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24 dicembre 2011

0022 [CITTA'] Vitaliano Trevisan | Tristissimi giardini

di Salvatore D'Agostino
«… Di ville! di villule!, di villoni ripieni, di villette isolate, di ville doppie, di case villerecce, di ville rustiche, di rustici ville, gli architetti pastrufaziani avevano ingioiellato, poco a poco un po’ tutti, i vaghissimi e placidi colli delle pendici prenadine, che, manco a dirlo ‘digradano dolcemente’: alle miti bacinelle dei loro laghi1».
Oggi, dopo quasi quarant'anni, le declinazioni delle ville costruite dagli architetti pastrufazi di Carlo Emilio Gadda formano, senza soluzione di continuità, il tessuto urbano che cinge le nostre città. Sappiamo anche che non sono state progettate solo dagli architetti ma trasversalemente da ingegneri, geometri o spesso sono state auto-costruite.
La casa con giardino è un sogno abitativo che non può essere racchiuso nell'epiteto gaddiano 'del pastrufazio' poiché ha cambiato sia l'assetto urbano che il senso dell'uso collettivo delle nostre città. La casa con giardino non è una villa e la sua serialità non forma una città. Poiché la prima implica una casa immersa nel giardino e la seconda un rapporto con la strada e gli spazi aperti della città. 
Vitaliano Trevisan, citando un libro di Simona Vinci, ci racconta del suo rapporto con questi spazi abitativi pieni di 'Tristissimi giardini'2. A seguire ho riportato un capitolo del suo libro, evidenziato in granata troverete una bella sintesi su come curare un giardino spontaneo.

Buon tutto e buon racconto di Natale. Ci rileggiamo il 9 gennaio per parlare di Domus cartacea e Web*.

Tristissimi giardini
di Vitaliano Trevisan
«Ho visto il paese della tua infanzia: case piccole a due piani, cubi di cemento con i giardinetti delimitati da ringhiere e fiori coltivati. Piccoli giardini di una tristezza devastante, una periferia povera di gente che lavora duro, case con l'intonaco grigio, giallino, rosa pallido, dondoli sotto le verande, finestre con i serramenti in alluminio anodizzato, vetri lustri e tendine di pizzo cucite a mano».3
   Si dice che per conoscere davvero un posto bisogna viverci. Ma, vivendoci, c'è il rischio di perdere quella lucidità, quella freschezza di sguardo che sola ci permette di discernere ciò che, presi come siamo a vivere la vita di tutti i giorni nei luoghi di tutti i giorni, riusciamo al massimo a scorgere, ma che, spesso e volentieri, semplicemente ignoriamo. Guai se non fosse così! Se il nostro cervello dovesse continuamente elaborare la quantità di dati necessaria al semplice orientamento spazio-temporale, come se ci ritrovassimo perennemente in un ambiente sconosciuto, saremmo bloccati prima ancora di aver varcato il cancello. Vivere nel proprio ambiente, conoscerlo, significa anche, in certa misura, darlo per scontato. Il problema, nell'attuale vita di tutti i giorni, è che gli automatismi e le procedure e i protocolli di attuazione ormai necessari a vivere una cosiddetta normale vita di tutti i giorni sono aumentati a dismisura, e si sono complicati a dismisura, così che, non potendo dare questi per scontati, ma dovendosi anzi concentrare in essi, l'essere umano tende sempre più a dare per scontato, cioè a ignorare, ciò che materialmente lo circonda.
   Pausa.

Un momento: non era propriamente di questo che volevo parlare. Ma in un testo come questo, che tende a essere un conglomerato allo stato fluido, esattamente come il calcestruzzo che gira nella nostra betoniera, non è strano che un frammento si leghi, del tutto casualmente, con un altro. Riformuliamo da semplicemente ignoriamo, riga sei: 
[...], semplicemente ignoriamo. Poter dunque disporre, rispetto al nostro ambiente, di uno sguardo esterno, altro da noi, che di quell'ambiente siamo parte, è dunque, sempre, una grande opportunità. Opportunità ancora più grande che lo sguardo sia quello di uno scrittore, e più grande ancora in questo particolare caso, dato che il paese di cui l'autrice scrive, nel modo in cui ne scrive, è esattamente il mio e non un altro, così come del resto l'infanzia, e quel piccolo giardino di devastante tristezza, è ora il mio piccolo giardino di devastante tristezza delimitato da ringhiere e fiori coltivati.

   Dalla morte di mia madre, avvenuta alla fine del mese di settembre dell'anno 2008, l'autore, dopo un'assenza di circa quindici anni, è tornato a vivere nella casa della sua infanzia, ovvero ciò che ne resta, situata in via Dante, nel mezzo di una serie di vie che portano il nome di scrittori - circostanza che, al punto in cui mi trovo, definire casuale mi parrebbe altrettanto assurdo che definire non casuale.



Come che sia, ecco di nuovo una circostanza favorevole: quindici anni non sono pochi, l'occhio che guarda si trova in una situazione particolare, lo sguardo è al tempo stesso fresco e usato, è lo stesso e non è più lo stesso, così come l'ambiente che lo circonda, che è il suo ambiente e non lo è più.

   E poi è la prima volta che possediamo davvero qualcosa. Non è affatto un caso. Mai passato nemmeno per la testa di comprare una casa, cosa che sarebbe stata possibile solo accendendo un mutuo come minimo ventennale, opzione che non ho mai preso in considerazione, nonostante le continue pressioni, dirette e indirette, cui sono stato sottoposto - cui tutti coloro che vivono qui e ora sono sottoposti, da un certo punto della mia esistenza in poi, per agire in questo senso. C'è la casa dei miei genitori, ho sempre pensato, male che vada, se sopravvivrò, prima o dopo sarà mia e non dovrò più pagare l'affitto, non c'è ragione di agitarsi tanto per averne un' altra prima del tempo; e sarebbe ancora più stupido, ho sempre pensato, complicarsi un'esistenza già abbastanza complicata, legandosi mani e piedi a una banca, che mensilmente ci ricorderà che siamo appunto legati mani e piedi e la nostra tranquillità dipende solo dalla puntualità con cui onoreremo la rata del debito, perché di questo si tratta, e i debiti non sono che aggressioni del morto passato contro il meraviglioso presente. Ora, qualsiasi sia la nostra condizione attuale, mettersi volontariamente e per contratto nella posizione di essere mensilmente aggrediti per venti, trenta o addirittura quaranta e più anni significa rinunciare in partenza alla possibilità che il nostro presente possa essere meraviglioso. Così ho sempre pensato. E se poi crepo, il problema si estinguerebbe con me.

   Ora la casa è mia. È la casa della mia infanzia, su questo non c'è dubbio, ma all'inizio sembrava che non mi riconoscesse e reagiva come un organismo irritato dall'intrusione di un corpo estraneo. Poche settimane e tutto sembra andare a pezzi: le porte del frigorifero cadono, il forno elettrico va in corto, dell'acqua si infiltra in cucina venendo da non so dove, il bidet perde, il coperchio del wc è sempre più pericolosamente instabile, il diffusore della doccia è da cambiare, la televisione, quella piccola che mia madre teneva in cucina, una sera fa uno strano scoppio soffocato e si spegne per sempre, e mentre le poche piante che ho portato con me sono indecise se continuare a vivere o lasciarsi morire, e nel dubbio deperiscono di giorno in giorno, le stanziali sembrano interdette; non le ho spostate né importunate in alcun modo, ma sentono che qualcosa è cambiato - troppa acqua?, troppo poca?, non ai giusti orari?, e restano in attesa come congelate; e mentre un esercito di formiche prolifera improvviso e rischia di invadere la veranda, varie erbe e piante parassite hanno già conquistato buona parte del piccolo giardino di tristezza devastante.

   I vicini mi guardano in modo strano. A dire il vero ho l'impressione che tutti, in paese, mi guardino in modo strano. Annotiamo, di passaggio, che il fatto che il paese della mia infanzia sia ormai interamente e definitivamente inglobato nella periferia diffusa non impedisce ai suoi abitanti di pensarsi, e di pensare, e di agire, non necessariamente in quest' ordine, come abitanti di un piccolo paese, con tutto ciò che ne consegue. E poi c'è da considerare il fatto che, partito quindici anni prima come operaio lattoniere, tornavo ora con la qualifica, peraltro certificata, grazie ai vari articoli apparsi sul «Giornale di Vicenza», che da queste parti è un po' come la bibbia, di scrittore/drammaturgo/attore, o più in generale «artista». Niente di strano che non sappiano bene come prendermi. lo stesso, in questo senso, non so bene come prendermi. In ogni caso non troppo sul serio. C'è il rischio di appesantirsi, di interpretare un ruolo, di diventare quel ruolo. Essere formattato!, niente mi fa più orrore. Prima di tornare ero certo che a me non sarebbe successo. Ora, non sono più così sicuro. Sono a casa mia, nel paese della mia infanzia, nel mio ambiente naturale, se pure ne esiste uno, comunque un ambiente che conosco come nessun altro al mondo, eppure mi sento un estraneo, e siccome sono estraneo nel mio ambiente, comincio a sentirmi pericolosamente estraneo a me stesso. Proprio io, che ho fatto dell'estraneità una scienza, ora sono inquieto, incerto, insicuro. E questa casa, che avrebbe dovuto darmi finalmente quel minimo di sicurezza, mi è ostile, mi rifiuta.

   Mi rendo conto che l'uso che ne faccio non può certo essere quello di una vecchia di ottanta anni; che mi faccio la doccia più spesso, che uso il bagno in generale molto più spesso; che apro e chiudo le porte del frigo molte più volte, ovvero, in altre parole, figlio del mio tempo, consumo molto di più di quanto non abbia mai consumato mia madre, specialmente da vecchia. Il mio insediamento in un organismo -la casa della mia infanzia, ormai tarato e stabilizzato dall'uso di anni su tutt'altri parametri, ha messo in crisi tutte le sue componenti. Devo solo stare tranquillo. Passerà. È una fase di assestamento, grazie a dio sono spesso a Roma e qui non ho più l'affitto da pagare; posso andarmene quando voglio, tornare quando voglio, senza nessuno da dover avvisare, nessuno di cui doversi preoccupare, in fondo, ora che mia madre è morta e la questione famiglia è così definitivamente estinta, sono più libero, non meno libero. Devo solo stare tranquillo. Passerà. E poi anch'io devo adattarmi, o meglio riadattarmi, ritrovare dei percorsi, aprirne di nuovi, definire la mia sfera d'influenza, cioè fare ciò che in questi anni, a ogni trasloco -7, avevo sempre fatto, cercando comunque sempre di adattare me stesso al luogo che, di volta in volta, mi sono ritrovato ad abitare. In fondo, il fatto che la casa sia mia non cambia di molto le cose: la mia esistenza, ovvero il mio atteggiamento verso l'esistenza, resta il medesimo e così il senso di provvisorietà, che da sempre mi accompagna. L'umore è un fatto tecnico dovuto alla particolare contingenza. In questo contesto, nuovo e vecchio a un tempo, il cervello ha il suo daffare, i messaggi che riceve sono ambigui, i salti temporali continui e inevitabili, così che non è strano, ma anzi frequente, ritrovarsi immobili a osservare un particolare, ad esempio quei quattro piccoli fori sul telaio della finestra, là dove si conficcò la forchetta che mia madre mi tirò dietro in un impeto d'ira, un pomeriggio di quasi quaranta anni fa, e che schivai abbassandomi al momento giusto, di cui ricordo anche il sibilo, quando mi sfiorò i capelli facendomi rabbrividire, e il rumore sordo, di quando si conficcò nel legno, il vibrato metallico che ne seguì, e mia madre, immobile, che si porta lentamente una mano alla bocca. In ogni momento, ovunque si volga lo sguardo, si corre il rischio di essere proiettati in un passato remoto, anzi remotissimo, che porta in sé anche uno stato emozionale, riferito a quel passato, che finisce per proiettare la sua ombra nel presente rovinandoci le giornate. La memoria a breve termine, che ha il compito di orientarci nel tempo e nello spazio, facendo da ponte tra l'esperienza e l'immediato, è continuamente disturbata da un ambiente che, inevitabilmente, stimola in continuazione le aree della memoria a lungo termine, e così i dati si accumulano, i corridoi si intasano, il cervello si confonde, e uno si ritrova a vagare nel passato nell'atteggiamento emozionale del presente. Qualcosa che ricorda l'alzheimer. Ricordare l' alzheimer!, sembra un ossimoro. Ma lei ne soffriva, era spaventata. A un certo punto era convinta di non essere a casa sua. La mia voce la calmava. Anche alla fine, quando non mi riconosceva più, la mia voce la calmava. Allora, sul suo volto scheletrico si disegnava un sorriso di cui non avevo ricordo. 
Ecco, di nuovo a vagare nel passato. Posso andarmene quando voglio, mi ripeto, quando voglio. 

   A patto di trovare qualcuno che dia da bere alle piante. I vicini non vanno bene, sono vecchi, mai avuta più che tanta confidenza e nessuna volontà di acquisirne di più. Per fortuna ormai è inverno, posso star via anche una settimana. Le piante resistono, sembrano in letargo. In primavera dovrò per forza trovare qualcuno, magari l'ex badante di mia madre, che ha trovato un nuovo lavoro in questa stessa via - le vecchie pazze abbondano da queste parti. Quanto al giardino di tristezza devastante, ora che è mio cambierà tutto. Non farò nulla, se non abbeverare e stare a guardare. Poi, dopo un po', potrò cominciare a selezionare le piante ospiti. Nel mio giardino selvaggio faccio delle preferenze. Di solito mi limito a tenere sotto controllo qualche crescita abnorme e poco di più. Tutti i giardini che ho avuto in gestione in questi anni di traslochi sono sempre diventati un'area semi-selvaggia, un ricovero per tutte quelle specie che di solito trovano spazio solo dove l'uomo, ma soprattutto la donna, ha abbandonato il campo.  

   Nell'ultima casa prima di questa non avevo nemmeno il riscaldamento a metano, solo una stufa a legna. Avevo passato l'ultimo inverno a far legna nelle terre di nessuno, lungo l'Astego, o nelle aree dismesse, o semplicemente camminando di notte per il quartiereI, È incredibile quanta legna si trova in giro! Ogni tanto ne compravo un po'. Bruciava meglio, ma l'altra, quella che mi procuravo io, mi scaldava di più. No, non è esatto: mi scaldava meglio; mi dava l'impressione di scaldarmi meglio. E poi c'era una ragazza che scendeva dalle montagne per venirmi a trovare, e ogni volta me ne portava un po'. La rubava per me dove lavorava, o lungo la strada. A volte, quando era libera, veniva a far legna con me; o forse ero io ad andare con lei, visto che la motosega era la sua. Mi manca. Voglio dire non avere più una stufa a legna, e anche tutto il resto. L'occhio però mi è rimasto. Anche da queste parti c'è un sacco di legna in giro. Niente di strano: qui la periferia ha maglie più larghe e le terre di nessuno sono più estese. Potrei scaldarmi tutto l'inverno solo andando a far legna lungo la ferrovia, che taglia il paese in due con la linea Vicenza-Schio. La via del tessile. Se a Cavazzale, dal 1902 , esiste la stazione, è solo per «l'interessamento del marchese Giuseppe Roi che così poteva far arrivare la canapa direttamente a Cavazzale4». A dire il vero, se il paese esiste, nel modo in cui esiste, è perché il cav. Giuseppe Roi senior, padre del marchese Giuseppe Roi junior, nel 1875 comprò, dal conte Giovangiorgio Trissino dal Vello d'Oro, un mulino posto in territorio di Cavazzale, sopra l'acqua dell'Astichello, in località nominata il FollettoII, con annessa una terra boschiva e prativa di due campi circa, mulino che il cavaliere subito demolì per costruire il primo nucleo del canapificio che entrò in funzione nel gennaio del 1876 e, nel momento di sua massima produttività, che non casualmente coincide con gli anni della seconda guerra mondiale, impiegava circa 1200 operai. Praticamente tutto il paese. Mia madre compresa, anche se solo per una decina d'anni. Suo grandissimo rimpianto: aver abbandonato il lavoro per star dietro alla famiglia. Ah se avessi continuato a lavorare!, ripeteva spesso, ora non dovrei chiedere soldi a tuo padre. Ah se mi fossi fatta la patente!, ripeteva altrettanto spesso, ora potrei andare dove voglio senza dover sempre chiedere a tuo padre. Quando a chiederglielo era mio padre, non voleva mai andare in nessun posto. Donna dilaniata, che non mi ha mai perdonato di essere maschio. Però, grandissimo senso dell'umorismo, in questo l'autrice ha colto qualcosa:
«Quando ci siamo decisi ad andare, tua madre è venuta a salutarci; per la seconda volta, ho stretto quella mano asciutta e dura, e l'ho guardata negli occhi: a presto, allora, le ho detto. Lei ha aspettato una frazione di secondo eterna, senza distogliere gli occhi dai miei. Speriamo. Mi ha detto. Mi si è gelato il sangue5».
   C'ero anch'io: una pausa drammatica, un sorriso e poi, con la giusta intonazione, un semplice Speriamo!? 

   Ecco uno di quei casi in cui uno non sa mai bene che punteggiatura usare. Voglio dire: il punto esclamativo non va bene, perché non si tratta né di un' affermazione, né di un' esortazione; e non è nemmeno una domanda, dunque niente punto interrogativo; un semplice punto è da escludere, non è qualcosa che si interrompe così, semplicemente; e d'altra parte non si può nemmeno sospendere con i tre punti alla Celine... A questo punto (!), risolviamo l'equazione con un punto esclamativo seguito da un punto di domanda. O viceversa. Che non è affatto la stessa cosa! In verità il problema è insolubile. Mia madre era maestra in questo genere di espressioni. L'autore, suo malgrado, è un maestro nel decifrarle.
   Speriamo?! Alta scuola! 

   E anche della passione di mia madre per i fiori e il giardino, e di come in quel tristissimo giardino io sia stato confinato per pomeriggi interminabili eccetera, in tutto questo l'autrice sembra veder bene. Che siano cose che le ho raccontato - a voce o nel corso del nostro carteggio -, o cose che ha letto nei miei libri, il tutto certo integrato da una visione diretta, poco importa: è inevitabile, e nient'altro che logico, che un autore usi della vita degli altri, e della sua, come e quando vuole, nel modo che vuole. Se nel farlo userà per la sua vita la stessa misura usata per quelle altrui, ovvero se sarà spietato con se stesso quanto e più che con chiunque altro, non abbiamo nulla da dire. Il punto non è questo, quanto piuttosto quei giardini di tristezza devastante e i cubi di cemento di cui sarebbe composto il paese. Non sono cubi. Non sono di cemento. I giardini non sono affatto tristi. Non sono nemmeno allegri, ma, a chi vuoI guardare, dicono molto sugli esseri umani che li governano. In effetti, da quando, proprio nella mia via, due o tre case hanno cambiato proprietari, i giardini, per contrasto, dicono ancora di più. È sintomatico: appena una proprietà passa di mano, prima ancora che la casa, viene fatto fuori il giardino. Mi ha sempre fatto una grande impressione. Perché?, mi sono sempre chiesto. Gli adeguamenti interni, quelli posso capirli, anche se spesso non sono certo che il risultato sia un miglioramento, né sul piano estetico né su quello funzionale; ma questa smania di far fuori il giardino, per poi riordinarlo secondo quello che sembra un modello ormai stabilizzato, almeno da queste parti, e che comprende l'insopportabile prato cosiddetto inglese, con relativo e indispensabile sistema d'irrigazione automatico, l'irritante pietra/blocco da giardino, la claustrofobica o, a seconda dei punti di vista agorafobica, siepe di alloro, gli alberi nani e, ultimamente sempre più spesso, uno o più ulivi centenari. Questo sì che mi intristisce. Specie gli ulivi. Triste che qualcuno compri un albero centenario da mettere in giardino. Più triste ancora che qualcuno lo venda. A giudicare dalle macchie di ulivi centenari, in vaso, che punteggiano i bordi delle statali, di pertinenza della ditta vivaistica di turno, penso si possa parlare di una vera e propria deportazione degli ulivi in atto. Mi sono chiesto spesso da dove vengano, quei vecchi contorti e rugosi, sradicati, ficcati insieme a un po' della loro terra in un vaso di plastica, deportati e infine, dopo essere stati adeguatamente tosati, esposti lungo una statale del cazzo come la Thiene-Bassano. Saranno ulivi pugliesi, mi dico ogni volta che passo, o calabresi, o magari spagnoli. Potrebbero anche venire dalla Palestina!, eventualità che darebbe alla questione una venatura biblica. Preferisco non indagare. Un simile commercio qualifica automaticamente i suoi attori, ovvero li squalifica, senza bisogno di indagare oltre. Inquieta anche il fatto che i nuovi giardini tendano ad assomigliare in modo impressionate a quei «rendering», anch'essi uno standard, che si trovano esposti nelle vetrine delle sempre più numerose agenzie immobiliari che impestano la periferia diffusa. Ne avevo una vicino a casa qualche trasloco fa, quando abitavo in un appartamento di due stanze con bagno nel quartiere di Santa LuciaIII. Anche gli immobiliaristi, titolari o agenti che fossero, avevano aspetto e formattazione standard: stessi vestiti scuri, stesse camicie scure - se donne, tailleurs e tubini stile «ministeriale», stessi occhiali scuri, stesse auto scure o metallizzate, di solito parcheggiate di fronte alle vetrine dell'agenzia, naturalmente sul marciapiede, in zona rimozione e sulle strisce pedonali, stessi giornali scuri, stesso atteggiamento, simile linguaggio; e tutto un parlare a vanvera di ordine, disciplina, tolleranza zero, insomma di politicaIV. Lo so perché frequentavo lo stesso bar. Tornando ai giardini formattati, che sono apparsi anche in via Dante, quale differenza con gli altri, quelli autoctoni: così come le case - bifamiliari a due piani con tetto spiovente a una falda e spessi muri di mattoni risalenti ai primi anni Sessanta -, anche i giardini hanno una struttura che rimanda a un'epoca. Prima di tutto c'erano gli orti, e, là dove i primi proprietari resistono, ci sono ancora; e la parte tenuta a giardino è estremamente varia, non c'è nessuno standard: ognuno disegnava il proprio giardino in modo spontaneo, cioè non lo disegnava affatto, per quanto le varietà di fiori e piante e alberi e financo erbe mantengano una certa uniformità. Niente ulivi, niente betulle, niente aceri rossi o ciliegi giapponesi. Albicocchi, peschi, cachi, fichi, un melagrana, un paio di magnolie, qualche pino, e ortensie, rose, tulipani, gladioli, viole, ciclamini, fratini, fiori di cristallo -li nomino così, coi nomi che usava mia madre, e gerani, aspidistre eccetera. Altri tempi, altri uomini e donne. Impensabile per loro, avendo un po' di terra, non tenere un orto. Impensabile anche farsi fare, e addirittura farsi curare il giardino da qualcun altro, che poi, cosa ancora più impensabile, bisogna anche pagare. E naturalmente niente tosaerba elettrici o sistemi di irrigazione elettronici. Mio padre, ogni tanto, si metteva in canottiera, calzava le scarpe da orto - cioè delle scarpe vecchie, prendeva la falce, si sedeva sul gradino della veranda a fargli il filo con l'apposita pietra, e falciava il prato. Poi prendeva il rastrello e distribuiva l'erba falciata in un certo modo, come si fa ancora in montagna quando «si fa il fieno». Di lì a pochi giorni sarebbe passato a prenderla un vicino che teneva, dietro casa, dei conigli. Naturalmente a scopo alimentare. Intendo i conigli. Va specificato. Ora i conigli, meglio se nani, sono animali da compagnia, o forse da giardino, visto che non è raro vederli brucare tranquilli una razione di prato inglese. Con uno avevo fatto amicizia, quando abitavo a San Bortolo.




Ogni tanto gli portavo una gamba di sedano. Lo chiamavo, veniva, si faceva accarezzare. Avevo fatto amicizia anche con altri animali: un cocker che abitava proprio davanti a casa mia, e un pitbull femmina, che stava di fronte al coniglio, e divideva il giardino con una tartaruga molto diffidente, almeno fino a quando non arrivai con una foglia di lattuga -lì vicino c'era un orto-frutta, procurarsi qualcosa non era mai un problema. Devo dirlo: un po' lo rimpiango quel posto. Mi ci trovavo bene. Ma casa mia è qui dove vivo ora. Anche se il paese sembra non dirmi più nulla.

   Piove. Una pioggia leggera, tipica del più crudele dei mesi - nessuna unità di tempo in questo scritto. Il giardino respira. Nuove e strane piante lo abitano: un cardo dai fiori viola venuto chissà da dove, un cespuglio di denti di leone di un giallo intensissimo, delle viole ibride che proliferano in modo inquietante e, con mia grande sorpresa, spuntate direttamente dal passato, due piante di cui avevo perso il ricordo: un'erba verde scuro, cresciuta a ciuffi compatti, di foglia lunga, dura e sottile, che un tempo delimitava le aiuole di rose, e una specie di aspidistra, o comunque un sempreverde che la ricorda, che era spuntata timidamente qua e là. Non le vedevo da quando, circa trent'anni addietro, mio padre decise che non ne poteva più del ghiaino sul vialetto d'entrata, ma soprattutto non ne poteva più che mia madre gli ricordasse che tutti i vicini ormai l'avevano rimosso e sostituito con altro materiale - betonelle, quadroni in cemento o altro, molto più pratico, visto che non bisognava rastrellare, e non si riempiva di sassi e polvere la casa, per non parlare di quando pioveva, e i bambini, anche se ormai erano cresciuti, non avrebbero più avuto a disposizione tutti quei sassi da tirarsi dietro eccetera; dunque un giorno mio padre si mise in canottiera, raccolse il materiale occorrente e, facendosi aiutare da uno dei suoi fratelli, e da me, rimosse il ghiaino e lo sostituì con dei quadroni di cemento auto-prodotti, operazione che, nel giro di una settimana, rivoluzionò l'aspetto del giardino decretando la fine delle aiuole e l'estinzione, tra le altre, di quelle piante che ora, col mio ritorno, erano tornate a germogliare. Semi dormienti. Se si sono svegliati non è un caso.

   Restare, ma continuando ad andare e venire: è in questa dialettica che la cosa si risolve. Almeno per ora. Scrivere, dunque stare qui. Se non riesco a scrivere potrei ammalarmi. E al tempo stesso cogliere ogni occasione per schiodarmi di qui, visto che, se ci sto troppo, mi ammalo di sicuro. Sembra possibile. A patto di farlo senza pensarci tanto. A dire il vero è già così, e la cosa non mi dispiace affatto. Dunque non pensiamo ci più. Non ho abbastanza immaginazione per figurarmi qualcosa di diverso, almeno rispetto alla mia parabola mortale. L'opera, solo questo conta. Dove vivo ha poca importanza.
«Mi hai fatto vedere la tua stanza di quando eri ragazzo. Fuori da quelle finestre, la distesa di cubi di cemento con il giardino, le statue piantate nell' erba, i cani, le antenne paraboliche sui tetti, i gerani, le tendine. Mi sono sentita soffocare, e mi sono avvicinata a te, per rassicurarti e rassicurare me stessa: non è in un posto del genere che avremmo vissuto, né tu, né io, non era a quella vita che eravamo destinati, noi due. A quella lenta morte quotidiana, con il contagocce6».
   Ma è proprio in quel posto del genere che mi ritrovo a vivere, anche se, lo ribadisco, non è così che lo vedo. Senza considerare che i cubi di cemento proprio non ci sono. A dire il vero neanche le statue piantate nell'erba. Però l'idea non è male. Piantare nell'erba una madonna a testa in giù! O impiccare all'ulivoV due tre angioletti! Sì: mi piacerebbe; ma ripensandoci, no: darebbe troppo nell'occhio, meglio lasciar stare. E poi vivo qui quando sono qui; e vivo a Roma quando sono a Roma, e forse questo autunno vivrò un po' a Parigi; e vivo anche in viaggio, o almeno ho sempre questa impressione di vivere, di stare vivendo, sempre, ovunque io sia e anche in viaggio. Sul tipo di vita cui non ero destinato non so che dire. Scrivo, e ho l'impressione che questo sia per sé un destino. 

   A ciascuno il suo contagocce.

24 dicembre 2011
Intersezioni ---> CITTA'

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Note:  (I numeri romani indicano le note dell'autore)

I I San Bortolo, Vicenza nord/nord-ovest, 10.000 abitanti circa, il quartiere più popoloso della città, matrice operaia, confinante, compenetrato dalla nuova base americana del Dal Molin; quartiere che ho lasciato appena in tempo, prima che la nuvola di polveri non così sottili prodotta dal gigantesco cantiere di edilizia militare lo avvolgesse. E così per i prossimi due anni, visti i tempi di consegna previsti. Trattandosi di militari, oltretutto americani, è possibile che, contrariamente alla norma, detti tempi siano rispettati.

II Giovangiorgio Trissino dal Vello d'Oro, il Folletto, che nomi meravigliosi! Poi arriva il cav. Roi, e il vello d'oro diventa di canapa, e il Folletto diventa «L'isola dei condannati», così chiamata dalla gente del paese, perché sulla piccola isola nell' Astichello, là dov' era il mulino, c'era e c'è un condominio popolare dei primi del Novecento, ora abitato prevalentemente da immigrati. Personalmente il posto mi è sempre piaciuto, ma mi rendo conto che abitare allora, quando non c'era il riscaldamento, né alcuna delle comodità che si danno ora per scontate, come l'acqua calda, il bagno in casa eccetera, in quella bassa umida e fredda, con di fronte, di là del fiume, che comunque in quel punto non misura più di tre/quattro metri di larghezza, una fabbrica che lavora giorno e notte su tre turni, e sul retro, oltre il braccio più stretto dell' Astichello, una vasta area prativa, che un tempo era una risaia, d'inverno perennemente avvolta nella nebbia, bè sì: trovarsi ad abitare in quel posto poteva somigliare molto a una condanna. Ora che la fabbrica è chiusa, e non c'è quasi più nebbia, e il condominio, pur restando popolare, è stato riadattato e convenientemente accessoriato, neanche «L'isola dei condannati» esiste più, o almeno, tolto qualche vecchio, nessuno la chiama più così. L'epoca nostra, così priva di mistero, svuota i nomi dall'interno e non è capace di farne di nuovi. 

III Quartiere confinante con quello di San Bortolo, parte dentro e parte fuori le mura che delimitano il centro storico. Mi trovavo bene, il posto era interessante: il seminario vecchio - proprio di fronte a casa, e quello nuovo, la redazione della «Voce dei Berici», quotidiano cattolico locale, un monastero francescano con annessa libreria e una contestatissima mensa per i poveri e/o disadattati vari, che, sciamando per il quartiere a ore fisse, inquietavano molto commercianti e residenti, la sede della Caritas, il dormitorio pubblico, gli uffici della SIAE, i molti immigrati dall'Est e dall' Africa e dalla Cina che vi abitavano, e tra essi le varie signore che esercitavano in casa - un paio di queste nell' appartamento proprio di fianco al mio, e poi, dato che la porta dava direttamente sul marciapiede, potevo mettere la moto direttamente in cucina. In effetti, a parte un giardino, non mi mancava niente. 

IV Al giorno d'oggi si può dire che la chiacchiera politica da bar non esista più. Divenuta prassi nei toni, nelle espressioni, nel lessico e financo nel contenuto, grazie soprattutto alla classe politica dominante, ovvero quella neodestra speculatrice e fascistoide di cui già parlava Piovene (l'espressione è sua: vedi La coda di paglia), ha contaminato a tal punto il dialogo, ma direi la comunicazione politica nel suo complesso, che non è più possibile operare alcuna distinzione tra politica e politica da bar. La chiacchiera politica da bar è la politica punto. 

V Sì: nel minuscolo giardino dell'autore c'è un ulivo. Lo piantò mio padre al posto del pino della mia infanzia, un ex albero di Natale al quale ero molto legato, che fu necessario abbattere. Che mio padre abbia piantato un ulivo mi fa specie. Probabilmente lo convinse mia madre. Comunque: bella pianta, si vede che sta bene dove sta, e io non ho niente in contrario.



1 Carlo Emilio Gadda, La cognizione del dolore, Garzanti, Milano, 1963
2 Vitaliano Tresivan, Tristissimi giardini, Laterza, Bari-Roma, 2010, pp. 36-51
3 Simona Vinci, Stanza 411, Einaudi, Torino, 2006, p. 63
4 G. Bressan, M. Illetterati, V. Giacomin, Cavazale e i Roi, Banca Popolare di Marostica, 2000
5 Vinci, Stanza 411, po. cit.
6 Ibidem

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  1. Si, hai ragione! Pensa che per far questo è stato inventato "il Responsabile del Procedimento". La morte dell'archittettura è da attribuire ai procedimenti e ai protocolli di attuazione. E' naturale le forze degli uomini sono limitate, e le fatiche imponderabili. I progetti rappresentano ormai dei procedimenti fatti di fascicoli (quando va bene virtuali!) di certificazioni, di assunzioni di responsabilità: bugie e menzogne sacrifacano dei progetti approssimativi (quelli di cui ha parlato lapidariamente il grande Beniamino Servino) e banali. L'estetica è persa e ha ormai abbandonato tutti luoghi.

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  2. Dario,
    penso che proprio i luoghi privi di filtro da estetica da ‘centro storico’ (per semplificare e usare un termine giornalistico ‘tasca’) abbiano un’estetica spesso meno banale, meno ‘hot’, trend, eccetera.
    Vitaliano Trevisan c’invita a osservare il nostro intorno: «Il problema, nell'attuale vita di tutti i giorni, è che gli automatismi e le procedure e i protocolli di attuazione ormai necessari a vivere una cosiddetta normale vita di tutti i giorni sono aumentati a dismisura, e si sono complicati a dismisura, così che, non potendo dare questi per scontati, ma dovendosi anzi concentrare in essi, l'essere umano tende sempre più a dare per scontato, cioè a ignorare, ciò che materialmente lo circonda».
    Buon tutto,
    Salvatore D’Agostino

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  3. Io invece ho trovato anche un video divertente che ci regala un altra "destinazione d'uso" di un oggetto molto usato in casa. Lo trovi qui http://www.youtube.com/user/ErmetikaSrl..

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    1. Ciao Lucia Marangone,
      ho pubblicato uno dei tuoi cinque commenti spam-pubblicitari per due motivi: il primo perché hai usato il tuo nome e cognome; il secondo perché il video blob in stile ‘candid camera’ di porte non ‘emetiche’ è coraggioso per il vostro ermetico brand.

      Saluti,
      Salvatore D’Agostino

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    2. Ciao Salvatore. uso nome e cognome perchè non ho niente da nascondere. spesso non pubblicate commenti con link e quindi ne ho messi di più sperando in una pubblicazione ;). ermetiche o meno credo sia comunque divertente il video. tutto qui..

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  4. Lucia Marangone,
    nessun problema a tal proposito ho semplicemente evitato di ripetere il tuo commento poiché, a mio parere, ne bastava solo uno.

    Buon tutto,
    Salvatore D’Agostino

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