Luca Diffuse Dammi un minuto che mi metto fuori a scrivere. Eccomi. Ciao Salvatore. 
Salvatore D'Agostino Ciao Luca.
Come stai?
Bene solo un po' di caldo.
 
Si mi dicono. In fondo ci spero. Vorrei andarmene in vacanza, non so, verso la fine del mese. 
Vacanze tardive! 
È bello stare in spiaggia senza troppe persone. Finora siamo stati qualche settimana in nord Europa. Ma a me piace nuotare.
Scendi in Sicilia? 
Forse, ho degli amici a Palermo che ho sempre voglia di rivedere. Ho delle fatture fuori, vediamo cosa mi pagano. 
Non so, che direzione prendiamo? Per ora ho da dirti di una cosa accaduta oggi. Ecco che mi ritrovo su Design Boom una casa in cui ho vissuto. 
La casa poi era qui...
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Le due finestre accanto alla canna fumaria. Poi vediamo… altre cose  carine di oggi. Ho pranzato al sole. Esattamente qui, all’enoteca  Carso...
Un attimo, prima del sole di stamani. Tu hai vissuto all'interno di una casa di legno che si affaccia su delle finestre?
60 mq di finestre esposte ad est. La mattina alle 6.00 sembrava Sunshine di Danny Boyle.
Quelle finestre a me ricordano Alfred Hitchcock. Nel  film dove un fotoreporter (Stewart) costretto all'immobilità per la  frattura di un piede, osserva dalla finestra tutto ciò che succede  all'interno di un cortile. Ma qui ti trovavi davanti un muro.
No  no. Si vedevano i tetti di altri Warehouses, verso East New York. Un  paesaggio sparso con queste ex fabbriche di birra metti ad un km l'una  dall'altra. Come isole. Certo c'era la strana sensazione di incombenza  di Manhattan alle spalle un 10 km scarsi. Quella c’è sempre da Newark a  Brodway Junction. Il ragazzo che abitava al nostro stesso piano aveva le  finestre giuste. Quelle verso ovest e Midtown. Bellissime certo, ma a  noi piaceva davvero così. East New York è un posto concreto. Era molto  dolce quando con Francesca prendevamo il treno per tornare a Brooklyn.  Ci sentivamo subito meglio. La luce soprattutto. Anche se - in un'altra  casa - siamo stati per un paio di mesi gli unici bianchi del quartiere.  Aspetta eravamo... ecco qui...
Le ultime finestre in alto a sinistra dell’edificio con gli ingressi  in marmo. Scusa la deriva Street View. Non so perché mi prenda bene  ora.
Cosa vedevi da lì?
 
Dalle  finestre della casa che ti ho linkato per ultima ho visto arrivare  l'autunno. Si sentiva la presenza del parco. Prospect Park è molto  vicino. Non vedevi l’ora di farti una passeggiata. Dalle vetrate del  loft di Terri invece arrivava l’inverno. Le mattine grigie più ampie e  desolate mai provate. E la sera la doppia sensazione degli altri loft di  quel tentativo di gentrification che è Bushwick e della vita  miserabile, primitiva, potente, del villaggio che poi abbiamo impiegato  almeno due mesi a scoprire. Poi era così assoluto che siamo andati a  viverci. In questa casa qui...
La casa a Franklin Ave - esposta ad ovest -  in autunno, ma sopratutto in inverno, ti avrà offerto la migliore luce  per osservare una città.
Non so, non eravamo molto a casa. Anzi si. Io si, prima di iniziare a lavorare a Dumbo.
Che cos'è Dumbo?
'Down under manhattan bridge overpass'.  È uno dei posti più belli di Brooklyn. Un episodio di gentrification di  20 anni fa. Se ti è capitata ‘La fortezza della solitudine’ di Lethem, è  tutta ambientata lì ed agli Heights. È un quartiere di 20 blocks sotto  al ponte di Manhattan bene o male uno dei centri della creatività  mondiale. Se non altro per lo spazio disponibile.  
Tra l’altro  probabile che quel libro sia uno dei motivi per cui sto così bene a  Brooklyn. Una storia di ragazzini. Pomeriggi nei playground, sfide  infinite a suicide. Che è un gioco bellissimo. Le linee per terra, il  muro, le mani, la palla. Una cosa assoluta. 
Ecco, per andare a lavorare quando vivevo a Franklyn passavo da qui...
 
Ho questa cosa. Quando arrivo in un posto, in una città, capisco sempre  cosa mi piace, in un modo molto istintivo. E capita che il primo posto  dove vado è anche poi quello che trovo il più bello dopo magari un anno  che conosco bene tutto. E guarda che le città me le faccio in bici  strada per strada. Ho una passione nel catalogare quartieri. Ora ti  racconto.
Sono andato a nyc perché Francesca mi chiamava da lì alle 4  di notte non pensando che il fuso orario mi fosse sfavorevole. In quel  periodo avevo lo studio nel retro di una galleria che ho - tipo -  ristrutturato. Probabilmente il posto con la luce più bella qui in  città.
Ti metto due link della piazza perché in uno c’è addirittura di spalle Massimo, uno degli operai che ci ha lavorato… 
Mentre nell’altro – oltre alla galleria – c’è la macchina del proprietario in sosta vietata...
Insomma ero lì e lei mi chiama e mi dice... 'sai io sono qui già da  un po' e se resto ancora qualche mese poi non so se questa storia possa  mantenere ancora il suo equilibrio...' Con molta dignità salgo su un  aereo meno di una settimana dopo. Che se parti al tramonto verso ovest  ti fai sette ore di tramonto. Che a me magari non interessa. Ma dopo 7  ore di tramonto romantico ci diventi. E la sera stessa siamo lì a  prendere cibo in un alimentari a Dumbo. E lei mi porta a vedere i ponti.  Brooklyn bridge a sx, Manhattan bridge a dx. E tu ti dici: 'beh, si può fare'...
Tutto il mio immaginario visivo di Hill street blues (And, hey! Let's be  careful out there") era lì. E lì poi mi è successo tutto. Nel raggio di  150 metri. Ai limiti del ridicolo. Un giorno ero a Rebar. Un bar free  wireless al primo piano del 68 di jay st. Un edificio con forse sessanta  suites di gente più o meno creativa dentro... 
E mi chiama uno che voleva offrirmi un lavoro. Mi chiama da 40 metri da  dove ero in quel momento. Era in una suite allo stesso piano del bar. E  lui pensava che io fossi in Italia. Come fai a non dare lavoro a uno che  ti si presenta così? Devo avergli fatto l’effetto del teletrasporto. 
Lungo  il corridoio per andare a parlare col tipo della telefonata si  affacciavano una serie di vetrate delle altre suites. Ti vedo un  giapponese in vetrina, lavorare ad un plastico in schiuma azzurra. Sono  entrato e viene fuori che era lo studio di Florian Idenburg. Praticamente SANAA negli USA. Tutto così. 
Un  mese fa ero in Danimarca. Avevamo affittato una utilitaria. Solo che  non era disponibile ed Europcar - scusandosi – ci ha intrappolati in un  suv (stesso prezzo) davvero enorme, che ci mettevo qualche secondo ad  andare dal lato guidatore al lato passeggero. Auto che peraltro faceva  tutto da sola. Tipo pioveva e lei da sola azionava i tergicristalli. Ne  sono ancora stupito, che io solo bici e motorino. 
Allora percorro la  città nel panico di una macchina così spiccatamente autonoma e mi fermo  in un posto a prendere su da bere. Posto che poi dopo aver visitato -  non esagero - 30 gallerie, una mezza dozzina di spazi progetto, centri  sociali e musei, tentativi di meatpacking district, un tot di baretti  wi-fi (tipologia che mi fa stare davvero bene) ovviamente dopo tutto ciò  quel posto casuale restava il più bello di tutta Copenaghen... 
Ecco secondo me uno per essere felice deve sapere cosa gli piace. E cercare di restare vicino a queste cose per lui belle. E magari cercarne di più belle e non importa se poi vai a finire a lavorare sulla nostalgia. 
Che cosa intendi per ‘nostalgia’? 
Intendo  che a volte le cose sembrano essere davvero equilibrate e belle e si  potrebbe stare così per sempre. Però ci si muove, ci si sposta ed allora  quelle cose belle non sono ancora lì in quel modo e uno ne sente il  ricordo in modo dolce. Aspetta, è tornata la Fra. Ora viene qui fuori a  fumare. 
 
Mi sa che hai messo insieme tre dispositivi importanti: il vuoto, la percorribilità e la memoria. 
A chiamarli così non li riconosco. 
Hai ragione troppo didascalico.
Francesca mi dice che la bici che si vede su Design Boom, quella rossa, è la sua. 
Penso  sia semplice, una cosa di emozioni, di cercare le cose semplici e vere,  di essere felici. Cercare di essere felici. Con Francesca eravamo sul  tetto di casa nostra a Franklin. Ci vedevamo solo la notte perché lei  stava facendo New York Film Academy e la impegnavano tutto il giorno. E  poi la sera a bere sul tetto. 
East New York è pericolosa e  rassicurante. Un posto in cui essere inghiottiti da qualche stanza o da  2-3 strade e sparire nella vita di quartiere. Difficile sentirsi  qualcuno. Li sul tetto ci dicevamo come si sta bene a smetterla di  pensare di essere importanti. Sento che ora i miei progetti sono più  carini da quando non mi metto più troppo in mezzo. 
La tua frase 'cercare di essere felici' non mi offre nessuna possibilità di uscita.
Cosa vuoi dire? 
 
La felicità ha una geografia. Nel sud - nel mio profondo sud - è una parola desueta. Da pronunciare sottovoce.
Si...  non sono sicuro di capire bene. E dicevo 'cercare' di essere felici. Ha  anche un senso dirselo. Poi si. Lasciare sospese le cose più belle è un  altro esercizio. Parlare chiaro ma non esaurire. 
Forse per le illustrazioni, comunque ci sono un tot di ragazzini davvero giovani che guardano i miei progetti, mi scrivono. 
A  volte gli faccio avere anche testi in anteprima, dei progetti o delle  cose che pubblico in giro. I più svegli mi servono proprio come  riferimento delle cose che non vanno dette. Individuano le emozioni, le  sensazioni con una bella velocità. Ed è molto divertente sentirsi goffi  rispetto a loro. Quando mi sembra di aver messo giù una buona idea, un  testo, magari gliela giro e mi tornano risposte del tipo: “si, si questo  si sa, però...” 
E dove ti porta quel però? 
Intanto  banalizza quello che a me sembrava un mezzo successo. E questo è bene.  Poi mi spostano verso un uso più delicato delle allusioni e tutto resta  in una zona sospesa. 
Allora. Ho rotto le scatole un inverno a Mario Lupano per essere in questo ‘lo-fi architecture – architecture as curatorial practice’.
Poi 2-3 mesi fa mi chiama e mi dice di venire a Venezia a lavorarci un po'. Ho conosciuto Luca Emanueli, molto carino e serio, con una famiglia davvero deliziosa e Marco Navarra, molto allegro. Carlo Ruyblas Lesi, in gamba e tranquillo ed uno studio di Treviso, Clinica Urbana, che ha come committente principale un prete spretato che pare batta moneta in una valle trentina. 
Calcola  che Mario Lupano mi piace e dunque non sono obiettivo nei suoi  riguardi. Una persona così preparata e seria e innovativa da sempre, poi  è divertente e dolce. Io ho proprio bisogno di stargli vicino. Penso a  breve di sposarmi a Las Vegas (se ripetono questo).  Non mi viene in mente un altro cui potrei chiedere di farmi da  testimone. E sostanzialmente neppure lo conosco. Non penso proprio  accetterebbe. 
Insomma ero lì con tutte queste persone più brave di  me che però si erano spinte in un campo che io vivo proprio come una  ‘attitudine naturale’. E mentre parlavo mi si presentano un paio dei  ragazzini di cui sopra. Ultima fila. 
Gli stessi di prima?
 
Si. Aspetta però. Altro intermezzo. Forse questa cosa che ti racconto è in un libro di Florian che ho tradotto per PostMedia Books.
C'era  Sejima a Princeton... Uno studente ha parlato tipo 40 minuti del suo  progetto. Raccontato in due fogli. O forse erano due progetti, non so.  Sejima in quell’intervallo di tempo consuma mediamente 600 sigarette. E  quello andava lungo. Ma davvero. 
Alla fine lei gli ha detto: “si si, ho capito, grazie grazie. Ma questo mi piace. E quest'altro no.” 
Ecco quei ragazzini fano così. Ed io bene o male mi fido di questo modo veloce di sentire le cose. 
Hai preso su la biografia di Sottsass? È un libro molto sereno. 
Amo Sottsass. A proposito della tua foto commento su Abitare online: 1000 EURO PER IL GATTO DI ISHIGAMI. 
Ah,  aspetta non è un mio lavoro. Sono disegni di Ishigami scansionati dal  catalogo della Biennale. Era anche nelle didascalie, non so perché siano  finiti lì come una mia “elaborazione”. 
Tra  la fine del 1960 e l’inizio del 1970 Ettore Sottsass aveva praticamente  smesso di lavorare. Rifletteva, scriveva e soprattutto disegnava. Con  una gran “voglia di scappare”:
«Sentivo una grande necessità di visitare  luoghi deserti, montagne, di ristabilire un rapporto fisico con il  cosmo, unico ambiente reale, proprio perché non è misurabile, né  prevedibile, né controllabile, né conoscibile… mi pareva che se si  voleva riconquistare qualche cosa bisognasse cominciare a riconquistare i  gesti microscopici, le azioni elementari, il senso della propria  posizione…»2
Viaggio che intraprese nel 1970 con la giovane artista  basca Eulalia Grau. Da quella vita seminomade nascono le ‘Metafore’ o  ciò che chiamava ‘fare costruzione’. Disegnava una ‘costruzione’, la  realizzava e la fotografava. Nella metafora ‘Architettura Virtuale’  costruisce una casa con 8 aste di legno di 3x3x2.5 mt, dove in un lato -  attraverso delle funi - appende una finestra di compensato.
Questa  architettura di Sottsass va oltre qualsiasi Leone d’oro.
Io  sono sicuro di due cose: che la tipa con cui è partito sarà stata molto  carina, e poi che - che ne so - ad una cena, non si sarebbe mai messo  lì a raccontare a tutti quanto era stato brillante ed intelligente e  concettuale a fare quelle cose. Credo che Sottsass intimamente si  vergognasse un po' di queste sue cose meno concrete. No aspetta lo dico  meglio, penso che uno non possa leggerle senza partire dal fatto che lui  sostanzialmente era lì a passare delle settimane intense con una  ragazza. 
Dalle foto che ho visto ti assicuro che la ragazza era molto bella. 
Vedi. 
 
Personalmente  non credo che sia una semplice concettualizzazione dell’architettura.  Le metafore erano degli strumenti indispensabili per le opere di  Sottsass. Nel tentativo di azzerare i significati e i segni  dell’architettura - Sottsass - acquisì una profondità progettuale che in  seguito traspose nelle sue opere. Se ci permetti le metafore mi  ricordano i tuoi progetti raccontati a Stefano Mirti. 
Ad esempio la tua recente riflessione su una facciata cieca romana. Com’è nata l’idea?
Lavoravo al terzo progetto di Small Park Narratives, i primi due erano: Greenhouse Outtakes e Headphones Park.
Progetti  sulle sensazioni che possono offrire piccoli spazi naturali che ho  scritto quando ero negli Stati Uniti. Il terzo progetto ha a che fare in  qualche modo con la storia di una ragazza che quando in spiaggia posa  la testa sul telo, ha l'impressione che un agave le parli. Ecco questo  progetto non riesco ancora a farlo. Non mi vengono i disegni. 
Allora ad un certo punto è diventato un’altra cosa: ‘For a while we were obsessed with rooftops’
Ci sono comunque ancora superfici luminose, dove sarebbe bello sdraiarsi al sole. 
I  miei progetti hanno a che fare con delle piccole storie. Storie  costruite attorno a comportamenti che mi fanno stare bene e che vedo far  stare bene anche le persone che mi stanno attorno. 
Non  penso che Sottsass volesse ‘azzerare i significati ed i segni  dell'architettura’. Cosa vuol dire una frase simile? Lui avrebbe solo  preferito che alcuni tromboni dell'architettura azzerassero se stessi,  per non perdere tempo a spiegare cose altrimenti semplicissime e  fondamentali. Io davvero preferirei mantenere il discorso al livello di  complessità di una passeggiata in un parchetto. 
Come  leghi le tue storie con l’architettura. Nel senso della quotidiana  edilizia di un studio tecnico (perdona la rudezza delle parole). 
Io  ho un quotidiano tecnico. I progetti che mi capitano hanno la  dimensione delle ricerche che puoi vedere sul sito. Sono piccole  gallerie o posti simili che lavorano in modo molto tranquillo sulla vita  delle persone e del quartiere in cui vengono aperte. Soltanto che  magari non mi piace l'uso del web così fortemente autopromozionale. Mi  sembra ridicolo mettersi lì a far vedere a tutti quello che si fa.  Nessuno pensa a quanto siano insopportabili in media le persone che  parlano soltanto di se stessi? Mi piace di più... Non so… Sabato... no  Venerdì ero ad una festa. Ed a un certo punto un gruppetto era lì che  parlava di uno spazio che ho progettato io. Ecco meglio così. 
Quanto  alle cose che faccio vedere su alcuni dei siti dove pubblico... il  senso è ancora quello di scambiare cose semplici e che fanno stare bene.  Tempo fa avevo un blog. Penso che tu mi abbia puntato a partire da quello. 
Forse  sto continuando la narrazione intima di quello ma in un modo appena  diverso. Dopo un anno di prove riesco a disegnare in modo decente le  illustrazioni dei miei progetti. Ora per me è importante raccontare le  storie di queste persone che disegno, andare oltre me stesso in questo  modo, mettermi in secondo piano. Meglio, sparire.
 
A che cosa serve un blog per un architetto?
Non  esistono differenze di genere. Quindi un blog non è utile in modo  particolare ad un architetto. Magari - proprio a guardare il modo in cui  comunicano gli architetti italiani - potrebbe servire a testare un modo  più aperto di comunicare. Non penso che l'interminabile rassegna di  ristrutturazioni che viene offerta sia granché emozionante. 
Nel  tuo blog facevi un uso creativo dello screenshot, ovvero, fotografavi  il tuo tavolo da disegno cioè il video del tuo PC, prendevi appunti,  amplificavi il tuo punto di vista, lo rielaboravi e in qualche modo  destabilizzavi il disegno tecnico, che come si sa, ama parlare in modo  misurato.
Ho milioni di screenshots di quando lavoro. Ora  sto meno ai computers anche se continuo a voler loro bene. Davvero non  destabilizzavo nulla. Salvo sempre molti screenshots e produco come  sempre molti più schizzi e disegni. Gli screenshots non mi danno  problemi di archiviazione, i fogli si. 
Mi piace così tanto il disegno tecnico. Secondo me faccio degli esecutivi veramente densi. 
Un po' fini a se stessi visto che i miei cantieri sono controllabili più che tranquillamente a voce. 
Qualche giorno fa - proprio riguardo “For a while we were obsessed with rooftops”  - pensavo a come mai ci fosse ancora una parte del progetto modellata  in digitale... in realtà penso sia una cosa di misura e sincerità. Anche  quando disegno un progetto di ricerca ne conosco e ne peso le misure. 
Non ti sembro misurato? 
Abbandoniamo  il blog e il senso della misura, ti confesso che non ho mai letto il  tuo libro scritto con Mariella Tesse ‘Sanaa. Kazuyo Sejima + Ryue  Nishizawa. Bellezza disarmante’.
 
Hai fatto bene. Era scritto in termini eccessivamente entusiastici. Però il libro ha un ottimo indice.
Da  anni scrivi per Exibart. Credi che sia possibile fare della buona  critica in un contenitore Web che ama citare tutti e tutto?
 
È  un po’ che non scrivo per Exibart. Per un po’ di tempo ho condotto la  loro rubrica di architettura. Effettivamente non era possibile  esprimersi in modo personale. Le regole erano altre ma magari ci sta  pure che mi sia stato offerto uno strumento che non ho saputo usare. Non  importa. Scrivendo ho la forte necessità di essere aperiodico e di  parlare soltanto di ciò che mi piace. Poi sono un po’ autistico quanto a  controllo della qualità. Ho bisogno di uno spazio la cui qualità  dipenda esclusivamente da come la progetto io ed assieme alla sensazione  di far parte di qualcosa di più vasto. La nuova rubrica su Abitare – Diffuse Outtakes  – magari funzionerà così. Per ora va benissimo. Invio i pezzi, me li  traducono in inglese, ma non mi editano neppure i refusi. Bello. 
Io  poi non faccio critica, al limite diffido anche di chiunque dica di se  una cosa del genere di se stesso. Parlo delle cose che mi piacciono e  nel migliore dei casi mi succede di metterle insieme in modi inattesi.  Sempre nel migliore dei casi sarei interessato più che altro ad un certo  tipo di scrittura…
 
Quale?
Contini  che impara ad usare il pc, va in dipendenza per qualche chat e scambia  mail con Foster Wallace? Tipo irraggiungibile per chiunque. Due giorni  fa ho incontrato il traduttore proprio di Foster Wallace e di Gus Van  Sant. Già bello ed irraggiungibile anche lui. Settimana prossima poi mi  sono procurato un appuntamento con Heather McGowan e quasi mi vergogno  ad andare.
Contini e Wallace è proprio un bel connubio. In  una tua conversazione Web - commenti su abitare online - con Fabrizio  Gallanti parlavi del tuo rapporto ormai inesistente con i progetti editi  nelle riviste. Che cosa non va?
I  progetti editi sulle riviste li trovo su Internet. Sempre ad avere  voglia di andarli a cercare. Quello che mi può interessare di una  rivista è come si esprime la redazione. Insomma più che la testata cerco  le persone e le loro idee quando le esprimono. Il mio problema è più  cartaceo che altro. In generale non porto più i miei libri con me da  tanto tempo. Almeno da due traslochi fa. Proprio la settimana scorsa ho  ripreso a casa dei miei due o tre cose ancestrali, il paperback di  Infinite Jest, i De Lillo (uno firmato), la storia del terzo reich di  Shirer, altre cose. Nella casa di Roma ora ho una grande libreria.  Semivuota. Quando viene gente nuova a cena mi vergogno un po' che non  sia strapiena e dico sempre questa cosa che sto scrivendo anche a te  ora...
Per finire mi passi il tuo ultimo Screenshot. 
Eccolo. Un saluto a chi mi ha seguito fin qui. Ciao Salvatore, grazie e a presto. 
 29 novembre 2010
 
29 novembre 2010
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Note:
1 Parafrasi di una di  frase tratta da un saggio di Antonella Sbrilli, Tristram Shandy Web:  il capolavoro di Laurence Sterne come generatore di una rete di  conoscenza, Engramma n. 48, ‘Internet e umanesimo’, Maggio 2006. Link:  «Nello spirito dell'intelligenza connettiva, TristramShandyWeb si  configura dunque come una rete di saperi messi in comune, usabili e  ampliabili.»
2 Ettore Sottsass, Metafore, Milano, Skira, 2002.