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22 luglio 2014

12 luglio 1981 | Philip K. Dick c'è una sola via d'uscita: vedere tutto come qualcosa di fondamentalmente comico

di Salvatore D’Agostino
Nelle ristampe di Lolita, Vladimir Nabokov, aggiunse una nota alla fine del romanzo, per rintuzzare le veemenze dei critici più corrosivi scrivendo "«realtà» (una delle poche parole che non hanno alcun senso senza virgolette)"1 e ad un’incalzante Alberto Arbasino che, in veste d’intervistatore, chiedeva: “Ma insomma, cos’è Lolita, in realtà?” rispondeva "Che domande… che domande… inutili… Sarebbe meglio rilassarsi, di fronte a quel libro che è soltanto una storia, e non cercarvi un “messaggio” che non c’è… La morale del libro è il libro stesso. Volete spiegarvi la sua morale? Leggetelo!".2

Leggendo i libri di Philip K. Dick serve ricordarsi dei consigli di Nabokov, bisogna mettere tra parentesi la parola ‘realtà’ ed evitare di cercare una ‘morale’.

Philip K. Dick rappresenta un'idea di letteratura fondata sulla moltiplicazione dei diversi piani di realtà. Estraneo all'insegnamento morale, Dick smantella con gioiosa iconoclastia i luoghi comuni e le convenzioni letterarie della letteratura borghese, fondata sul ‘messaggio del romanzo’. Costruisce trame dove il tempo è spesso fuori dai cardini, dove la realtà è ‘sempre una bolla di sapone’, dove l’uomo non è mai un eroe di una elitè galattica ma vive una costante difficoltà ad adattarsi al mondo:
«Se volete adattarvi alla realtà, leggete Philip Roth, leggete gli scrittori di best-seller, - scrive in questo testo che vi ripropongo - quelli dell'establishment letterario di New York. Ma adesso state leggendo fantascienza, e io la scrivo per voi. Voglio mostrarvi quello che amo (i miei amici) e quello che odio con tutte le mie forze (le cose che succedono loro).»
Per Philip K. Dick la fantascienza è un romanzo di idee che decostruisce il tempo, lo spazio e la realtà. La fantascienza non è mimetica del mondo reale, è un’idea di dinamismo.

Ripropongo uno scritto apparso sulla collana Urania, a quel tempo diretta da Fruttero & Lucentini nel numero 896 del 12 luglio 1981, qualche mese prima che Philip K. Dick morisse a causa di un collasso cardiaco il 2 marzo 1982. Scritto appena prima di iniziare la querelle con Ridley Scott e il suo rifiuto di 400 mila dollari per non voler adattare il suo romanzo Do Androids Dream of Electric Sheep? alla sceneggiatura del film Blade Runner che uscirà nelle sale il 25 giugno 1982, tre mesi dopo la sua morte. Dirà a Ridley Scott, non ho bisogno di questi soldi - anche se avendo sempre vissuto in perpetua indigenza gli avrebbero cambiato la vita - ho la mia macchina da scrivere, la mia musica, il mio gatto, ho tutto e non ho bisogno di nient’altro.

In questo scritto su Urania, la più longeva rivista di urbanistica ancora attiva in Italia, ripercorre la sua vita, dove, con ironica previgente coincidenza, scrive l’epigrafe della sua lapide.

È un invito per gli urbanisti del nostro tempo che amano la pervasività della tecnologia o per chi pensa di guarire le città attraverso l’architettura a leggere Dick per domandarsi:

  • Che cos'è la realtà?
  • Che cosa caratterizza l'autentico essere umano?

Per aiutare il 'vandalismo responsabile' ed evitare di credere e progettare il viaggio sicuro delle gated community dove il messaggio implicito è: siate passivi. E soprattutto cercare di “scoprire il granello del comico all'interno dell'orribile e del futile”.

Buona lettura.



14 febbraio 2013

0024 [CITTA’] Fabrizio Gallanti | Recuperare il progetto dello spazio pubblico tra polis e urbs

di Fabrizio Gallanti

L’intenso processo di urbanizzazione che ha caratterizzato la modernità e che continua a essere alla base dello sviluppo mondiale attuale ha visto una sostanziale modifica degli attori coinvolti. Nel corso della storia dell’umanità, la forma concreta delle città è stata la conseguenza delle azioni delle comunità che le abitavano. A diverse organizzazioni della sovranità e delle forme di governo sono coincisi diversi tipi di urbanità. Per gli storici della città è sempre stato complesso costruire delle letture che potessero districare tra il peso dell’iniziativa spontanea individuale, l’azione di corpi strutturati quali le gerarchie religiose o le consorterie produttive, l’intenzione simbolica degli interventi dettati dai poteri di governo (l’Imperatore, il Re, il Comune, la Repubblica), le condizioni geografiche e climatiche, le preoccupazioni di efficienza e igiene pubblica, l’attenzione alle questioni di strategia militare, le tradizioni costruttive e artigianali. Lo sviluppo capitalista e l’espansione della rendita fondiaria hanno modificato lo scenario complessivo dello sviluppo urbano, accompagnato da un rafforzamento dello stato come regolatore principale del controllo sul territorio e sulle sue trasformazioni. In Europa e nelle colonie la crescita spontanea e auto-regolata delle città, è stata sostituita, già a partire del XVII secolo, da una gestione affidata a specialisti, inquadrati e diretti dalle strutture di governo (stati e municipi). Alla fine del XIX secolo l’apparizione di una nuova disciplina, l’urbanistica, sancisce definitivamente il fatto che la città diventa un progetto.

24 dicembre 2011

0022 [CITTA'] Vitaliano Trevisan | Tristissimi giardini

di Salvatore D'Agostino
«… Di ville! di villule!, di villoni ripieni, di villette isolate, di ville doppie, di case villerecce, di ville rustiche, di rustici ville, gli architetti pastrufaziani avevano ingioiellato, poco a poco un po’ tutti, i vaghissimi e placidi colli delle pendici prenadine, che, manco a dirlo ‘digradano dolcemente’: alle miti bacinelle dei loro laghi1».
Oggi, dopo quasi quarant'anni, le declinazioni delle ville costruite dagli architetti pastrufazi di Carlo Emilio Gadda formano, senza soluzione di continuità, il tessuto urbano che cinge le nostre città. Sappiamo anche che non sono state progettate solo dagli architetti ma trasversalemente da ingegneri, geometri o spesso sono state auto-costruite.
La casa con giardino è un sogno abitativo che non può essere racchiuso nell'epiteto gaddiano 'del pastrufazio' poiché ha cambiato sia l'assetto urbano che il senso dell'uso collettivo delle nostre città. La casa con giardino non è una villa e la sua serialità non forma una città. Poiché la prima implica una casa immersa nel giardino e la seconda un rapporto con la strada e gli spazi aperti della città. 
Vitaliano Trevisan, citando un libro di Simona Vinci, ci racconta del suo rapporto con questi spazi abitativi pieni di 'Tristissimi giardini'2. A seguire ho riportato un capitolo del suo libro, evidenziato in granata troverete una bella sintesi su come curare un giardino spontaneo.

Buon tutto e buon racconto di Natale. Ci rileggiamo il 9 gennaio per parlare di Domus cartacea e Web*.

4 ottobre 2011

0021 [CITTA'] Una città su misura per i disabili di seconda generazione

foto di Mario Ferrara

Caserta dal finestrino

I commercianti casertani, o una buona parte di loro o solo alcuni o i più forti o i più rappresentativi, riuniti in una associazione con un loro portavoce, hanno osservato verificato controllato e alla fine hanno decretato che dai finestrini delle macchine le vetrine si vedono meglio. Quindi, riuniti in una associazione con un loro portavoce, hanno detto al sindaco e a tutta l’amministrazione cittadina che la città andava aggiornata e adeguata a questa importante scoperta.

26 aprile 2011

0019 [CITTA'] Gli abitanti sono delle «pietre vive»

Pubblico un breve intervento del geografo Franco Farinelli (presto su WA approfondirò il suo pensiero) apparso nell'ultimo domenicale del Sole 24 Ore a pagina 27.

di Franco Farinelli 
-
NIENTE CONFINI MA SCATOLE CINESI

«Una città è una città»: così ancora mezzo secolo fa Ro­berto Lopez espri­meva la rinuncia degli storici al ten­tativo di una risposta onnicom­prensiva alla questione su che cosa una città fosse, perché il concetto di città muterebbe da tempo a tem­po e da paese a paese, mentre attra­verso le epoche e le culture non mu­terebbe affatto, o di poco, il grado di coscienza dell'esistenza della cit­tà da parte dei contemporanei. La base materiale di tale coscienza era costituita appunto dalla differenza-opposizione tra città e cam­pagna, visibilmente diverse dal punto di vista delle forme materia­li, oltre che della natura e della funzione. Ma che cosa succede se, come ai giorni nostri, ogni diffe­renza di questo tipo scompare o quasi? Se non soltanto il numero dei terrestri che vivono in città separa quello degli abitanti della campagna, ma tra quella e questa non si coglie quasi più nessuna di­versità funzionale? 

9 aprile 2010

0018 [CITTA'] La chiesa di Ludovico Quaroni a Gibellina




Quale valore ha la parola progetto, soprattutto ai giorni nostri?

Parlare di progetto, per un architetto, vuol dire analizzare una parola che dovrebbe essere una amica fidata, visto che, senza questa parola, il nostro lavoro perde quasi di significato. Anni avari, soprattutto quelli del tardo novecento, hanno preteso, al contrario, di dare tutte le colpe di una umanità inebriata dalla libertà, alla presunzione che traspare, alle volte, dalla parola progetto: come si può osare, in sostanza, ad ipotecare il futuro in maniera così totalizzante?

Di fronte alla conclusione dei lavori della fabbrica della Chiesa Madre di Gibellina, forse, questa domanda, spesso pretestuosa, potrebbe essere accantonata, se non per sempre, almeno per un attimo.
Il progetto, nella sua parte più emblematica, ha un debito verso le suggestioni di Étienne-Louis Boullee, e non crediamo che ci sia difficoltà a sottolinearlo. La cosa, però, che dovrebbe attrarre, soprattutto oggi, è il perentorio valore di paradigma che possiedono i solidi definibili come primari, come quello che si impone nel coprire l'area absidale della chiesa di Ludovico Quaroni e Luisa Anversa.
Un valore che concede il potere a queste soluzioni, si potrebbe dire, di essere modelli assoluti di oggetti che attestano la loro assoluta ed inequivocabile artificialità, la loro condizione non organica di forme, le quali esistono affermando una distinta vita (e durata) rispetto ad una naturalità che, al contrario, sconta il suo tempo suonando con un altro spartito.
Una naturalità o naturalezza che, molto spesso, oggi invade i tentativi dell'architettura contemporanea, ogni qual volta cerca un tasso di originalità, spesso fine a se stessa, tentando di mimare processi naturali e volutamente casuali.
Un allievo di Ludovico Quaroni - forse il migliore - come Antonio Quistelli, ebbe a dire di questo progetto, anni fa, delle parole abbastanza chiare.
«A Gibellina compare, ed è un elemento di memorabilità del progetto, una forma sferica anche se di breve raggio. E' incastrata nel gioco delle pareti e presta, come una antica forma absidale, i suoi valori all'interno e all'esterno. Ludovico Corrao mi raccontava che Ludovico Quaroni avrebbe voluto esaltarne le potenzialità, come parte dell'aula. Un pensiero nato in cantiere, immagino. Quaroni pensava la superficie barbaricamente decorata da schegge vitree, forse per raggiungere una piena smaterializzazione. All'esterno, la forma sferica, emergendo da un volume compatto, è il fuoco di una cavea che oppone il suo scavo al pieno del corpo in cui si organizza principalmente il luogo del culto. Un progetto in cui i ritmi e il tracciato regolatore riportano al quadrato, componendo in questa maniera, tra loro, elementi misurati su una dimensione intima, come il piccolo patio interno alla canonica. E' un progetto che (ed è la mia opinione) valorizza, animandolo con aggettivazioni cercate nell'impianto (come il rapporto cavea-fabbrica) un programma di costruzioni che escludeva, in partenza, ogni enfasi. E' così che Quaroni mette a frutto i germogli dello spazio di misura domestica, intima. Un dato che annulla ogni ricerca di possibili relazioni e di ispirazioni, al di là di ricorrenze formali che vengono spieg»ate sufficientemente dal fatto che, all'origine, l'immaginario dell'architetto è sostanzialmente uno». [2]
Le questioni di stretta rilevanza tecnica e compositiva, forse, potrebbero concludersi qui.



Non è questo, però, quello che ci preme sottolineare di q
uesto progetto. La conclusione gloriosa di questa fabbrica, infatti, ci spinge a proporre una riflessione sul progetto, che emancipi questo concetto rendendolo, così, del tutto indipendente dalle sole questioni estetiche e formali.
Walter Gropius sul progetto aveva le idee chiare. Il progetto, lui diceva, è uno strumento strategico dell'umanità, e quando è tale vale per il lungo termine. Se un progetto ha un valore, infatti, ci sarà sempre qualcuno che continuerà a tesserne le fila anche dopo la morte di chi lo ha preceduto. Chi siamo noi, infatti, e che senso ha la nostra ristretta vita biologica, tragicamente finita, senza il tempo che dovrà venire e senza le mete che in quel tempo si raggiungeranno, le tragedie che si consumeranno, le glorie e le miserie che ne colmeranno le giornate e gli anni? Probabilmente la nostra vita personale non è nulla senza la prospettiva di un tempo che ha alle spalle una eternità e davanti agli occhi l'infinito. Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi [3], senza conoscere Gropius e senza avere il tempo e la voglia di dedicarsi a questioni come l'estetica urbana, impegnati, come erano, nella dura resistenza quotidiana di fronte a chi li costrinse al confino, videro nel futuro l'Europa Unita. La videro osservando l'orizzonte da uno scoglio immerso nel Mare Tirreno. Com'è possibile vedere da Ventotene, lontani anni da un tempo che ancora adesso deve arrivare pienamente, ciò che oggi, al contrario, inizia a sembrare realtà, è un mistero solo per quelli che non credono al progetto come la prova esistenziale dell'umanità. Loro videro l'Europa Unita nel momento meno propizio, nel pieno delle sue divisioni, e affidarono questa profezia ad un manifesto, scritto mentre vivevano segregati nel bel mezzo del nulla. Il punto vero, allora, è uno solo: per cosa viviamo?
Viviamo soltanto per marcare con la nostra presenza contingente un istante del tempo, senza prenderci alcuna responsabilità eterna, e pensando solo a dei fatti e a delle questioni di stretta capacità temporale, in cui le convenienze e le sconvenienze si misurano nell'arco dei tempi biologici di una vita, oppure, diversamente, è necessario vivere come se il nostro destino di persone fosse legato al passato e al futuro: a quando non c'eravamo e a quando non ci saremo? Le responsabilità di chi vive un tempo, s'aprono e si chiudono in quel tempo, oppure ereditano anche le azioni anteriori e sono chiamate a organizzare, pure, quelle che trapassano la stretta biologia di una vita?
Conta di più la biologia personale o quella civile?

La parola progetto soddisfa ancora, dopotutto, chi vuole risposte plausibili a queste domande. In questo senso, la parte peggiore dell'essere meridionale nasce dalla razionalità con cui il passato, le esperienze, il futuro, sono vissute da chi vive a questa latitudine. Di chi vive in una terra che forse ha visto già tutto e quindi non è capace d'illudersi più di tanto. Ha visto i Greci tentare con la democrazia e la città, e ha appurato, in conclusione, com'è finita. Ha visto il sogno del Grande Svevo, che ha provato ad assumersi in maniera completa la responsabilità politica delle sue azioni e del suo ruolo di uomo, e ha assistito al tragico declino del suo sogno. Ha visto morire, su asfalti assolati, sindacalisti, rappresentanti delle forze dell'ordine, giornalisti, uomini e donne d'ordinaria attività, giudici saltati per aria insieme alla dignità che non fa piegare l'uomo nemmeno di fronte alla coscienza dell'inutilità, sul breve periodo, della vita.

Il Meridione, in qualche maniera, sembra un essere umano che ha già vissuto una volta e ha visto tutto. Sembra un essere umano che già sa, sin troppo bene, come va a finire ogni storia: sa che è del tutto inutile pensare ad una scala diversa dell'uomo per com'è. Questa parte peggiore dell'essere meridionale, però, è stranamente accompagnata dall'attesa di riprovarci, appena se ne presenta l'occasione: nonostante tutto. Ha già visto ogni cosa possibile, ma dal suo nascondiglio da dove scruta il mondo, dal metro quadro d'esistenza egoista dove vive e assiste alla natura umana, è sempre pronto a tentare nuovamente: basta l'occasione. Proprio quella giusta.

Cosa è rimasto, oggi, di questa propensione a sfidare il tempo in maniera alta e consapevole?
Fu Amintore Fanfani, di fronte alla vorace volontà di trasformazione che traspariva da vasti settori del nostro Paese, che negli anni sessanta aspiravano a qualche cosa di meglio di quello che oggi abbiamo, a definire una volontà, fatta da idee e progetti, come un “libro dei sogni”[4] , dando a questa definizione un valore del tutto negativo. Esistono sempre degli Amintore Fanfani nella vita di una comunità. Questi, però, non sanno che il progetto è sempre più forte e duraturo dei loro giudizi sbrigativi.

Ottimismo senza destino?
Se non vi basta il fatto, allora, che, a distanza di quaranta anni, nel cuore della Sicilia, un’idea di Chiesa si sia trasformata da pura aspirazione in realtà tattile e visiva, è meglio allora ricordare qualche altra cosa per far capire, sia agli architetti che a coloro che non lo sono, cosa voglia dire praticare il progetto, affidarsi al progetto, scegliere il progetto, come strategia di trasformazione dei luoghi e del pensare le cose. Tra i marinai italiani che si ritrovarono in balia delle onde dopo la battaglia di Capo Matapan, con dentro le orecchie ancora le cannonate inglesi, e circondati dagli squali che giravano intorno, pronti a decretare la fine di ogni respiro, ce ne fu uno che elaborò un veloce progetto da affidare alle onde. Prese una bottiglia, e dopo aver tirato fuori dal taschino bagnato una penna ancora utile, scrisse sulla carta del suo ultimo pacchetto di sigarette le sue ultime volontà: «chiunque trovi questo messaggio, faccia sapere a mia madre, che vive a Salerno in Via Puzzo 52, che sono morto e che non sono pentito di averlo fatto. Sono morto per servire il mio Paese».


A distanza di circa venti anni, a guerra abbondantemente finita, una giovane coppia, appartatasi su una spiaggia della Sardegna, trovò proprio questa bottiglia, e dopo aver letto il messaggio andò personalmente a Salerno a consegnarlo alla madre del marinaio. Quel progetto, messo a punto nel pieno di una tragedia da un giovane marinaio italiano, per realizzarsi ci aveva messo venti anni e parecchie miglia marine - Capo Matapan si trova nell'Egeo - ma chi crede nel progetto non si spaventa del tempo e delle distanze.

Siamo, quindi, esattamente quello che facciamo. Non conta, o conta poco, riuscire a sopravvivere o a concentrare sul poco tempo a disposizione gli sforzi per costruire una biografia personale. Povere ambizioni sono quelle strette tra una nascita e una morte, in cui il pensare alla salute é solo l'altra faccia della medaglia del pensare a soddisfare se stessi, le proprie voglie e aspirazioni. Cerchiamo una conclusione.
Il progetto di Ludovico Quaroni e di Luisa Anversa - la quale ha avuto la fortuna di vedere conclusa l'opera - ci ricorda quale siano le impervie strade e il tempo necessario per governare il passaggio di una idea di spazio architettonico attraverso le forche caudine che costellano i processi di realizzazione tridimensionale di un manufatto. Ci ricorda che solo all'interno delle logiche temporali e tecniche del progetto è possibile porsi degli obiettivi alti. Obiettivi che hanno, sostanzialmente, bisogno del tempo e di chi lo anima.

Agostino D'Ippona, per definire ed ancorare il singolo contributo di un essere umano o di una comunità all'interno del breve arco temporale di una vita, in rapporto al più ampio arco di tempo che normalmente ci precede e a quello che a noi seguirà, non fece altro che rendere centrale il presente rispetto al passato e al futuro. Fece questo, comprimendo nel presente anche i tempi del futuro e del passato: il passato del presente, il presente del presente e il presente del futuro. Definì questa terna di momenti come “ i tre tempi del presente”. Bisogna dire, che a distanza di secoli questa definizione rimane ancora molto precisa. Che cosa è il progetto? All'interno dello scenario agostiniano, il progetto è lo strumento che ci permette di tenere legati questi tre momenti attraverso una chiara presa di coscienza del compito cui una vita deve inchinarsi: proseguire le tendenze ereditate e, contemporaneamente, fondarne di nuove per proiettarle nel tempo che verrà.

9 aprile 2010

Intersezioni --->CITTA'

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Note:

[1] È possibile leggere una parziale cronistoria (qui) va corretto il cognome di Sergio Musumeci in Musmeci.


[2]
Da un testo elaborato in occasione della ricorrenza del ventesimo anno della morte di Enzo Rossi (archivio Quistelli)


[3]
Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi sono gli estensori del “Manifesto di Ventotene” che, a tutti gli effetti, viene considerato il più antico documento programmatico e costitutivo della’attuale Unione Europea.

[4] Il “libro dei sogni” è una frase, oramai d’uso comune, coniata proprio da Amintore Fanfani in occasione delle iniziative legislative elaborate dal primo Governo di Centro Sinistra della Storia della Repubblica. In particolare, era un giudizio dato al “Progetto 80” che, secondo giudizi storici oramai consolidati, fu il primo – e io dico l’unico – reale programma di riforme strutturali pensate nel nostro Paese. Ministro dell’economia era Antonio Giolitti, il principale animatore del “Progetto 80” – o almeno l’unico ancora oggi vivente – fu Giorgio Ruffolo che, ultimamente, ha ripercorso la storia di quei tempi in un bel libro edito da Donzelli.

Le foto sono di Salvatore D'Agostino anno 1995

Dati tecnici:
Denominazione dell’opera
Chiesa madre a Gibellina Nuova

Progettisti
Ludovico Quaroni
Luisa Anversa Ferretti
Giangiacomo D’Ardia (collaboratore)
Sergio Musmeci (progetto delle strutture)

Progetto preliminare
1972

Progetto definitivo
1981

Progetto esecutivo
1985

Avvio dei lavori (primo lotto)
17 settembre 1985

Fine dei lavori (primo lotto)
25 giugno1987

Crollo parziale del tetto
14 agosto 1994

Progetto di ricostruzione
2002 (Giuseppe Buffa, Domenico Messina e Filippo Carcara)

Inaugurazione
28 marzo 2010

12 gennaio 2009

0025 [SPECULAZIONE] L'urbanità disegnata da GIPI

di Salvatore D'Agostino 

   GIPI è il nome d'arte di Gian Alfonso Pacinotti nato a Pisa nel 1963 vive disegnando, questo è l'aspetto che ha in comune con l'architetto. La differenza più rilevante è che Gipi osserva senza giudicare, l'architetto osserva ripulendo con le proprie visioni la realtà. In questo colloquio troverete tra le righe l'urbanità cioè il rapporto tra la città e la gente con l'aggiunta di un pizzico di artigianato del disegno.

   Salvatore D'Agostino Un fumettista si nutre di visioni, l'occhio è lo strumento fondamentale per trasporre in disegno il mondo immaginato. Qual è la tua visione della città? 

   GIPI Caos. Io non riesco a fissare gli occhi sulle cose. O meglio, ci riesco con enormi difficoltà. Quindi la mia visione della città è assolutamente frammentata. Interpreto l'idea della città come confusione di forme, mancanza di ordine, caos appunto. E quando disegno replico questa sensazione, accosto linee quasi a casaccio, poi le sminuzzo, aggiungo dettagli che dettagli non sono, ma solo altre linee nervose. La cosa interessante per me è che questo tipo di lavoro, alla fine mi porta ad una rappresentazione che è per me "realistica", anche se guardando meglio, si tratta solo della riproduzione confusa, di una visione confusa.
   Il contrario di caos è ordine. Politicamente l'ordine rievoca i regimi totalitari. Seguendo questa logica vivere il caos significa vivere 'democraticamente' liberi?

   In un certo senso, nei nostri tempi, nel nostro paese, il concetto può anche essere invertito. Possiamo provare a farlo. Il caos di cui parlo nelle città è spesso figlio proprio del potere, inteso come potere e prepotenza economica. Il cosiddetto "sacco di Roma"1 ad esempio, esprime caos nelle forme ma è un prodotto del potere schiacciante e ottuso. Quindi è un caos generato dal potere, dalla voglia di potere e di ricchezza. Per questo nei miei disegni, per quanto l'occhio vada in giro e, in un certo senso, goda di ciò, c'è sempre un aspetto più sinistro. A volte opprimente.

   Poi, naturalmente, c'è il caos dello spirito, quello che genera risposte e comportamenti imprevedibili. In questo caso posso azzardare un avvicinamento con il concetto di libertà.

   Per il designer Milton Glaser:
«Il disegno è una forma di meditazione, ti costringe a fare attenzione, che è la ragione ultima del fare arte».2
   Cos'è il disegno per te?

   Una pratica che m'induce a far prevalere la parte migliore di me. L'impegno e l'assiduità, la scelta di trascorrere il proprio tempo, appunto, in concentrazione, mi sembrano una cosa buona se contrapposte alla vacuità. È anche un processo che induce riflessioni e, quando sono incredibilmente fortunato, trasformazioni. Spesso lavoro su temi che sono mie domande interiori. Cose che non comprendo. La pratica del disegno a volte può fare miracoli e avvicinare al senso delle cose e degli eventi accaduti. 

   In una tua vecchia intervista fiume sul sito 'Lo spazio bianco' ricordavi la tua infanzia e il tuo rapporto con gli insegnanti:
«Ci pensavo in questi giorni: i miei professori di disegno dal vero e di "ornato" non li ho mai visti disegnare. Ricordo che il professore di figura fumava e leggeva il giornale. Non li ho mai visti con una matita in mano».
   L'architetto Stefano Mirti relativamente al ruolo dell'insegnante o direttore di scuola:
«crede fermamente che chi sa fa e chi non sa insegna (con il corollario che quelli che sanno fare e insegnare sono i peggiori di tutti)». 
   Esistono gli insegnanti? 

   Si. Credo che esistano. Ho avuto buoni insegnati (magari inconsapevoli di esserlo) fuori dalle scuole. Per me "il maestro" è una persona che vive seguendo con onestà la propria passione. E questo trasmette, al di là delle parole, una tensione di vita. Uno dei miei maestri è un pittore pisano, si chiama Giuseppe Bartolini. È stato un maestro senza mai insegnarmi una tecnica. Solo vivendo la pittura, giorno per giorno, con la massima onestà possibile. Un altro è stato Riccardo Mannelli, un amico, pure, e anche da lui ho appreso la devozione e la passione, sopratutto. Spesso gli insegnanti, intesi nel senso tradizionale (statale) del termine, sono stanchi, disillusi, tristi. È un mestiere usurante. Forse andrebbe fatto solo per brevi periodi.

   Nel tuo video "Tokio Hotel Live" della Santa Maria Video ovvero la TV che non vuole trasmettere niente, affermi:
«Fare schifo, in una società che obbliga all'eccellenza, è un preciso dovere morale».
   È ancora valido questo monito?
   Il titolo vero è proprio "Fare schifo". Quel Tokio etc. è stato messo da un utente di Youtube che si è preso la briga di caricare il video. "Fare schifo" è chiaramente un'iperbole. Altrimenti contraddirei tutte le cose dette finora. Ma ha un suo senso, se rivediamo i concetti di "fatto bene" e di "qualità". E comunque, in una società che spinge alla bellezza esteriore, al successo, alla ricchezza, senza considerare minimamente la pratica attuata per raggiungere questi obiettivi, fare schifo è, forse, davvero, un dovere morale.

   C'è chi sostiene che in Italia non esiste coscienza critica. Tu invece rappresenti l'italiano come un opinionista, ovvero il tuttologo con un lessico striminzito, ma chi è in realtà l'opinionista?

   L'opinionista sono io se avessi scelto di fare l'opinionista. Insomma, se mi fossi messo nella condizione di fare un mestiere che non so fare. È un ignorante, quale io sono, in parte. È un ottuso, che parla per frasi fatte e luoghi comuni. È un opinionista, distante dal mondo e, se si può usare questo parolone, da ogni desiderio di ricerca di verità. Verità era il parolone.

   L'architettura vive di spazio, che cos'è lo spazio per un disegnatore? 

   Per me il termine spazio equivale a ritmo. Ma questo dipende dal fatto che principalmente, con le immagini, racconto delle storie. Parlo adesso di spazio nella pagina. Che diviene spazio nel tempo di lettura. Non saprei dare una differente risposta, scollegata dal mio mestiere. Ho una percezione dell'ambiente circostante, delle persone e delle cose talmente frammentato e nevrotico che non riesco un gran che a percepire lo spazio in senso fisico. Questo, però mi risulta molto difficile da spiegare. È come se avessi una capacità di messa a fuoco destinata solo a un susseguirsi di particolari. Lo spazio, come aria, insieme, mi sfugge. 

   Dove abitano i tuoi personaggi? 

   Spesso hanno abitato in case popolari. Qualche volta in ville di genitori che non sentono proprie. Posso dire che vivono quasi sempre in spazi che gli sono alieni. Non c'è mai un sentimento di comunione tra i miei personaggi e l'ambiente in cui si muovono. Se c'è, ed è raro, avviene nella natura, negli orizzonti. Ma anche qui, spesso utilizzo campi con grandi cieli che non sono solo ariosi, ma divengono opprimenti. Per me torna sempre la questione della minutezza dell'essere umano. La sensazione di essere formiche, piccole e impotenti, tra i grandi palazzi di una città o sotto le nuvole e la pioggia. È quindi sempre un abitare con sottile disagio. 

12 gennaio 2009 (ultima modifica 19 agosto 2012)

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Note: 
1 Alberto Statera, Il nuovo sacco di Roma, La Repubblica, 5 novembre 2008.
2 Domenico Rosa, Milton Glaser. Disegno, dunque sono, Il sole 24 ore, 22 novembre 2008.

N.B.: Immagini:
  • la prima immagine è stata tratta dal calendario 2009 disegnato da GIPI per la rivista Internazionale;
  • la seconda è un frame tratto dal video non ufficiale apparso sul sito You Tube con il titolo Tokyo Hotel Live;
  • la terza è un frame tratto dal video opinionista n. 2 visibile sul blog 'Opinionismo' ideato dallo stesso GIPI.

21 aprile 2008

0017 [CITTA'] Per Stefano Boeri Milano può rischiare di vedere sorgere favelas e slums

C'è una domanda da porsi per chi deve pensare e costruire le città ed è la gente che la abita. In una grande città come Milano, ci sono molti individui poveri che, se sottovalutati, possono creare vere e proprie favelas. Stefano Boeri, abbandonando la retorica del problema sociale, sostiene che essi sono una risorsa per la città, ma se non si comincia a costruire dei sistemi policentrici di luoghi di prima accoglienza, si possono creare degli slums. Boeri individua quattro fondamentali risorse:
1- le strutture dimesse, spesso di proprietà dello stato, ai bordi di Milano;
2- l’attitudine alla coesione sociale legata alle dinamiche del lavoro e dell'imprenditoria;
3- una fitta rete capillare ed efficiente di associazioni e mediatori sociali;
4- le istituzioni bancarie, le fondazioni e le imprese che possono investire in un serio progetto d'integrazione.
Milano, conclude Boeri: «È una città abitata da istituzioni bancarie, fondazioni, imprese, che sono oggi disposte ad investire in un serio progetto di integrazione, basato su un programma chiaro di investimenti e di impegni di gestione. Credere che, in previsione dell’Expo, Milano sappia rilanciare quella grande e nobile politica di generosità sociale che cento anni fa la portò a costruire istituzioni di accoglienza e formazione come l’Umanitaria non è un sogno. E’ anzi una necessità, se vogliamo evitarci un futuro di favelas e slums. Altre strade, non si danno.»:

Stefano Boeri, C'é una domanda, Corriere dela Sera, 20 novembre 2007


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12 aprile 2008

0016 [CITTA'] Apologia del geometra

I geometri hanno costruito l’Italia, gli architetti specialmente quelli di sinistra hanno causato i maggiori scempi, queste sono alcune considerazioni di Filippo Penati presidente della Provincia di Milano. Mi chiedo, ma perché gli ‘ecomostri’ e le ‘villette-palazzine’ sono anonime e le opere di architettura anche se controverse sono firmate? Perché gli architetti non cominciano a svegliarsi e lanciare le critiche sul vero scempio italiano?:

Articolo sulla Stampa di Chiara Beria Di Argentine, "Gli architetti di sinistra hanno mangiato le città” 12/04/2008

Video-Intervista di Klaus Davi al presidente della Provincia di Milano Filippo Penati (PD)

Pubblicato sulla presS/Tletter n.14-2008

9 aprile 2008

0015 [CITTA'] L'impotente Daniel Libeskind

Primi effetti positivi dell'EXPO 2015 di Milano: il nostro ‘becero pronvicialismo’ si confronta con il mondo, Libeskind ci consiglia di: «[…] buttare alle ortiche la politica, di destra e di sinistra, che da decenni paralizza il Paese. E deve smetterla di ascoltare i demagoghi che vogliono interferire in campi non di loro competenza. »:

09 aprile 2008 Libeskind "Critiche alle torri? Come i fascisti."

07 aprile 2008 A Berlusconi il grattacielo storto gli comunica un senso d'impotenza

07 aprile 2008 Risposte di Mario Botta, Italo Rota e Massimiliano Fuksas

07 aprile 2007 Per Boeri i grattacieli sono il segno del nuovo, ma adesso serve un' idea moderna di città

Pubblicato sulla presS/Tletter n.14-2008

8 aprile 2008

0014 [CITTA'] Walter Siti

L’otto aprile è uscito l’ultimo libro di Walter Siti, Il contagio, Milano, Mondadori, parla del cambiamento nelle borgate romane e della sua cultura in transito, l’autore è credibile perché vive ciò che racconta. Io andrò a comprarlo:


4 aprile 2008

0013 [CITTA'] Chi ha costruito le periferie?

Ritanna Armeni co-conduttrice su LA7 del programma ‘Otto e mezzo’, chiede a Massimiliano Fuksas: «perché si è lasciata la periferia in mano ai geometri?» L’architetto romano risponde che: vorrebbe fondare il partito per aiutare le persone, ripensando ai quartieri, educando gli imprenditori, superando la questione delle case popolari, non facendo altri ‘Corviale’ e tantomeno nuove ‘Bicocca’. Mi chiedo, ma è vero che le nostre periferie sono state costruite dai geometri e non anche dagli ingegneri del metro cubo e gli architetti della bella distribuzione interna? Mi ricorda lo sfogo, non del tutto sbagliato, dell’ex ministro per i Beni e le attività Culturali, Francesco Rutelli, dove additava gli architetti per aver ceduto alla banalizzazione chiesta/imposta dai geometri. Temo che in Italia ci sia un limite ‘culturale’ dei nostri professionisti, geometri-architetti-ingegneri:

Massimiliano Fuksas a 'Otto e mezzo' un programma di LA7 del 03/04/2008

Rutelli attacca l'«Italia dei geometri»: crescita senza stile, architetti sconfitti, Corriere della Sera, 11/11/2007

16 marzo 2008

0012 [CITTA'] Città virtuali o reali?

Sul numero degli abitanti e l’economia delle città virtuali ci sono dati contrastanti, ma Second Life, World of Warcraft, Entropia Universe, City of Villains sono città eteree nate e abitate dagli umani. Virtuale è un termine inesatto perché non sono più città potenziali, ma una geografia reale con tutte le complessità che l’uomo ha trasferito anche in questo nuovo mondo.
Da poco è nata un’agenzia di viaggi per aiutarci a scegliere:

Angezia di viaggi virtuale: Synthravels


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27 febbraio 2008

0011 [CITTA’] Città Blob

Vincenzo Cerami: «l’Italia di oggi è un’unica città senza soluzione di continuità»:

Intervista a Vincenzo Cerami su 'Fahrenheit' radiotre, 5/12/2007

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25 febbraio 2008

0010 [CITTA’] Dongtan

DONGTAN sarà la prima città ecologica. Masterplan ARUP. Primo abitante italiano Alfonso Pecoraro Scanio:

Video di presentazione della futura città

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22 febbraio 2008

0009 [CITTA’] Sondgo

Ibridando Sidney/New York/Venezia si ottiene SONDGO. Benvenuti nel nuovo brand:

Presentazione della nuova città

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20 febbraio 2008

0008 [CITTA’] Shrinking cities

Philipp Oswalt ha creato un osservatorio sulle “SHRINKING CITIES” (città che si contraggono) cercando di animare il dibattito concentrato, sovente, sulle “SUPERCITIES”:

Studio sulle città che si contraggono


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