8 novembre 2009

0004 [SQUOLA] La testa mi fa dire

Una riflessione sulla storia e sullo stato attuale dell’università di architettura italiana ma anche un ricordo di un allievo verso il suo maestro scomparso esattamente un anno fa: Antonio Quistelli

di Isidoro Pennisi
Ricercatore presso la facoltà di architettura di Reggio Calabria

La testa mi fa dire [1]

I contenuti di queste note si presterebbero a raccontare una lunga storia che non è compatibile, però, con gli spazi agili di una riflessione da offrire online. Una storia composta da vicende, esistenze, azioni, individuali e collettive. Da persone, soprattutto, che lungo un periodo di vent'anni, in varia maniera e secondo diverse specificità, hanno contribuito a trasformare i luoghi dove si tramanda la disciplina architettonica: le scuole d’architettura. Una brutta storia, purtroppo, anche se tipicamente umana. Vera come lo possono essere le storie in cui gli uomini e le donne, per porre in essere un avanzamento, possono anche fallire e determinare un arretramento. Una storia che è brutta, allora, solo perché il risultato finale della trasformazione cui si è mirato corrisponde, esattamente, al livello più basso mai raggiunto da queste scuole. Un livello nemmeno paragonabile a quello delle scuole che, fuoriuscendo da uno dei periodi più bui della nostra storia moderna, né ereditavano l’autoritarismo e le forme accademiche di trasmissione del pensiero. E’ però una storia istruttiva. Racconta di come non sia conseguente, automaticamente, ottenere dei risultati di valore dopo aver contestato e criticato una realtà previgente. Come non sia facile trasformare la realtà, aumentandone la qualità relativa, anche avendo la capacità e la fortuna di avere il tempo e le opportunità per farlo. Un’avvertenza di metodo. Organizzare dei discorsi d’ordine generazionale – che sono leciti ogni qual volta si analizzano fatti sociali anziché individuali - non vuole dire descrivere o analizzare tutte le singole parti di un insieme generazionale. Un profilo d’insieme, infatti, non è un’addizione. All’interno di una storia, allora, ognuno presta la schiena o il petto agli eventi, e non v’è bisogno – o non vi sarebbe la necessità – di verificare l’analisi generale utilizzando, come misura, la propria e personale esperienza: in bene e in male. [2]

Al principio degli anni ottanta, le scuole d’architettura avevano ormai superato ed elaborato le contraddittorie vicende che avevano caratterizzato il clima culturale e politico del Paese nel ventennio precedente. Quelle scuole e i suoi protagonisti, a quel punto, vivevano all’interno di una condizione ideale e aperta verso il futuro. Una condizione predisposta, soprattutto, a cogliere, didatticamente e culturalmente, le nuove dimensioni che nel reale davano forma effettiva al mestiere dell’architetto.

Nelle Facoltà di Architettura, chi le animava culturalmente percepiva, infatti, che la professione dell’architetto si era modificata e si stava modificando. Modificazioni di fatto, che erano intervenute in funzione dei mutamenti dei ruoli per i quali vi era – vi è, in misura diversa, ancora oggi - la possibilità di essere chiamati a operare all’interno di una precisa domanda sociale ed economica. Queste modificazioni di fatto e queste novità – anche tecnologiche – evidentemente richiedevano una eccezionale risposta che, in qualche maniera, avesse una sostanza di una vera e propria nuova fondazione.
La scuola di architettura italiana, però, non aveva mai, sino a quel momento, conosciuto fenomeni riformativi di tipo programmatico come quello della Bauhaus, ad esempio, in cui vengono dichiarati anticipatamente le tesi e gli strumenti di formazione e conoscenza. I nostri fenomeni di trasformazione della scuola, storicamente, sono sempre stati, soprattutto, una costruzione che muta, si adatta e si organizza, attraverso dei meccanismi impliciti e lineari. I processi critici di trasformazione dei contenuti che la caratterizzano in un dato momento, al fine di pervenire alla realizzazione di nuovi assetti, non si sono quasi mai manifestati attraverso una esplicita riformulazione di un progetto, o mediante un’espressa ricerca di nuove vie. Anche negli eventi del 1968, se vogliamo, non è presente alcun fatto dichiarato e organico di radicale rifondazione, se si esclude una certa retorica di principio. Una retorica che avrebbe avuto un senso, se fosse stata seguita da una razionale formalizzazione di un progetto che, al contrario, non ci fu, anche per l’incapacità, forse, dei suoi protagonisti. Più che gli ordinamenti, nel nostro caso, ciò che ha sempre contato è soprattutto il fisiologico ricambio generazionale, che trasforma non solo il profilo anagrafico dei protagonisti ma anche il punto di vista sulle questioni della scuola e dell’architettura italiana. Se dovessimo guardare, ad esempio, ai protagonisti delle generazioni che hanno preceduto quelli che hanno animato il periodo di cui stiamo parlando, dobbiamo dire che il cambiamento da loro prodotto, si è verificato proprio quando nel Secondo Dopo Guerra questi sostituirono coloro che avevano, in qualche maniera, collaborato a fornire le immagini desiderate dall’Italia nazionalista e imperialista degli anni trenta. Fu proprio la natura stessa e anagrafica dell’avvicendamento ad introdurre delle importanti novità sia nella scuola come nel mestiere. Un avvicendamento che avvenne senza processi o punti di rottura evidenti, se così si può dire. La continuità, in sostanza, in quel caso fu concepita come un valore. I protagonisti di queste nuove generazioni riconoscevano come maestri molti di quelli che andavano a sostituire, pur preparandosi a non reiterarne le scelte.

La scuola, al contrario, iniziò a cambiare seguendo le strade della discontinuità, solo negli anni sessanta e per via di ciò che avveniva all’esterno. Il cambiamento si accese nel momento in cui i problemi della città e delle procedure di trasformazione dell’ambiente urbano, cessarono di trovare un posto estemporaneo nei bagagli disciplinari individuali, diventando l’oggetto di sperimentazioni didattiche diffuse. Questo avvenne quando il problema della storia, ad esempio, diventò quello della conoscenza delle culture materiali e non solo delle emergenze più evidenti e, spesso, non rappresentative. Questo cambiamento iniziò verso la meta degli anni sessanta, ma non si era ancora concluso all’inizio degli anni ottanta. Dopo molti anni, quindi, per vari motivi che andrebbero prima o poi approfonditi, il reale portato storico di questa pretesa di cambiamento era ancora del tutto in gioco. Era in gioco, soprattutto, la possibilità di rinnovare il profilo didattico e conoscitivo delle strutture universitarie dove si apprendeva e insegnava l’Architettura. Un cambiamento che investiva la stessa definizione di manufatto architettonico e delle sue leggi costituenti. Questo processo, però, conteneva dei rischi. Tra questi, il più rilevante era quello di arrestare l’opera di riesame profondo, sia epistemologico che professionale, fermandosi in superficie; appena al di sotto di un livello d’astrazione ideale. Il rischio, se non ci si andava a confrontare e misurare con il sistema reale di cui l’oggetto architettonico è parte, era quello di approdare sulle spiagge suadenti dell’esercizio puramente verbale o estetico. Quello che era in gioco, in sostanza, era il mandato sociale del nostro mestiere, da ridefinire ed inserire nelle strutture didattiche. Senza la chiarezza di questo mandato, infatti, ogni espressione materiale diventa occasionale, ininfluente, inadeguata ad una realtà che, in questo senso, non sa come collocare un mestiere che influisce, al massimo, sulle proprie questioni interne. Senza un mandato sociale chiaro, non esiste evento o funzione che non si riduca, nel tempo, allo stato d’entità protetta, alla stessa maniera con cui alcune culture, una volta importanti, diventando marginali e residuali, vivono, da un certo punto in poi, in una riserva a esse destinate.

All’inizio degli anni ottanta, quindi, quando si trattava di portare a compimento l’opera di trasformazione delle scuole d’architettura, succede che all’interno di queste convivevano due ambiti generazionali diversi e distinti, anche se legati tra loro dal vincolo che unisce un maestro e un allievo. Uno andava esaurendo il proprio compito, mentre l’altro si preparava a sostituirlo pienamente. Il primo ambito generazionale si riconosceva ancora, pur vivendo e consumando la fase di esaurimento di un compito, nel tentativo di trasformazione che abbiamo prima tracciato. Un tentativo che intravedeva un fine in cui la definizione che avrebbe assunto l’architetto era quello dell’intellettuale organico - nel senso che Gramsci assegna a questo termine -. Una definizione che conteneva al suo interno la necessità, per l’architetto, di tracciare dei segni che fossero la conseguenza, in termini organici, delle dimensioni della realtà morfologica, sociale ed economica reale. Il fine delle trasformazioni della scuola che essi avevano provato a realizzare, in quel momento, era quindi quello di costruire un nuovo progetto didattico che avesse lo stesso spessore di questa realtà. [3] Il merito di quella generazione che andava ad esaurire fisiologicamente il proprio compito, quindi, era quello di aver dato carne e anima a questo processo di trasformazione, che in quel momento, però, non era assolutamente compiuto. Al momento della consegna del testimone, quando un secondo e più giovane ambito generazionale andava sostituendo quello precedente, avveniva, però, che all’esterno della scuola, i principali architetti di questa nuova generazione discutevano e nutrivano il dibattito, come si diceva, proprio sul rifiuto, più o meno esplicito, di questa concezione organica lasciata in eredità dai loro maestri. Un rifiuto che questa generazione, che si apprestava a guidare i processi formativi e di trasmissione del sapere architettonico, si proponeva d’introdurre, in modo programmatico, proprio nella scuola.

La struttura didattica che questi ultimi ereditavano, quindi, era stata costruita per formare uno sperimentatore abituato ad affermare il proprio ruolo di fronte all’intero processo edilizio, in cui la città, l’edificio, gli oggetti, assumevano una consistenza di forma che necessitava di una medesima coscienza metodologica, in cui la volontà creativa fosse organica al materiale da trasformare. Questa nuova generazione che prendeva le redini delle Facoltà d’Architettura, al contrario, si apprestava a modificare questo approccio. Non è un caso, allora, che verso la metà degli anni ottanta, quando oramai l’avvicendamento generazionale era stato completato, il dibattito architettonico, soprattutto italiano, trovava alcuni minimi comuni denominatori evidenti: il recupero della tradizione costruttiva, della storia, del disegno, del progetto, tutti intesi in senso volutamente tautologico. Un dibattito in cui era chiaro, che dietro il soggetto di un recupero dello specifico disciplinare - come si affermava – più che altro andava in scena proprio un senso di legittimo rifiuto di un’idea organica dell’architetto e dell’architettura.

E’ in quel momento cruciale, e nella saldatura tra idee e responsabilità di governo delle Facoltà d’Architettura, che nasce il disegno di riforma più incisivo e radicale degli ordinamenti delle scuole d’architettura del dopoguerra, che avrà il suo sfogo legislativo agli inizi degli anni novanta. Anni in cui si ritrovano, nei punti nevralgici di direzione organizzativa, politica e culturale, delle Facoltà d’Architettura, un insieme di docenti e architetti che individuarono, legittimamente, i punti salienti di una lettura critica sullo stato della disciplina e della professione. Dei punti che andavano dagli effetti negativi prodotti dall’introduzione, nello specifico tradizionale della disciplina, d’ambiti scientifici e conoscitivi diversi ed inediti, alla conseguente contaminazione del corpus storico disciplinare dell’architettura. Sotto accusa, soprattutto, furono le introduzioni legate al problema della città e dell’urbanistica, alle questioni riferibili alle dimensioni sociali ed economiche, sino a una diversa maniera d’intendere la storia. Introduzioni fallimentari: questa fu la sentenza di allora. Quelle nuove dimensioni disciplinari non solo erano inutili, ma toglievano tempo ed energie alla centralità dell’addestramento progettuale che, invece, doveva tornare ad essere nodale. Questo tipo d’analisi, elaborata dai giovani protagonisti dell’epoca, anche se legittima, tendeva però, più che altro, ad elaborare una maniera utile a chiudere definitivamente il rapporto diretto e indiretto con i loro maestri. Questa elaborazione li portò a richiamare in servizio, quindi, un bagaglio evidentemente inattuale. Oggi è del tutto evidente, infatti, che richiamarsi in maniera troppo semplicistica all’autonomia disciplinare, alla specificità dell’architettura, senza dire nulla di chiaro su che cosa siano l’una e l’altra cosa, o su quali condizioni ponevano in quel momento, e indicando, semplicemente, il sentiero di una tradizione perduta in un attimo di follia collettiva, ritrovata dopo la fine del “proibizionismo moderno” , fu un’operazione umorale più che intellettuale, anche se, ad onor del vero, del tutto onesta e disinteressata. Attraverso le lenti di questo recupero nostalgico di una realtà che non era più, fu messa però sul tappeto una questione del progetto che, posta nel modo in cui fu posta, più generica non avrebbe potuto essere. Il progetto d’architettura, infatti, nella realtà storica di sempre, è l’essenziale momento di sintesi di conoscenze specifiche e d’abilità pratiche, che hanno la necessità, però, di trovare un loro punto d’equilibrio all’interno di una planimetria precisa di conoscenze. Senza interrogarsi continuamente sulla natura di questa planimetria, e senza riconoscerne i nuovi elementi e le diverse dimensioni, evocare la centralità del progetto è solo uno dei modi più comuni per proferire una delle più semplici parole d’ordine.

La radicale riforma degli ordinamenti didattici delle Facoltà di Architettura introdotta all’inizio degli anni novanta, quindi, provava a tradurre in pratica i risultati di questo processo critico utilizzando una riscrittura di questi ordinamenti nel frattempo divenuti necessari, dal punto di vista legislativo, in funzione dell’emanazione di una Direttiva Europea, che aveva per oggetto proprio le scuole e gli studi di architettura. [4] Non è un caso, allora, che furono soprattutto tre le novità di questa riforma: l’introduzione di alcune inedite condizioni di lavoro didattico – il Laboratorio di Progettazione e i Corsi Integrati – ed un nuovo dimensionamento dei pesi e degli equilibri tra le diverse componenti disciplinari, insieme ad un netto aumento del carico didattico complessivo. Cos’è un Laboratorio? E’ una struttura didattica composita, dove far convergere diverse discipline - di cui una caratterizzante e altre di supporto - da sintetizzare nell’esercizio della progettazione. Apparentemente una conquista: un traguardo del tutto condivisibile. Quali, però, i problemi? Il primo è stato il confondere la scala e il significato del risultato che si voleva raggiungere, con la sua reale fattibilità. Una fattibilità che gravava interamente sull’adeguatezza degli interpreti di questo nuovo progetto didattico. Una cosa, infatti, è l’apprendimento del mestiere all’interno dei processi di partecipazione di un allievo con un maestro - o con una persona di maggiore esperienza – nel mentre si opera insieme sul progetto. Dei momenti in cui l’allievo ruba, assimila, apprende, gli aspetti pratici, le procedure analitiche e le risposte sintetiche di un progetto, nello stesso momento in cui, insieme, si produce uno sforzo progettuale. Altra cosa è trasferire le azioni d’apprendimento, il tempo da utilizzare per fare pratica progettuale individuale, spesso faticosa e ripetuta, da un comodo habitat privato in uno scomodo spazio di un’aula universitaria, senza modificare le relazioni e i rapporti tra allievo e docente. È chiaro che i due casi non sono la stessa cosa. Nel primo caso, infatti, siamo di fronte ad una delle più antiche e ideali forme di trasmissione del pensiero e del fare architettonico - ancora valido, io credo - mentre nel secondo caso, l’unica differenza è il luogo dove si svolge il lavoro di apprendimento, che comunque rimane identico a quello che ci si prefiggeva di modificare. O si riesce a trasferire nella scuola, quindi, non solo lo spirito che impregna questa antica modalità di trasferimento delle conoscenze dell’architettura, ma anche la situazione reale e ottimale all’interno della quale si svolge il lavoro - e questo è tutto da vedere - oppure, ciò che rimane è un puro velleitarismo. L’istituto dei Laboratori, quindi, soprattutto nella loro applicazione, ha contribuito ad una maggiore disarticolazione disciplinare, ottenuta attraverso una maggiore atomizzazione dei singoli contributi. Attraverso un utilizzo non sostanziale ma strumentale dei Laboratori, si è prodotto un processo di proliferazione di sub discipline che, lentamente, hanno costituito, anche in chiave accademica, una sorta di federalismo della didattica, se così possiamo definirlo, in cui dei successivi e ripetuti livelli di frammentazione hanno trasformato un corpus unico, ma articolato e relazionato, in tante parti senza alcun significato culturale ed epistemologico. La seconda questione, fu la scelta e il peso dei contributi disciplinari articolati all’interno di quella organizzazione didattica, e insieme la quantità di tempo da utilizzare per svolgere l’offerta didattica. La riformulazione dei pesi assegnati alle diverse parti che compongono il curriculum disciplinare, ha lasciato all’esterno, o ha reso marginali, alcune dimensioni importanti del sapere di un architetto che vive e opera in questo tempo. Questa marginalità - in alcuni casi l’espulsione - d’aspetti culturali del sapere, è stata prodotta attraverso una scrematura degli insegnamenti, ricondotti a subordinazioni rispetto a principi non verificati. La dimensione urbana, soprattutto, ma anche lo stretto legame esistente tra processi d’ideazione, la progettazione architettonica e la trama effettiva dei fenomeni complessi che ordinano il reale – le questioni legislative, economiche, sociali, storiche e culturali, dell’arte come della tecnica - non hanno più un posto chiaro e deputato nei piani di studio.

Questo tentativo, onesto e oggettivamente finalizzato a dare un assetto moderno ma radicato nella tradizione alle nostre Scuole di Architettura, si è quindi infranto, credo, proprio contro l’incapacità degli interpreti nel dargli un anima e una prassi realistica. Un tentativo, e arriviamo ad oggi, che, anche in questo caso, era ancora in piena sperimentazione quando, all’inizio del primo decennio di questo secolo, ha dovuto confrontarsi con la riforma complessiva degli ordinamenti universitari italiani. Un confronto che si poteva anche evitare, però, visto che la riforma stessa, realisticamente, permetteva ad alcune Facoltà, tra le quali quelle di Architettura, di mantenere inalterati, negli aspetti principali, gli assetti didattici previgenti, per via del fatto che questi, in alcuni casi, erano stati già riformati in funzione di Direttive Europee specifiche che non collimavano con le caratteristiche fondamentali e generali di questa riforma. [5] Ogni Facoltà diede vita, al contrario, ad uno smantellamento dell’assetto formativo unitario in essere, che fu sostituito da una miriade di Corsi di Studio, differenti tra di loro e nati in funzione delle scelte autonome delle diverse sedi universitarie. Queste differenze erano di tipo organizzativo – i Laboratori, ad esempio, vennero interpretati nuovamente secondo logiche molto diverse tra di loro – di tipo qualitativo – i piani di studio contenevano discipline molto diverse tra sede e sede – e soprattutto quantitativo – il carico didattico era diventato un fattore del tutto soggettivo e variava non solo da sede in sede ma anche da anno in anno, e il numero delle discipline inserite nei piani di studio erano completamente diverse in base alla Facoltà –.

Questo percorso ultrariformatore, condotto senza alcun coordinamento nazionale e in piena autonomia, ha portato le diverse sedi a scegliere ognuna un percorso diverso, prefigurando, così, tante vie per uno stesso obbiettivo; tante prassi per uno stesso mestiere, per un identico sapere da trasferire e per una stessa struttura di conoscenze da formare. Un processo riformatore che è avvenuto, anche in questo caso, all’interno di un nuovo avvicendamento generazionale, tutt’ora in corso, e nel pieno di una mutazione abbastanza intensa di quasi tutti i principali fattori epistemologici, imposta dal timing della così detta rivoluzione informatica e tecnologica. Nuovi strumenti di disegno e prefigurazione del progetto, nuovi sistemi costruttivi, nuovi materiali, impongono ripensamenti e soluzioni di continuità che, tutt’ora, non solo non hanno trovato un quadro strategico culturale di tipo storico, ma, in maniera determinante, hanno impattato sulle nostre Facoltà trovando al suo interno un quadro dirigente, organizzativo e culturale, probabilmente non commisurato a questo compito, che rimane tutt’ora smisurato ma non aggirabile.

Da dove aggredire, in conclusione, il quadro problematico e storico che si è provato a tracciare, per inserire dei livelli di ragionevolezza e buon senso nelle nostre strutture di trasferimento e formazione del sapere architettonico? Crediamo, ancora oggi, che la natura della metodologia che deve caratterizzare le nostre scuole non può adattarsi, soprattutto nel profilo generale dei processi di costruzione di conoscenza, alle logiche delle scienze esatte. Questo è un limite, da una parte, ma è pure il dato di fondo della nostra identità e della nostra legittimità. I nostri studi non possono partire da modelli matematici e dalla loro sostanza astratta. Per chi usa questa strada, la realtà e la sua capacità di risposte finite, si identificano all’interno della stabilità e l'ordine dei principi. Noi siamo obbligati ad evolvere e a formarci all’interno di un percorso del tutto diverso. Noi costruiamo le nostre astrazioni, ordinando la realtà in un sistema diverso di informazioni. È un cammino verso la coscienza, come ricorda Antonio Quistelli, [6] in cui non si procede da leggi date per risolversi, attraverso di esse, in un controllo del mondo fisico. Cosa possiamo ragionevolmente dire, allora, agli studenti che in questo momento e in questa situazione provano a vivere questa avventura formativa? Vorremo farlo dire ad Antonio Quistelli, che fu Preside di una Facoltà di Architettura e Rettore di un Ateneo, esattamente ad un anno dalla sua scomparsa. Una maniera per ricordarlo, in parte, ma anche per evocare delle riflessioni che riteniamo ancora oggi del tutto valide e buone per riabilitare, nel tempo, le nostre scuole di Architettura.

“A chi volesse fare l'architetto bisognerebbe chiedere e dire: ebbene, sapete disegnare? Può essere importante: il disegno sarà una lingua che dovrete conoscere. Pensate di saper attingere all'immaginario e insieme praticare la concretezza? E' importante. Siete in grado di dare a voi stessi l'autonomia della vostra soggettività e servirvene per interpretare la collettività? Le vostre mani sanno fare le cose? Riuscite a vedere gli uomini dietro i segni del mondo materiale e credere che valga la pena di porre voi stessi e le vostre capacità al loro servizio? Forse, se è così, potete pensare di avventurarvi in un mondo che potrà conquistarvi, ma non sempre compensarvi." [7]

8 novembre 2009

Intersezioni --->SQUOLA

Come usare WA ---------------------------------------------------Cos'è WA

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N.B.: SQUOLA è un errore voluto ed è semplicemente il nome della rubrica

Note:

[1] Come ricorda Marcello Sorgi in una sua intervista ad Andrea Camilleri (da l titolo “La testa ci fa dire”, Edizioni Sellerio) questa espressione è tipicamente siciliana e ha lo stesso significato di “presagire”, oppure, di “avere paura che una cosa sia un certo modo”. La cosa che colpisce, è che in Sicilia, anche quando si esprime un parere derivante più da un istinto o da un sentire che da un ragionamento, la testa e il pensare rimangono, comunque, il veicolo principale con cui questo parere lo si elabora e lo si esprime.

[2] Generalizzare è una cosa umanamente disdicevole. Chi però vuole fare una analisi che riguarda dei fenomeni sociali e del tutto generali, non ha altra scelta che quella di generalizzare. Si può pretendere, infatti, da una analisi, che si prendano in considerazioni le persone una ad una? Oppure è il fenomeno che tutte insieme producono ad essere rilevante? Le storie personali sono sempre diverse. Pur tuttavia, se analisi deve essere non può che riguardare l’intero corpo e la fisiologia completa di un organismo. Nella storia, diversamente che nel campo giuridico, dove sono state e sono una forzatura, esistono realmente le responsabilità associative. Bisogna allora imparare a prendersele tutte queste responsabilità, anche quando, in buona fede, non ci si riconosce nei risultati e nella maniera con cui è stata condotta collegialmente una vicenda.

[3] Valga per tutti, come esempio, solo per ricordare le due figure che più di tutte hanno messo al centro del loro lavoro di docenti una riflessione organica sulle scuole di Architettura, l’opera portata avanti, in questo senso, sia da Saverio Muratori che da Adalberto Libera, su cui sarebbe meglio tornare a riflettere.

[4] Su questa Direttiva si è molto speculato, dando ad essa una valenza sproporzionata rispetto ai suoi reali contenuti. A leggerla con attenzione, si nota che le questioni fondamentali si riducono a due: un elenco di dieci punti programmatici di tipo culturale e professionale sui quali basarsi nell’organizzare gli ordinamenti delle Facoltà di Architettura in Europa e un tetto minimo di anni – quattro – riguardo alla durata di un percorso di studi riconosciuto da tutti i Paesi membri dell’Unione Europea.

[5] Nonostante tutto, le Facoltà di Architettura modellarono la loro offerta didattica fondamentale – quella destinata a formare Architetti – secondo la destrutturazione in due livelli del percorso di studi, dimenticando che la Direttiva Europea in questione non ammetteva titoli di architetto conseguiti attraverso un percorso di studi composto da almeno quattro anni. Questa operazione, svolta secondo logiche del tutto arbitrarie e con profonde differenze tra le diverse sedi universitarie, ha portato in poco tempo a disegnare un quadro didattico del tutto difforme rispetto ad altre realtà europee, da una parte, e a rendere assolutamente non credibile l’idea che ci fosse una idea di formazione dell’architetto in qualche maniera comune e condivisa all’interno della cultura accademica e professionale italiana.

[6] “A ragione siamo posti al limite di quell'ambito che viene ancora detto umanistico, se con questo si intende qualcosa che pone la sua centralità nella coscienza; che pone la sua centralità nella costruzione di una responsabilità morale una volta che si è preteso il privilegio di assumere la propria soggettività (la propria coscienza collettivo-soggettiva) come riferimento, come "metro”, come giudice della qualità delle relazioni che impariamo a riconoscere, dalle interazioni che osserviamo.”

[7] Il brano è tratto da un intervento svolto da Antonio Quistelli nel 1989, durante le attività di orientamento organizzate dall’Università degli Studi di Lecce.

3 commenti:

  1. un saggio chiaro, avanzato e anticonformista

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  2. Prima parte:
    Isidoro,
    in un editoriale di qualche anno fa (ottobre 2005) scritto da Francesco dal Co per la rivista Casabella (n. 737) dal titolo emblematico ‘In Italia ci sono ventitré facoltà di architettura. Prossima tappa i Corsi di laurea di quartiere?’
    Proponeva: «Queste poche righe non contengono che appunti; ben altro sarebbe lo spazio che la gravità del problema richiederebbe. Però, per comprendere come la patologia che le Facoltà di Architettura italiane denunciano sia degenerata, basta leggere il Piano strategico 2005–2015 presentato recentemente dalla Bocconi, per rendersi conto dell’abisso che separa le nostre Facoltà da ciò che sarebbe serio proporsi di fare e che, per l’università milanese, è così riassumibile: reclutare il 50% dei nuovi docenti sul mercato internazionale; non sottostare all’“egualitarismo salariale” e agli automatismi che vigono nell’università di stato per selezionare il personale docente; sviluppare la ricerca; aumentare del 35% in dieci anni gli insegnanti di ruolo; affidare il 20% del carico didattico a docenti esterni; assumere 50 docenti stranieri stabili; portare al 15% la presenza degli studenti stranieri; incrementare strutture, assistenza, programmi di formazione postlaurea, ecc.»
    E terminava con una domanda: «Le scuole serie (di solito si trovano in grandi città o in campus attrezzati) possono contare sui progettisti e professionisti migliori; costoro raramente diventano “professori di ruolo”; viaggiano e insegnano sino a quando questa attività li interessa o è utile – anche per poco tempo, perché oltre ad insegnare tutti costoro sono architetti (Mies van der Rohe non aveva dubbi: per insegnarla, l’architettura bisogna saperla fare). Ma vi immaginate Jacques Herzog a insegnare a Rende, Moneo a Dalmine, Cecil Balmond spiegare come un edificio si regge in piedi ad Aversa?»
    Puoi trovare il link qui ---> http://www.arcomai.it/index.asp?id=post_972301

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  3. Seconda parte:
    Ho pubblicato il tuo articolo poiché penso che occorre sfatare la sensazione che su internet non sia impossibile reperire fonti documentate e autorevoli o come dici ‘agili’.
    È notizia di qualche giorno fa che in Inghilterra è cresciuto di 4 punti il gettito pubblicitario nella rete arrivando al 18,7%, appena lo 0,6% in meno della stampa (19,3%) e il 3% in meno della televisione (21,7%).»
    Secondo il rapporto annuale (2009) redatto dall’Eurispes il 43,4% degli italiani utilizza prevalentemente la Tv per tenersi informato. i quotidiani cartacei (26,7%), quelli on line (19,1%), la radio (7,9%) e la free press (2,4%).
    Qui il link: http://www.eurispes.it/index.php?option=com_content&view=article&id=710:rapporto-italia-2009&catid=47:rapporto-italia&Itemid=222
    Il dato ‘inglese’ci indica che nel prossimo futuro la TV deve riposizionarsi poiché la pubblicità implica di farlo.
    La tua storia spiega bene l’asincronica delle nostre università rispetto le mutazioni sociali e le sue nuove protesi (PC).
    La domanda di Quistelli: «A chi volesse fare l'architetto bisognerebbe chiedere e dire: ebbene, sapete disegnare?». Il ‘disegno’, cioè la capacità di elaborare criticamente il proprio pensiero resta il punto di partenza per formare le giovani generazioni.
    Condivido che: «I nostri studi non possono partire da modelli matematici e dalla loro sostanza astratta. Per chi usa questa strada, la realtà e la sua capacità di risposte finite, si identificano all’interno della stabilità e l'ordine dei principi». Ma non vedo strategia migliore di quella di affrontare con senno la vera sfida dell’Università l’attenzione continua nei confronti della complessità.
    Una strada possibile è quella di uscire fuori dalla propria accademia e partecipare con ‘equità’ all’azione civica del nostro paese.
    Da qualche tempo, il linguista Tullio De Mauro, pone una domanda: siamo proprio sicuri di avere degli educatori all’altezza del proprio compito? Suggerisce non dei ‘corsi di aggiornamento’ ma delle riverifiche delle personali competenze ed eventualmente dei corsi di recupero.
    Non prendiamoci in giro, occorre cominciare a sottrarre concretamente pubblico inane (professori/studenti) e abituarlo alla critica attiva.
    Una missione ‘impossibile’ soprattutto per chi da anni spolvera la propria poltrona o partecipa ai convegni con ‘benefit’ per solo colleghi/amici.
    La mia ‘testa mi fa dir’e che è proprio la testa ‘politica/amministrativa’ che occorrerebbe resettare e aggiornare ma so bene che non sono stupidi computer.
    Saluti,
    Salvatore D’Agostino

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