storico non rappresentano certo una novità; l’innegabile dipendenza del blogging da sistemi industriali decisamente più grandi di esso non deve rappresentare un moto di critica verso l’essenza della scrittura online. In fin dei conti, anche la biro e la Moleskine implicavano l’esistenza di fabbriche di materie plastiche, di industrie chimiche che producono l’inchiostro, di cartiere, di trasporti, di accordi per l’import-export, di carburanti per aerei a prezzi calmierati e molto altro.

Si tratta di un’elencazione che coincide con quella che consideriamo modernità. Evidenziare il labirinto di oggetti che si cela dietro la scena del blogging è fondamentale in quanto permette di divenire consapevoli di come esso possa essere utilizzato non solo per l’e-commerce, la guerra informatica e il downloading del porno, ma anche per condividere idee, per ospitare conversazioni, per diffondere presso una platea più ampia di quella del circuito degli amici stretti i propri pensieri, le proprie letture, i propri punti di vista. Il blogging rappresenta un’opportunità senza precedenti per diventare qualcosa di più di un consumatore di riviste o di opinioni altrui.
Offre la possibilità di partecipare alla produzione del settore culturale a un livello inimmaginabile solo una generazione fa.
Un individuo, non specializzato nel tema intorno a cui costruisce il suo blog, in pochi anni può assurgere al rango di quasi-esperto.

Dare vita a un blog, quindi, può rappresentare un investimento sul futuro più redditizio dell’impegno nella stesura di una tesi di dottorato (che per molti miei colleghi negli Stati Uniti ha rappresentato un binario morto).
Come avevamo visto nel precedente articolo, la flessibilità dei punti di riferimento – e la libertà dai vincoli disciplinari – rende il blogging una forma potente in grado di promuovere una profonda revisione delle regole del gioco.
A perdere il loro status di custodi del tempio intellettuali sono non solo i redattori di riviste e libri, ma anche le università, i think tank, le aziende di consulenza ecc. Se la possibilità di rivoltare il mondo della cultura richiede l’apprendimento dei rudimenti dell’HTML e la connessione alla banda larga, allora si tratta di un prezzo da pagare assurdamente basso.

21 gennaio 2011
Intersezioni ---> MONDOBLOG
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Note:
1 Giuseppe Granieri, Blog generation, Laterza, Roma-Bari, 2005, pp. 25-26.
* Pubblicazione autorizzata da Abitare
Geoff Manaugh, Blogging 101 - Equipaggio, Abitare n. 508, dicembre 2010, pp. 151-153

Equipment | Blogging 101 | Geoff Manaugh


In the opening installment of this series, we looked at what it means to blog about architecture and the built environment – about the spaces human beings inhabit and construct for themselves. We put blogging not in the context of architectural theory, however, where it doesn’t belong, but in a long history of writing and self-publishing – a visionary legacy that includes figures from Martin Luther and William Blake to Walt Whitman and Woody Guthrie.
This month, we will instead look at something much more mundane: the equipment needed to start and maintain a blog.


This is thus the personal infrastructure of blogging, from a computer to Internet access, from spam-blocking software to an online host. This is both an abstract shopping guide for anyone who wants to start a blog and a broad look at the technical shortcomings of being a blogger. After all, there are many limitations to this form of writing, some of which are quite serious and should not be overlooked

At the very beginning of any blog, then, are two key things: a computer of some sort –desktop, laptop, handheld – and Internet access. After those come blogging applications of any sort: popular services in the United States include Blogger and Wordpress, but also Moveable Type, Cargo, Tumblr, Typepad, Posterous, and so on.
It’s important to emphasize that almost all blogging services are free, and a blog often takes no more than 30 minutes to set-up.
You could thus put this magazine down right now and start your own blog, for infinitely less money than you paid to read this article.
But there are hidden costs – and many inconveniences. Without Internet access, you literally cannot blog at all. This can have the ironic effect of making travel quite difficult.
Blogs might promise infinite mobility – a publication without bounds, based at no particular address – but if your hotel, train, airport, or even friend’s apartment doesn’t have WiFi, you’re left in a bit of a hole. You also need to back-up your content; using a free service often means that you are hosting all of your writing – years and years of work – on servers based somewhere far away in a warehouse owned by Google.
Put another way: there are still many unsolved questions about what it means to maintain a personal archive in an era of digital information, and the cautious blogger would do well to hold on to copies of his or her work.

Further, to blog you need access to a computer. You don’t necessarily need to own a computer – after all, you can use someone else’s or go to an Internet café (a social space increasingly difficult to find in U.S. cities), but you need a computer nonetheless.
For my own part, before blogging existed, I was attracted to the very idea of writing precisely because of its portability: it was something I could do almost anywhere, and incredibly cheaply. Many of my best friends needed to haul acoustic guitars around with them or pack expensive cameras – and film and extra lenses – but all I needed was a Biro and some blank paper.
Throw in a cup of coffee or two and I was good to go. Blogging is a very noticeable change from that circumstance, requiring far more infrastructure than many casual writers would once have dreamed – not to mention more time sitting in front of a screen, and more time staying indoors.

Beyond this, though, are many subsidiary tools that will also prove useful to any aspiring blogger. Twitter is more than just an ongoing report of what you ate for lunch; it is a fantastic, and extraordinarily fast, way to share links and start discussions. You can use delicious.com to save links in public, amongst networks of friends or colleagues; you can save images on flickr.com for easy reposting on your own blog; you can co-post things on Facebook etc. etc.
By the time this article is only a few months old – let alone years – much of this will sound embarrassingly dated.
But thus is the nature of blogging, where anything written more than two years ago is as ancient as the Dead Sea Scrolls.
The important points to end with are that blogging requires digital infrastructure, from computers and Internet access to the globe-spanning networks of satellites and undersea cables that make all of online life possible. These technical constellations are stunning in their density, but they are not, as such, historically new; blogging’s undeniable dependence on industrial systems far larger than it should not be held against the very idea of writing online.
After all, Biros and Moleskine notebooks also required plastics factories, complex ink chemistries, paper mills, logging machinery, international import/export agreements, subsidized jet fuel, and much more. Such a list would, in fact, be coextensive with everything we now consider modernity.
What is more interesting about noticing the labyrinth of objects that lurk behind the scenes of blogging is how these can be used not for e-commerce or for Internet warfare or for downloading porn, but for spreading ideas, hosting conversations, and telling more people than just your closest circle of friends about the things you are thinking, reading, viewing, and more. Blogging represents an historically unprecedented opportunity to become more than just a consumer of other people’s opinions and reviews; you can participate in the production of the cultural sector to a degree that would have seemed unimaginable less than a generation ago.

One person, untrained in their chosen topic of blogging, can rise to a position of near-expertise in mere years; to start a blog can often be, I would argue, a better investment in your own future than to start writing a thesis in a Ph.D. program (the latter option being something of a tragic dead-end for many of my colleagues in the United States today). As we saw in the previous article, the flexibility of reference – and the freedom from disciplinary constraints – makes blogging an extraordinarily powerful form of disruption.
It is not just magazines and book publishers who have lost their status as intellectual gatekeepers, it is universities, thinktanks, consulting firms, and more. If turning the entire cultural world upside-down requires you to learn some very basic HTML and to remain tethered to broadband access, it seems like an absurdly small price to pay.

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* Publication authorized by Abitare

Geoff Manaugh, Blogging 101 - Equipment, Abitare n. 508, december 2010, pp. 151-153

17 gennaio 2011

0013 [A-B USO] La città latente di Federico Zanfi

di Salvatore D'Agostino

«AB: nella sua accezione latina: "indica il luogo o la persona da cui si proviene o ci si allontana o ci si differenzia".
USO: Usare, utilizzare, impiegare, adoperare e così via.

A-B USO indaga l'utilizzo di A che si trasforma in B

Delle sfaccettature di A che si trasforma in B ne ho parlato con Federico Zanfi autore del libro 'Città latenti'. Una riflessione laica sull’edilizia spontanea per ripensare le città sfrangiate.

Quest'intervista va integrata con le note di descrizione di alcune città curate da diversi fotografi: Salvatore Gozzo | Comiso, Claudio Sabatino | Sarno, Stefano Graziani | Marina di Acate e Alessandro Lanzetta | Ardea

   Salvatore D'Agostino «Improvvisi ed eccezionali accadimenti hanno scosso il paese tra il luglio e novembre: la frana di Agrigento, l’allagamento di Firenze e Venezia, le frane e le alluvioni nell'alto e basso Veneto.
Alla radice di ognuno di essi sta, per certo, il cattivo uso del suolo, sotto forma sia di continuo ed insensato disfacimento di antichi equilibrati ecosistemi naturali, sia di violento e pervicace sfruttamento intensivo del suolo a scopi edificatori». 1
Questo è l’inizio dell’editoriale dell'urbanista Giovanni Astengo scritto per la rivista Urbanistica numero 48 nel dicembre 1966.

La copertina di quel numero non offriva scappatoie ideologiche. Era listata a lutto. Celebrava la morte del territorio italiano.



   Federico Zanfi È evidente che tutti quei temi sono ancora più che attuali. La frana di Agrigento è stata forse la prima, sicuramente la più nota, vicenda in cui una porzione di territorio carente di manutenzione e fragilizzata da uno sfruttamento edilizio eccessivo, cede. Negli ultimi decenni la cronaca del Mezzogiorno è stata segnata da troppe vicende simili per poterle ormai contare, Giampilieri resterà solo per poco tempo l'ultima di questa serie. In realtà questi fenomeni si danno in tutto il paese, le statistiche riportano dati impressionanti sul numero di eventi franosi che ogni anno si registrano in Italia e sulla quantità di territorio danneggiato da questi fenomeni. Le frane si danno al Nord come al Sud per una diffusa incuria verso il suolo, ma nel Mezzogiorno questi eventi intercettano un altro fatto, legato all'argomento di questa conversazione. Si trasformano in tragedia, più spesso che altrove, perché le colate di fango travolgono case che non dovrebbero stare dove sono, come a Sarno. L'abusivismo in questo senso non è la causa del dissesto, o comunque ne è una concausa, ma fà si che il dissesto diventi più probabilmente una tragedia. Questi eventi funzionano come delle spie, per qualche giorno portano in televisione e in prima pagina sui giornali un paesaggio in cui l'abusivismo edilizio è stata la la modalità esclusiva o comunque una delle modalità prevalenti di costruzione del territorio, ma che nel dibattito pubblico non è mai stato molto rappresentato. Il dibattito più recente lo si è giocato su Punta Perotti e su poche decine di ecomostri che hanno avuto una sovraesposizione mediatica impressionante, e che hanno distolto l'attenzione dal vero problema. Intendo dire il vero problema dal punto di vista quantitativo. Quando avviene una tragedia come a Sarno o a Giampilieri si apre invece una finestra di attenzione su di un paesaggio fragile, a rischio e intensamente abitato - gli ecomostri invece sempre sono tutti vuoti - che però si richiude poco dopo. Ce ne si dimentica. E invece dovrebbe iniziare proprio da queste finestre su questo paesaggio critico la ricostruzione di una immagine aggiornata dell'abusivismo edilizio nel nostro paese.

   Apriamo le finestre sul nostro territorio e osserviamo ciò che avviene dietro la semplificazione delle parole 'ecomostro' e 'abusivismo'. Perché un vasto ceto di italiani preferisce aggirare la legge e costruire illegalmente? 

   Io credo si possa dire che la battaglia mediatica contro gli ecomostri, condotta dalle associazioni ambientaliste, abbia avuto un effetto positivo e uno negativo. Da un lato ha sensibilizzato vasti strati dell'opinione pubblica verso la questione del paesaggio come bene comune. Pensa, ad esempio, a Bari e alle migliaia di persone che erano sul lungomare per assistere e partecipare alla demolizione dei fabbricati Matarrese a Punta Perotti. Dall'altro lato ha favorito un malinteso, ha portato a pensare che il problema fosse quello, cioè poche decine di grandi edifici mai finiti, tutti vuoti, in paesaggi bellissimi, che certamente sono uno scempio, ma sono un'inezia se confrontati con la questione ambientale e sociale che è posta da milioni di alloggi extranorma che fanno il tessuto abitato comune di buona parte del Mezzogiorno (c'è un libro recente di Paolo Berdini2 che tenta di ricostruire delle stime, peraltro mai ufficialmente fornite dal Ministero dei Lavori Pubblici, sulla quantità di alloggi complessivamente sanata attraverso i condoni, che sono inquietanti). Dietro all'immagine bidimensionale dell'ecomostro c'è nei fatti un paese che si trasforma diffusamente e in modo anomalo, e spesso produce delle situazioni precarie e a rischio, come quella città impressionante che si vede sulle pendici del Vesuvio. Città di cui ci accorgiamo solo quando capitano fatti come a Sarno o Giampilieri.
Ora, perché si costruisce così. L'abusivismo è stata una prassi consolidata negli ultimi decenni perché è stato sempre conveniente, e perché c'è stata un'implicita politica che lo ha consentito. L'abusivismo conviene ad uno stato inefficiente, che non predispone i piani di edilizia economica e popolare tempestivamente, e lascia sfogare in quei processi di autopromozione/autocostruzione delle tensioni che altrimenti si ritroverebbe magari organizzate, in piazza. L'abusivismo conviene ad una politica locale clientelare, che consente e implicitamente controlla e ricatta. L'abusivismo conviene alla famiglia media italiana, alla famiglia-impresa, perché risparmia sui costi, perché fa la casa incrementalmente, quando ha le risorse, dove vuole e come vuole. Ci sono tante letture lucidissime su tutto questo, già dagli anni settanta, non credo serva ripetere queste cose. Il fatto è che adesso tutte queste convenienze cominciano a non essere più tali. Primo, tra stato e Regioni i ruoli, in merito al governo del territorio, sono parecchio cambiati con la riforma del titolo V della Costituzione, e te ne puoi accorgere se pensi ai contrasti fortissimi che ci sono stati tra molti governatori regionali e il ministro dell'economia in occasione dell'ultimo condono. Secondo, i Comuni non riescono a riqualificare le zone abusive, non hanno soldi, e queste zone restano veramente poverissime di infrastrutture e servizi ancora a 20/30 anni dalla loro nascita. Terzo, le famiglie sono cambiate, oggi quella casa di famiglia abusiva, da completare, per un ragazzo con qualche ambizione e una cultura contemporanea è una risorsa o una condanna regressiva? Tutte queste cosa intrecciate stanno cambiando le convenienze a tutti i livelli, e io credo che lo scenario presto sarà diverso.

   Costruire edifici extra norma in Italia non è un ‘fenomeno’ circostanziato. Qualsiasi città ha delle dinamiche latenti.
Dinamiche che non possono essere più osservate con le categorie critiche e i parametri urbanistici vigenti.
Tu auspichi uno sguardo laico per non perseverare con gli interventi generici – spesso nefasti - dettati dall’emergenza o dai condoni.
«La costruzione scriteriata senza rispettare la natura – dice Pietro De Paola presidente del Consiglio dell’Ordine dei geologi - ha dissestato il territorio rendendolo fragile e pericoloso. In realtà, si guarda spesso ai grandi centri urbani, ma è nei piccoli che si verificano gli scempi peggiori. Se si gira per i Comuni con meno abitanti non si ravvede una parvenza di pianificazione, e spesso vengono ignorate le mappature delle aree a rischio. Tutto questo ha reso difficile se non impossibile la gestione delle zone di pericolo, che si sono moltiplicate sul territorio».
3

   Osservare laicamente significa analizzare la complessità delle città, evitando le categorie delle analisi precostituite.
Poiché, come affermi, «se riflettiamo su come questa città costituisca probabilmente il più vasto progetto collettivo mai realizzato nel nostro paese, un luogo del quale, la scarsità dei riferimenti disciplinari lo sottolinea, conosciamo piuttosto poco. Un habitat democratico dalla cui costruzione l’architettura e l’urbanistica sono state progressivamente emarginate – smentite nelle loro previsioni – e che oggi continua inspiegabilmente a non ricevere la loro attenzione»
.4
 
   Quali criteri suggerisci per analizzare e intervenire in questi tessuti collettivi condivisi e costruiti – per paradosso - democraticamente?

   Si possono dire due cose, una su come si guarda, e una come si interviene.
 
La prima è che lo sguardo attraverso cui si è osservata la città abusiva, e questo vale soprattutto per gli urbanisti, è sempre stato condizionato da alcuni pregiudizi che hanno impedito di vedere le cose per quelle che erano. Le lenti dell'illegalità e della speculazione attraverso cui si è sempre guardato hanno in un certo senso schiacciato le differenze, impedendo poi ai progetti di fare presa sui contesti locali. Oggi per tornare a guardare questi luoghi dobbiamo invece cercare di fare emergere le differenze, perché edifici abbastanza simili hanno originato tessuti molto diversi a seconda della condizione insediativa. Litorali e campagne urbanizzate, quartieri urbani, insediamenti di fondovalle, sono connotati da problemi specifici in cui le opportunità di ripensamento sono strettamente legate a queste differenze locali, a queste risorse latenti che un certo suolo, un certo ecosistema, una certa condizione insediativa possono consentire. Voglio essere chiaro, questo tipo di sguardo non è assolutorio, il giudizio verso queste forme di urbanizzazione rapaci deve comunque restare durissimo, ma le cose vanno guardate per quello che sono da vicino, senza tesi pregiudiziali da dimostrare a ogni costo. Solo così possiamo accorgerci di quei 'dettagli' locali che sono una risorsa, su cui fare leva per un progetto di trasformazione realistico.

La seconda cosa è che per essere efficaci in questi contesti è necessario riattivare una nuova forma di mobilitazione individualistica, che sia esplicita e virtuosa. Questo potrà anche sembrare eretico, ma noi possiamo disegnare tutte le migliori ipotesi di intervento, ma se non riusciamo a mobilitare una massa critica di famiglie che in quelle case sempre più invendibili hanno immobilizzato parti consistenti dei loro risparmi, il nostro progetto resterà marginale. In questo senso un progetto per l'abusivismo oggi deve trovare il modo per svolgersi dentro ad alcune delle dinamiche e dei processi di trasformazione che in qualche misura già si danno nei territori, e che possiamo riconoscere come linee strategiche, da inseguire e indirizzare. Città latenti cerca di sintetizzare tre solchi di lavoro, che stanno a ridosso dei processi emergenti di responsabilizzazione, di aggiustamento infrastrutturale spontaneo, e di sottoutilizzo e abbandono che si danno oggi nella città abusiva. Diventa cruciale riuscire a interpretare queste tendenze in strategie di progetto, se vuoi anche 'forzando' un pò la realtà, e trovare delle leve e delle forme di incentivo che facciano muovere i soggetti che oggi abitano questa città verso degli obiettivi condivisi e sostenibili dal punto ambientale e finanziario.

Serve superare tre equivoci di base:
1. qualsiasi condono su scala nazionale lascia irrisolto il rapporto tra lo spazio civico - considerato non-città - e i suoi abitanti;
2. gli spazi abusivi – etichettati come anti-città – hanno un’identità urbana;
3. i brani di città abusiva non sono città fantasma.


   Sono tre questioni complicate, a cui provo a a risponderti per punti, forse semplificando.
 
1. Il Condono, per come lo si è attuato fino ad ora, alla scala nazionale, lascia irrisolto il problema di quello che tu chiami 'spazio civico' della città abusiva sotto due aspetti.
In primo luogo, dal momento in cui il singolo proprietario abusivo aderisce alla procedura di sanatoria, quel soggetto ha tutte le ragioni per reclamare le infrastrutture, e per ritenere che la responsabilità dello spazio al di fuori del suo recinto privato non sia sua, ma sia del soggetto pubblico che ha predisposto il meccanismo del Condono. Soggetto che dovrebbe intervenire a riqualificare quelle terre di nessuno attraverso un Piano di Recupero. È un procedimento che deresponsabilizza il singolo, che lo disincentiva alla cura verso quello spazio esterno, che lascia la questione dello spazio residuo tra i recinti al di fuori della sua responsabilità.
In secondo luogo, ed è la questione più nota ed evidente, il Condono lascia irrisolta in modo permanente la questione del recupero urbanistico perché non ci sono le risorse per affrontarlo secondo le modalità previste dalla legge. Le risorse non ci sono mai state a dire il vero: si registra un disavanzo enorme tra il gettito della sanatoria e le spese di urbanizzazione effettuate a posteriori sin dal primo condono, nella seconda metà degli anni Ottanta. Il Condono è un affare solo per il Governo che lo promuove, ma l'attuazione dei Piani di Recupero Urbanistico, a spese degli Enti Locali (che incassano dai proventi del condono solo la parte degli Oneri di Urbanizzazione non corrisposti al momento dell'edificazione abusiva), si traduce in un esborso insostenibile. Fare le infrastrutture (quelle infrastrutture tradizionali, reticolari e rigide) dentro ad una città che non solo c'è già, ma che spesso è cresciuta in modo disordinato, è un'impresa inaffrontabile per la maggior parte dei Comuni, non solo nel Mezzogiorno. Il risultato è che il recupero non si fa, o si fa in quote modestissime, per cui a distanza di decenni questi luoghi scontano una povertà impressionante del loro spazio aperto.

2 e 3. La mia opinione su questo punto è che in queste parti di città ancora risiedano energie non ancora esaurite, e qualità non ancora cancellate. I loro processi generativi molecolari e incompiuti, poi, sono una risorsa e una specificità che distingue questo tipo di urbanizzazione dal suburbio più "generico" che ha dilagato negli ultimi decenni in tutto il mondo occidentale. Ci sono insomma delle possibilità, se uno le sa vedere, delle risorse da riattivare, che oggi sono latenti. Questa non vuole essere in nessun modo una lettura assolutoria o indulgente verso l'abusivismo, sia chiaro. È una lettura che contiene un progetto, che assume quelle case e quei territori come luoghi dove risiedono delle possibilità, da mettere alla prova con un progetto. È anche una risposta a quelle posizioni, che io ritengo troppo semplicistiche, che liquidano la città abusiva come una forma degenere, da cancellare ovunque.
Pensa che 'città fantasma' è il titolo che l'editore in prima battuta mi aveva proposto. Ma non ci eravamo capiti, il libro vuole proprio fare capire che non c'è nessun fantasma, non c'è più nulla di invisibile: questi luoghi sono l'orizzonte quotidiano dei nostri paesaggi. Qual è la quota dalla città meridionale che si è costruita attraverso l'abusivismo? Possiamo dire che sia un fantasma, o che sia invisibile? Diciamo piuttosto che ci sono delle situazioni locali molto specifiche, che vanno guardate, interpretate e progettate per quello che sono, senza pregiudizi né etichette generali. Fantasmi potranno diventare se non si fa nulla, se si lascia che le energie svaniscano e che questi paesaggi seguano una deriva verso una progressiva marginalizzazione. Come già molte storie e molti luoghi ci raccontano, alcune storie anche raccolte nel libro.

Nel libro suggerisci tre linee guide per la progettazione delle città latenti. Quali sono?
 
Se a livello di cultura disciplinare e cultura amministrativa riusciremo a superare i tre equivoci di cui abbiamo parlato, allora potremo pensare ad un diverso progetto e a una diversa politica pubblica per la città abusiva. Città latenti si sforza di definire tre tracce di lavoro, che si possono intendere come le tre strategie di una possibile e rinnovata politica per queste forme di città. Sono tre discorsi progettuali, che stanno a ridosso di tre tendenze già rintracciabili nelle pratiche, e che intendono intensificare queste predisposizioni. Intendono utilizzare le energie disponibili e gli andamenti già spontaneamente assunti dai territori come risorse da indirizzare verso esiti condivisi e sostenibili.

La prima visione progettuale è quella di una città abusiva che diventa città, anche e soprattutto nell'immaginario collettivo, grazie ad una responsabilizzazione progressiva di chi la abita e ad una rigenerazione dei propri beni comuni che non passa più attraverso un meccanismo paternalistico e difettoso come il Condono, ma attraverso dei programmi di riqualificazione partecipati. È già una tendenza che si riscontra dove la percezione del fallimento dell'azione individuale da parte degli abitanti sta facendo maturare un senso di responsabilità e alcune azioni comuni tese alla costruzione di una dimensione collettiva che non è mai esistita, ma che oggi è più che necessaria. L'esperienza dei Consorzi di Autorecupero e dei Toponimi avviata dal Comune di Roma è un buon esempio in tal senso.

La seconda visione riguarda una città abusiva che si aggiusta molecolarmente, che si migliora grazie ad un sistema diffuso di componentistica tecnologica e ambientale che si attua sugli edifici ma soprattutto nello spazio vuoto tra le case, lo spazio più abbandonato e trascurato. Una nuova generazione di infrastrutture, di promozione privata e consortile, che recupera il deficit infrastrutturale che questi territori scontano abbandonando un'insostenibile idea di rete pubblica, rigida e capillare, che raggiunge ogni casa, e mettendo al lavoro nuovi dispositivi ecologici ed energetici. Una strategia, in estrema sintesi, che considera una città in cui ci sono le case, ma non le reti tecnologiche e sanitarie, come un potenziale laboratorio per la sperimentazione di infrastrutture non pubbliche, non gerarchiche, non rigide, a valle dei fallimenti delle stagioni del "Recupero urbanistico" dei decenni passati. Tutto questo ha bisogno di un consapevole inquadramento istituzionale e di una politica di incentivi a livello locale, come il Salento ha tentato di fare col suo PTCP.

Infine, l'ultima visione è quella di una città abusiva che si dissolve nel paesaggio, che viene cancellata nei suoi segmenti più squalificati e sottoutilizzati grazie ad un sistema che articola nuove tecniche e incentivi, approfittando dei processi di dismissione che iniziano a manifestarsi diffusamente. Si tratta di saper cogliere l'occasione che offrono questi processi di abbandono e indirizzarli progettualmente, consapevoli che la rimozione di questa città non potrà avvenire mostrando i muscoli come le rare, spesso fallimentari demolizioni hanno tentato di fare, ma piuttosto interpretando come i diritti acquisiti - quando queste case sono già condonate ed è un caso frequente - possano essere fatti migrare, spostati verso zone di concentrazione e di riqualificazione, liberando dall'edificato più incongruo, abbandonato e scaduto porzioni di suolo da riconsegnare alla natura e ai suoi processi.

Sono tre visioni consapevolmente semplificate, che cercano di puntualizzare e distinguere, anche se sul territorio spesso i processi si danno intrecciati, in compresenza. In tal senso io credo che non sia pensabile di agire solo su un aspetto dei tre che ho elencato: una politica efficace - che io mi immagino costruita a livello regionale e provinciale, poiché il livello nazionale e il livello municipale sono rispettivamente troppo lontani e troppo vicini per potere trattare i caratteri specifici queste formazioni di carattere sovracomunale - dovrà includerli tutti e tre, e cercare di rispondere attraverso una combinazione di queste tre traiettorie di trasformazione al bisogno di progetto che la città abusiva oggi esprime.
 

17 gennaio 2011 (Ultima modifica 28 ottobre 2013)
Intersezioni ---> A-B USO

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Note:
1 Giovanni Astengo, dopo il 19 luglio, Urbanistica n. 48, dicembre 1966
2 Paolo Berdini, Breve storia dell'abuso edilizio in Italia, Donzelli, 2010 Link
3 Daniele Autieri, Geologi, professionisti in trincea per far fronte a un paese dissestato, La Repubblica, 11 ottobre 2010 Link

4 Federico Zanfi, Città latenti, Bruno Mondadori, Milano, 2008, p. 67

0012 [A-B USO] Salvatore Gozzo | Comiso

Comiso (Ragusa) offre una situazione urbanistica comune a molte città medie dell’entroterra siciliano. 
Un Programma di Fabbricazione (1971) è stato per oltre tre decenni l’unico strumento urbanistico, scontando difficoltà nel governo dell’espansione urbana per un fisiologico invecchiamento e per un’intrinseca rigidezza. La pianura a Nord del centro consolidato otto-novecentesco è stata l’unica possibile direzione di crescita per la città, contenuta a Est e a Ovest dal fiume Ippari e dal costone dei monti Iblei. Lungo questa direttrice le previsioni edificatorie del P.D.F. si sono precocemente esaurite – Comiso presenta un trend demografico debolmente positivo e mai interrotto dal 1951 – e la nuova edificazione negli anni ‘70 e ‘80 si è sviluppata in modo abusivo, perdendo compattezza e disperdendosi nella campagna.