9 aprile 2010

0018 [CITTA'] La chiesa di Ludovico Quaroni a Gibellina




Quale valore ha la parola progetto, soprattutto ai giorni nostri?

Parlare di progetto, per un architetto, vuol dire analizzare una parola che dovrebbe essere una amica fidata, visto che, senza questa parola, il nostro lavoro perde quasi di significato. Anni avari, soprattutto quelli del tardo novecento, hanno preteso, al contrario, di dare tutte le colpe di una umanità inebriata dalla libertà, alla presunzione che traspare, alle volte, dalla parola progetto: come si può osare, in sostanza, ad ipotecare il futuro in maniera così totalizzante?

Di fronte alla conclusione dei lavori della fabbrica della Chiesa Madre di Gibellina, forse, questa domanda, spesso pretestuosa, potrebbe essere accantonata, se non per sempre, almeno per un attimo.
Il progetto, nella sua parte più emblematica, ha un debito verso le suggestioni di Étienne-Louis Boullee, e non crediamo che ci sia difficoltà a sottolinearlo. La cosa, però, che dovrebbe attrarre, soprattutto oggi, è il perentorio valore di paradigma che possiedono i solidi definibili come primari, come quello che si impone nel coprire l'area absidale della chiesa di Ludovico Quaroni e Luisa Anversa.
Un valore che concede il potere a queste soluzioni, si potrebbe dire, di essere modelli assoluti di oggetti che attestano la loro assoluta ed inequivocabile artificialità, la loro condizione non organica di forme, le quali esistono affermando una distinta vita (e durata) rispetto ad una naturalità che, al contrario, sconta il suo tempo suonando con un altro spartito.
Una naturalità o naturalezza che, molto spesso, oggi invade i tentativi dell'architettura contemporanea, ogni qual volta cerca un tasso di originalità, spesso fine a se stessa, tentando di mimare processi naturali e volutamente casuali.
Un allievo di Ludovico Quaroni - forse il migliore - come Antonio Quistelli, ebbe a dire di questo progetto, anni fa, delle parole abbastanza chiare.
«A Gibellina compare, ed è un elemento di memorabilità del progetto, una forma sferica anche se di breve raggio. E' incastrata nel gioco delle pareti e presta, come una antica forma absidale, i suoi valori all'interno e all'esterno. Ludovico Corrao mi raccontava che Ludovico Quaroni avrebbe voluto esaltarne le potenzialità, come parte dell'aula. Un pensiero nato in cantiere, immagino. Quaroni pensava la superficie barbaricamente decorata da schegge vitree, forse per raggiungere una piena smaterializzazione. All'esterno, la forma sferica, emergendo da un volume compatto, è il fuoco di una cavea che oppone il suo scavo al pieno del corpo in cui si organizza principalmente il luogo del culto. Un progetto in cui i ritmi e il tracciato regolatore riportano al quadrato, componendo in questa maniera, tra loro, elementi misurati su una dimensione intima, come il piccolo patio interno alla canonica. E' un progetto che (ed è la mia opinione) valorizza, animandolo con aggettivazioni cercate nell'impianto (come il rapporto cavea-fabbrica) un programma di costruzioni che escludeva, in partenza, ogni enfasi. E' così che Quaroni mette a frutto i germogli dello spazio di misura domestica, intima. Un dato che annulla ogni ricerca di possibili relazioni e di ispirazioni, al di là di ricorrenze formali che vengono spieg»ate sufficientemente dal fatto che, all'origine, l'immaginario dell'architetto è sostanzialmente uno». [2]
Le questioni di stretta rilevanza tecnica e compositiva, forse, potrebbero concludersi qui.



Non è questo, però, quello che ci preme sottolineare di q
uesto progetto. La conclusione gloriosa di questa fabbrica, infatti, ci spinge a proporre una riflessione sul progetto, che emancipi questo concetto rendendolo, così, del tutto indipendente dalle sole questioni estetiche e formali.
Walter Gropius sul progetto aveva le idee chiare. Il progetto, lui diceva, è uno strumento strategico dell'umanità, e quando è tale vale per il lungo termine. Se un progetto ha un valore, infatti, ci sarà sempre qualcuno che continuerà a tesserne le fila anche dopo la morte di chi lo ha preceduto. Chi siamo noi, infatti, e che senso ha la nostra ristretta vita biologica, tragicamente finita, senza il tempo che dovrà venire e senza le mete che in quel tempo si raggiungeranno, le tragedie che si consumeranno, le glorie e le miserie che ne colmeranno le giornate e gli anni? Probabilmente la nostra vita personale non è nulla senza la prospettiva di un tempo che ha alle spalle una eternità e davanti agli occhi l'infinito. Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi [3], senza conoscere Gropius e senza avere il tempo e la voglia di dedicarsi a questioni come l'estetica urbana, impegnati, come erano, nella dura resistenza quotidiana di fronte a chi li costrinse al confino, videro nel futuro l'Europa Unita. La videro osservando l'orizzonte da uno scoglio immerso nel Mare Tirreno. Com'è possibile vedere da Ventotene, lontani anni da un tempo che ancora adesso deve arrivare pienamente, ciò che oggi, al contrario, inizia a sembrare realtà, è un mistero solo per quelli che non credono al progetto come la prova esistenziale dell'umanità. Loro videro l'Europa Unita nel momento meno propizio, nel pieno delle sue divisioni, e affidarono questa profezia ad un manifesto, scritto mentre vivevano segregati nel bel mezzo del nulla. Il punto vero, allora, è uno solo: per cosa viviamo?
Viviamo soltanto per marcare con la nostra presenza contingente un istante del tempo, senza prenderci alcuna responsabilità eterna, e pensando solo a dei fatti e a delle questioni di stretta capacità temporale, in cui le convenienze e le sconvenienze si misurano nell'arco dei tempi biologici di una vita, oppure, diversamente, è necessario vivere come se il nostro destino di persone fosse legato al passato e al futuro: a quando non c'eravamo e a quando non ci saremo? Le responsabilità di chi vive un tempo, s'aprono e si chiudono in quel tempo, oppure ereditano anche le azioni anteriori e sono chiamate a organizzare, pure, quelle che trapassano la stretta biologia di una vita?
Conta di più la biologia personale o quella civile?

La parola progetto soddisfa ancora, dopotutto, chi vuole risposte plausibili a queste domande. In questo senso, la parte peggiore dell'essere meridionale nasce dalla razionalità con cui il passato, le esperienze, il futuro, sono vissute da chi vive a questa latitudine. Di chi vive in una terra che forse ha visto già tutto e quindi non è capace d'illudersi più di tanto. Ha visto i Greci tentare con la democrazia e la città, e ha appurato, in conclusione, com'è finita. Ha visto il sogno del Grande Svevo, che ha provato ad assumersi in maniera completa la responsabilità politica delle sue azioni e del suo ruolo di uomo, e ha assistito al tragico declino del suo sogno. Ha visto morire, su asfalti assolati, sindacalisti, rappresentanti delle forze dell'ordine, giornalisti, uomini e donne d'ordinaria attività, giudici saltati per aria insieme alla dignità che non fa piegare l'uomo nemmeno di fronte alla coscienza dell'inutilità, sul breve periodo, della vita.

Il Meridione, in qualche maniera, sembra un essere umano che ha già vissuto una volta e ha visto tutto. Sembra un essere umano che già sa, sin troppo bene, come va a finire ogni storia: sa che è del tutto inutile pensare ad una scala diversa dell'uomo per com'è. Questa parte peggiore dell'essere meridionale, però, è stranamente accompagnata dall'attesa di riprovarci, appena se ne presenta l'occasione: nonostante tutto. Ha già visto ogni cosa possibile, ma dal suo nascondiglio da dove scruta il mondo, dal metro quadro d'esistenza egoista dove vive e assiste alla natura umana, è sempre pronto a tentare nuovamente: basta l'occasione. Proprio quella giusta.

Cosa è rimasto, oggi, di questa propensione a sfidare il tempo in maniera alta e consapevole?
Fu Amintore Fanfani, di fronte alla vorace volontà di trasformazione che traspariva da vasti settori del nostro Paese, che negli anni sessanta aspiravano a qualche cosa di meglio di quello che oggi abbiamo, a definire una volontà, fatta da idee e progetti, come un “libro dei sogni”[4] , dando a questa definizione un valore del tutto negativo. Esistono sempre degli Amintore Fanfani nella vita di una comunità. Questi, però, non sanno che il progetto è sempre più forte e duraturo dei loro giudizi sbrigativi.

Ottimismo senza destino?
Se non vi basta il fatto, allora, che, a distanza di quaranta anni, nel cuore della Sicilia, un’idea di Chiesa si sia trasformata da pura aspirazione in realtà tattile e visiva, è meglio allora ricordare qualche altra cosa per far capire, sia agli architetti che a coloro che non lo sono, cosa voglia dire praticare il progetto, affidarsi al progetto, scegliere il progetto, come strategia di trasformazione dei luoghi e del pensare le cose. Tra i marinai italiani che si ritrovarono in balia delle onde dopo la battaglia di Capo Matapan, con dentro le orecchie ancora le cannonate inglesi, e circondati dagli squali che giravano intorno, pronti a decretare la fine di ogni respiro, ce ne fu uno che elaborò un veloce progetto da affidare alle onde. Prese una bottiglia, e dopo aver tirato fuori dal taschino bagnato una penna ancora utile, scrisse sulla carta del suo ultimo pacchetto di sigarette le sue ultime volontà: «chiunque trovi questo messaggio, faccia sapere a mia madre, che vive a Salerno in Via Puzzo 52, che sono morto e che non sono pentito di averlo fatto. Sono morto per servire il mio Paese».


A distanza di circa venti anni, a guerra abbondantemente finita, una giovane coppia, appartatasi su una spiaggia della Sardegna, trovò proprio questa bottiglia, e dopo aver letto il messaggio andò personalmente a Salerno a consegnarlo alla madre del marinaio. Quel progetto, messo a punto nel pieno di una tragedia da un giovane marinaio italiano, per realizzarsi ci aveva messo venti anni e parecchie miglia marine - Capo Matapan si trova nell'Egeo - ma chi crede nel progetto non si spaventa del tempo e delle distanze.

Siamo, quindi, esattamente quello che facciamo. Non conta, o conta poco, riuscire a sopravvivere o a concentrare sul poco tempo a disposizione gli sforzi per costruire una biografia personale. Povere ambizioni sono quelle strette tra una nascita e una morte, in cui il pensare alla salute é solo l'altra faccia della medaglia del pensare a soddisfare se stessi, le proprie voglie e aspirazioni. Cerchiamo una conclusione.
Il progetto di Ludovico Quaroni e di Luisa Anversa - la quale ha avuto la fortuna di vedere conclusa l'opera - ci ricorda quale siano le impervie strade e il tempo necessario per governare il passaggio di una idea di spazio architettonico attraverso le forche caudine che costellano i processi di realizzazione tridimensionale di un manufatto. Ci ricorda che solo all'interno delle logiche temporali e tecniche del progetto è possibile porsi degli obiettivi alti. Obiettivi che hanno, sostanzialmente, bisogno del tempo e di chi lo anima.

Agostino D'Ippona, per definire ed ancorare il singolo contributo di un essere umano o di una comunità all'interno del breve arco temporale di una vita, in rapporto al più ampio arco di tempo che normalmente ci precede e a quello che a noi seguirà, non fece altro che rendere centrale il presente rispetto al passato e al futuro. Fece questo, comprimendo nel presente anche i tempi del futuro e del passato: il passato del presente, il presente del presente e il presente del futuro. Definì questa terna di momenti come “ i tre tempi del presente”. Bisogna dire, che a distanza di secoli questa definizione rimane ancora molto precisa. Che cosa è il progetto? All'interno dello scenario agostiniano, il progetto è lo strumento che ci permette di tenere legati questi tre momenti attraverso una chiara presa di coscienza del compito cui una vita deve inchinarsi: proseguire le tendenze ereditate e, contemporaneamente, fondarne di nuove per proiettarle nel tempo che verrà.

9 aprile 2010

Intersezioni --->CITTA'

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Note:

[1] È possibile leggere una parziale cronistoria (qui) va corretto il cognome di Sergio Musumeci in Musmeci.


[2]
Da un testo elaborato in occasione della ricorrenza del ventesimo anno della morte di Enzo Rossi (archivio Quistelli)


[3]
Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi sono gli estensori del “Manifesto di Ventotene” che, a tutti gli effetti, viene considerato il più antico documento programmatico e costitutivo della’attuale Unione Europea.

[4] Il “libro dei sogni” è una frase, oramai d’uso comune, coniata proprio da Amintore Fanfani in occasione delle iniziative legislative elaborate dal primo Governo di Centro Sinistra della Storia della Repubblica. In particolare, era un giudizio dato al “Progetto 80” che, secondo giudizi storici oramai consolidati, fu il primo – e io dico l’unico – reale programma di riforme strutturali pensate nel nostro Paese. Ministro dell’economia era Antonio Giolitti, il principale animatore del “Progetto 80” – o almeno l’unico ancora oggi vivente – fu Giorgio Ruffolo che, ultimamente, ha ripercorso la storia di quei tempi in un bel libro edito da Donzelli.

Le foto sono di Salvatore D'Agostino anno 1995

Dati tecnici:
Denominazione dell’opera
Chiesa madre a Gibellina Nuova

Progettisti
Ludovico Quaroni
Luisa Anversa Ferretti
Giangiacomo D’Ardia (collaboratore)
Sergio Musmeci (progetto delle strutture)

Progetto preliminare
1972

Progetto definitivo
1981

Progetto esecutivo
1985

Avvio dei lavori (primo lotto)
17 settembre 1985

Fine dei lavori (primo lotto)
25 giugno1987

Crollo parziale del tetto
14 agosto 1994

Progetto di ricostruzione
2002 (Giuseppe Buffa, Domenico Messina e Filippo Carcara)

Inaugurazione
28 marzo 2010

6 commenti:

  1. Isidoro,
    lo stesso giorno che mi hai inviato il pezzo per Wilfing Architettura Edoardo Camurri nella sua rassegna stampa ‘Pagina3’ su radio tre mi segnalava alcuni articoli (se vuoi puoi ascoltare qui ---> http://www.radio3.rai.it/dl/radio3/programmi/puntata/ContentItem-5f08e627-d5ac-4f0a-9d90-61fa31628d23.html?refresh_ce).

    Quindi, sono andato dal mio edicolante che gentilmente mi ha fatto fotocopiare l’articolo di Caterina Maniai, Arhimostri - Se questa è una chiesa, Libero, 25 marzo 2010 (sul Web qui ---> http://www.cesar-eur.it/upload/doc/2010-03-25-libero-gli_archimostri.pdf )

    Eugenio Battisti nel suo ‘Contributo ad un'estetica della forma’ a proposito dell’arredamento degli antichi diceva: «È come se l’uomo facesse molta fatica a convincersi che egli ha la possibilità di fabbricare oggetti inerti, compienti funzioni meccaniche».
    Infatti i pochi arredi per molti secoli erano mimetici zoomorfi, fitomorfi o teriomorfi.
    Capisco che la giornalista se ne frega altamente della storia dell’architettura e infarcisce il suo scritto con i contenuti del giornalismo ‘contro’ che una certa volgarizzazione del giornalismo da qualche tempo sta portando avanti.
    Per fortuna siamo in un blog e quindi ci possiamo permettere di non scrivere per il ‘capo’.
    Ti riporto l’incipit: «Appare all’improvviso, a una svolta della strada in salita, e ci si domanda a che cosa somigli: a una moschea in versione postmoderna; a un bizzarro osservatorio astronomico; a un misterioso oggetto spaziale su una improbabile rampa di lancio. Insomma, si pensa a un mucchio di cose, meno che a una chiesa».
    Per dirla alla Battisti ci sono ancora persone incapaci di emanciparsi dal gioco: a che cosa assomiglia?
    Roland Barthes diceva: «appena una forma viene vista è necessario che assomigli a una cosa: l'umanità sembra condannata all'analogia».
    Un approccio ‘analogico’ che lo stesso sant’Agostino che citi non avrebbe mai condiviso.
    Il progetto non può
    Per fortuna la chiesa di Quaroni non è analogica.
    Spero di andarla a visitare per ripensare alla suggestione che Quistelli ci riporta: ‘Quaroni pensava la superficie barbaricamente decorata da schegge vitree, forse per raggiungere una piena smaterializzazione’.
    Saluti,
    Salvatore D’Agostino

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  2. Sono contento che sia finalmente terminata l'opera della chiesa di Quaroni a Gibellina. Ho visitato Gibellina nel 2004, e proprio in quell'occasione ricordo di aver desiderato che il cantiere finisse, dopo tutto quel tempo e la disgrazia (architettonica) del crollo.
    Stiamo però parlando di una chiesa e tradizione vuole che le chiese ben costruite vengano realizzate nel corso di una o più generazioni. L'unica mirabile eccezione a questa regola dei tempi lunghi è il duomo di Modena, sul quale l'ottimo Dario Fo ha scritto uno dei suoi capolavori (Il tempio degli uomini liberi), edificio costruito in soli due decenni.
    Senza arrivare agli eoni del duomo di Milano, o alle date astrali in cui si compirà la Sagrada Familia a Barcellona, vedo positivamente gli oltre trent'anni del duomo di Gibellina Nuova.
    Saluti.
    Vil Geometra.

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  3. ---> Vil Geometra,
    hai perfettamente ragione sui tempi ‘biblici’ delle chiese italiane mi viene da pensare al tempio Malatestiano a Rimini rimasto incompiuto o alla chiesa del Monastero di San Nicolò l’Arena a Catania con le sue colonne sospese poiché mai completate
    Google map: http://maps.google.it/maps?f=q&source=s_q&hl=it&geocode=&q=catania,+convento+benedettini&sll=37.631091,15.005951&sspn=0.302892,0.529404&ie=UTF8&hq=convento+benedettini&hnear=Catania+CT&ll=37.50418,15.080879&spn=0,0.002068&t=h&z=19&layer=c&cbll=37.50418,15.080879&panoid=v_5QJNWVQouoDCKBjQfIDw&cbp=12,274.55,,0,-19.51
    Hai ragione questa chiesa ha il carattere della cristianità italiana.
    Saluti,
    Salvatore D’Agostino

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  4. Non conoscevo le vicende di questa chiesa! Che dire... Anzi, meglio non dire niente

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  5. ---> PEJA,
    le vicende di questa chiesa sintetizzano bene molti ‘aspetti’ della cultura ‘architettonica’ di questi ultimi anni.
    Non sai cosa hanno scritto a tal proposito i giornali ‘urlatori’ reazionari ovvero quelli che hanno sotto il braccio, il vecchio testamento (non il nuovo) e il manuale del geometra quello trasposto senza soluzione di continuità dal pagano ‘Vitruvio’.
    Hai ragione, meglio non dire niente.
    Saluti,
    Salvatore D’Agostino

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  6. "La simbolica perfezione della sfera - soprannaturale - rappresenta l'Universo, la continuità, l'Infinito, la totalità, mentre il quadrato è segno della perfezione umana, non della razionalità trascendentale"

    Ludovico Quaroni

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