19 novembre 2009

0035 [SPECULAZIONE] Sulla fine del design di Umberto Eco

Less is more
Pubblico un breve saggio di Umberto Eco apparso su Lotus, n. 138, giugno 2009, pp. 115-117.
Ricordate il principio essenziale del movimento moderno ‘la forma segue la funzione’? Eco, tra l’architettura apocalittica e quella integrata, da cinico realista, introduce il concetto della forma segue il ‘mi piace’.
I like it, more or less



di Umberto Eco


Sulla fine del design
Per il Festschrift per gli ottant'anni di Vittorio Gregotti.

Se qualcuno ancora insistesse nel chiedere che cosa sia il Postmoderno in architettura, ispirandoci ai padri della teologia negativa potremmo sempre rispondere: 
«Hai presente Gregotti? Ecco, tutto il contrario».
Attraverso i suoi scritti e i suoi progetti, nel corso dei decenni, Gregotti ha delineato con assoluta chiarezza la sua visione di una architettura moderna - anche a costo di apparire inattuale. Non appena ci si allontana da quelle linee di rigore e razionalità che Gregotti ha sempre propugnato, si entra in un modo o nell'altro nel postmoderno, qualsiasi cosa esso sia.
Che cosa esso sia, per Gregotti è abbastanza chiaro, e qualcuno recentemente su internet parlava di alcune sue preoccupazioni "apocalittiche". Non so se il termine sia esagerato ma certo è che nel suo L'architettura nell'epoca dell'incessante (p. 26) Gregotti cita:
«Avvicinandoci al secondo millennio, dobbiamo iniziare a considerare la modernità come l'epoca in cui il mostruoso viene compiuto da criminali umani: imprenditori, tecnici, artisti e consumatori. Questo mostruoso non è inviato dagli antichi dei, né è rappresentato dalle mostruosità classiche: la modernità è l'epoca del mostruoso fabbricato dall'uomo». 
 E commenta:
«Se si giudica questa affermazione di Peter Sloterdijk non lontana dalla verità, si deve ammettere che le riviste di architettura e le mostre internazionali, premi e show televisivi, si sviluppano quasi sempre come campioni significativi della rappresentazione di quel mostruoso».
Nel 1999, in Identità e crisi dell'architettura europea, parlava dell'atopia spaziale (espressione invero ridondante) per cui le nuove tipologie insediative sono indifferenti alle condizioni di localizzazione e tendono ad assimilare la costruzione architettonica al manufatto di consumo. Nel 2002, in Architettura, tecnica, finalitàL'architettura nell'epoca dell'incessante (2006) dove si indicano i seguenti caratteri di una architettura che ha abdicato all'utopia modernista: (1) essa soccombe a una «estetizzazione del quotidiano» comune anche alle arti visive, a una «sovrabbondanza estetica», (2) più che inventare nuovi linguaggi riusa e scompiglia i linguaggi inventati dalla modernità; (3) tende non a realizzare le funzioni primarie dell'abitare ma a un «intrattenimento visivo». Quanto basta per liquidare se non tutto almeno gran parte del postmoderno all'insegna di «congiunzioni perverse».

Per capire quello che Gregotti vuole e quello che paventa mi è stata utile una recente visita a Shanghai, una passeggiata lungo il fiume e per la Nanjin Road e, il mattino dopo, una visita alla città satellite che la Gregotti Associati sta costruendo non lontano da Shanghai, a Pujang (sic). Punjang (sic) è una città giardino per centomila abitanti, attraversata da canali di dimensioni "veneziane", dalle tipologie riconoscibili, centri commerciali, grandi complessi d'appartamenti, villette di livello sociale visibilmente diverso (non dimentichiamo che si doveva rispondere a una committenza selvaggiamente capitalista), molto verde, giochi cromatici sobrii.
Per descrivere invece downtown Shanghai basterà dire che in confronto New York è un villaggio sporco durante un black out, e Las Vegas un Luna Park paesano di modeste dimensioni.
La nuova Shanghai è un tripudio di edifici altissimi che si presentano di notte come pagine di un albo a fumetti e si rinviano riflessi e rifrazioni; è l'annuncio di come sarà la vera città di domani progettata non per abitarvi (si suppone che quei grattacieli siano tutti uffici e non importa nulla dove stia la gente) ma per comunicare se stessa, in un'orgia di estetizzazione globale.
Dico subito che sono meno apocalittico di Gregotti. Se Pujang (sic) fosse messa in centro lungo il fiume, Shanghai diventerebbe un villaggio babilonese senza giardini pensili, e se la città lungo il fiume fosse trasportata a Pujang (sic), o sarebbe un clone senza fiume, o sarebbe la nuova downtown. Voglio dire che mi va bene che il satellite sia moderno e il centro postmoderno - almeno se non sono costretto a viverci.

Naturalmente ci sono obiezioni, ma non di carattere estetico bensì ecologico: quelle pareti di cristallo richiedono una immensa energia per riscaldare o refrigerare gli interni, i costi di costruzione sono realizzati sulla pelle di circa un miliardo di proletari, l'obsolescenza (non solo estetica ma anche dei materiali) sarà rapidissima, e non è inverosimile che entro qualche decennio, magari dopo uno tsunami provocato anche da quell'eccesso d'inquinamento, quel panorama che mi ha affascinato sia buono solo per girarvi un disaster movie. Ma, a parte le riflessioni ecologiche, che differenza c'è tra il piacevole spreco costituito dal centro di Shanghai e il piacevole spreco costituito dalla cattedrale di Chartres?
Per giustificare questa mia domanda apparentemente oltraggiosa (e per calmare gli animi dico subito che sono un ragazzo all'antica e sto sentimentalmente ed esteticamente con Chartres) debbo tornare ad alcune mie vecchie riflessioni sulla semiotica dell'architettura, quando ne La struttura assente (1968) distinguevo, per gli oggetti architettonici e di design, le funzioni prime dalle funzioni seconde. L'esempio che davo era quello della sedia: la sua funzione prima è di fornire supporto a un corpo umano articolato in modo da formare due angoli retti (busto/cosce e cosce/polpaccio) e in tal senso la sua forma comunica la sua funzione. Ma una sedia può voler rappresentare una certa dignità (come i troni o le poltroncine dei ricevimenti ufficiali al Quirinale - su cui si sta scomodissimi ma con postura formalmente corretta) e in questo senso esprime (anche attraverso il suo ornato) la sua funzione seconda, che è appunto etichettale e cerimoniale. In genere un buon equilibrio compositivo sta nella giusta bilancia tra le due funzioni, ma ricordiamo che una cattedrale gotica, se dovesse servire soltanto a riunire fedeli per i riti sacri, manifesterebbe un eccedenza della funzione seconda sulla prima. È esageratamente verticale, inutilmente esile e traforata (se non fosse per la necessità appunto simbolica di dar spazio alla luce che penetra attraverso le vetrate), quando non esibisce sculture che servano a educare i fedeli è troppo ornata (perché le grondaie debbono essere in forma di mostro?) E tuttavia questo eccesso di funzioni seconde è giustificato dall'ideologia che la ispira e che essa incarna in pietra: la cattedrale non è un manufatto abitativo, ma la celebrazione di una comunità che si, riconosce nel Sacro.

Parimenti il postmoderno di Shanghai celebra (lo dice anche Gregotti) l'orgoglio di una comunità che si riconosce nel Mercato.
Ciascuna epoca ha i propri dei, ma non è la teoria dell'architettura che deve dire quali siano quelli giusti, altrimenti si dovrebbe proclamare la scandalosa e idolatrica inutilità delle piramidi.
Pertanto il postmoderno celebra il Mercato attraverso il piacevole, lo straordinario, la novità a tutti i costi e contemporaneamente l'accettabilità di ogni provocazione. La nuova cattedrale - è lo shopping mall. Sono tutte cose che Gregotti dice qua e là. Forse, rispetto a Gregotti, sono un apocalittico cinico, visto che mi trovo bene anche a Shanghai (almeno per una sera e senza aver responsabilità di guru del pensiero architettonico), e ritengo che il fatto che molti di questi manufatti celebrativi dureranno pochissimo dovrebbe essere di conforto ai nuovi atei che non credono al Mercato, mentre la indistruttibilità di Chartres costituiva motivo di sofferenza per gli anticlericali del XIX secolo. Ma c'è un punto dell'argomentazione di Gregotti che, secondo me, richiede un supplemento di apocalisse.

Gregotti afferma a più riprese, e principalmente ne L'architettura nell'epoca dell'incessante, che tutta l'arte, architettura compresa, sembra rientrare oggi nel perimetro del design («nel senso peggiore di questo termine»), come «processo di intermediazione formale nello scambio di immagini delle merci contro merci», dove «il valore di scambio del prodotto si basa sulla seduzione del segno». È evidente che Gregotti usa sia design che estetico in senso deteriore, ma quand'ero piccolo mi si spiegava che il design è una cosa buona, perché in esso la forma segue la funzione, mentre quella pratica che sottometteva l'utente alla seduzione del segno (cambiando dell'oggetto solo la pelle) era lo styling.
Non so se il postmoderno per Gregotti abbia ridotto ogni design a styling o se in qualche senso abbia corrotto l'essenza stessa del design (ricordate: «La forma non segue più la funzione ma il mercato»). Ma se un fenomeno oggi ci colpisce (forse indipendentemente dal postmoderno e forse persino in opposizione al postmoderno) è la fine del design - ovvero del compito che il buon design aveva di manifestare attraverso la forma dell'oggetto la sua funzione.

Non sto parlando degli eccessi più o meno postmoderni come lo spremiagrumi di Starck, dove la funzione prima non solo non viene comunicata (moltissimi faticano a riconoscere l'oggetto) ma viene ridotta (lo spremiagrumi non riesce a trattenere i semi del frutto e li lascia scivolare nel bicchiere). In fondo si tratta di un conversation piece, e si paga per esibirlo in salotto, non per farsi una limonata in cucina. E neppure parlo del museo di Bilbao, dove certamente nulla, in quella simpatica megascultura a cielo aperto, ci dice che dentro ci sia un museo (o addirittura che ci sia un dentro) - ma in fin dei conti il visitatore viene spinto a circumnavigare e a esplorare il manufatto, sino a che ne scopre anche la funzione prima.
Sto parlando d'altro. Vorrei sottolineare che parlare di comunicazione della funzione prima non è la stessa cosa che ricuperare il principio classico per cui Form follows function. Dire che la forma segue la funzione significa dire sia che ne è motivata sia che la facilita, non necessariamente che la comunica. La forma aerodinamica di un razzo spaziale non comunica che l'oggetto possa volare, caso mai lo comunicava meglio l'aereo di Otto Lilienthal. In un ascensore la forma segue certo la funzione, ma l'ascensore non comunica il fatto che entrando in quella scatola si possa salire, mentre la scala ci prescrive i movimenti da fare per ascendervi.
La maggior parte degli oggetti classici che ci paiono esemplarmente comunicativi oltre che funzionali sono tali perché sono dei calchi della mano o di qualche altra parte del corpo. Seguono la logica del calco oggetti come l'impugnatura del cacciavite, il tirapugni, la maniglia, la scarpa, le forbici, l'imbuto e il cornetto acustico, gli occhiali, il piatto, il calice, lo spremilimoni originario, il volante, la sedia o poltrona. Dove c'è calco non c'è mediazione. C'è congruenza e siamo in tal caso al concetto ergonomico di affordance.
Quando la forma, se pure segue la funzione, non la comunica, occorre un'interfaccia. Il calco è sempre stata la forma più biologicamente e fisiologicamente elementare dell'interfaccia, ma non ogni interfaccia è un calco. L'interfaccia diventa importante proprio quando non c'è calco. Certamente anche in una vecchia radio l'indice graduato con manopola non ci comunicava quanto avremmo dovuto dovremmo sapere sul modo in cui una radio funziona, ma in qualche modo ci comunicava ancora la possibilità della esplorazione di uno spazio (la monodimensionalità dell'indice graduato era proporzionale alla multidimensionalità dello spazio hertziano). Ora questa comunicazione viene del tutto perduta in modelli totalmente digitali dove ci si sintonizza mediante tasti. L'interfaccia non ci dice nulla, a meno che non abbiamo letto il manuale.

Perché si è incrinato questo rapporto tra forma e funzione? Per capire meglio questo problema vorrei rapidamente tratteggiare il rapporto tra protesi, strumento e macchina. Una protesi è una estensione della capacità del nostro corpo (e tali sono martello, cucchiaio, bastone e cannocchiale), e in generale suggerisce, per qualche forma di calco o affordance, la funzione dell'organo che sostituisce o potenzia.
Lo strumento (che è manuale) invece fa quello che il corpo non potrebbe mai fare, come accade col coltello, la forbice, o la macchina fotografica. Rispetto alle protesi, produce oggetti nuovi. Tuttavia anche molti strumenti si basano sul principio del calco, persino la camera cinematografica, che ci dice dove appoggiare l'occhio per consentirci di inquadrare quel sostituto di immagine retinale da consegnare all'eternità.
Invece una macchina fa cose nuove, come lo strumento, ma indipendentemente dalla forma e dalla collaborazione dell'organo corporale che sostituisce o perfeziona. Una volta accesa, la macchina fa tutto da sola, e attraverso una serie di mediazioni meccaniche la maggior parte delle quali ci sfugge. Quindi non richiede che la maneggiamo d'istinto secondo il principio del calco, e instaura la stagione dell'interfaccia. Si pensi alla differenza tra il flauto di canna e il pianoforte. Il flauto è protesi, e ci dice per affordance dove dobbiamo porre le labbra per emettere suoni migliori di quelli che produrremmo con la sola bocca; il pianoforte è invece macchina, produce suoni che noi non sapremmo produrre, e ha un'interfaccia elaboratissima che è la tastiera (del tutto non-intuitiva: che le note salgano in altezza da sinistra a destra potrà parere ovvio a noi ma non a un arabo o a un israeliano).

Ora che cosa accade oggi? Gli strumenti e persino le protesi diventano sempre più macchina. Ma la macchina tradizionale, da quelle di Erone a quelle di Jules Verne, aveva aspetti quasi antropomorfi, denti, leve, bracci, bilancieri. L'interfaccia era spesso rappresentazione analogica di alcune di queste funzioni – si pensi al girare delle lancette dell'orologio che ricorda il girare delle sue rotelle interne. La macchina elettronica invece non ha più funzioni antropomorfe. Non solo, ma fa economia di una antica differenza di funzioni facendo funzionare tutto con lo stesso criterio. Le funzioni sono - o paiono - immateriali, e pertanto non sono rappresentabili dall'interfaccia. Per questo un solo tipo di interfaccia standard sta già unificando il televisore, la radio, il computer, il cruscotto dell'automobile, il forno a microonde, la sonda Geografica, il bisturi laser. E già sin d'ora sulla mia automobile posso comandare sintonizzazione radiofonica, ed, assestamento su velocità di crociera, notizie sulla benzina residua o sul suo consumo, temperatura e condizionamento, e ben presto gli stessi movimenti di accelerazione e freno, manovrando la stessa console, interfaccia unificata.
Per questo il design del futuro non avrà più da risolvere il problema della forma che segue la funzione, ne quello della forma che comunica la funzione. L'unica vera funzione la svolgerà il circuito elettronico stampato, la cui forma è bellissima ma astratta - e in ogni caso è impercettibile dal fruitore. Questo oggetto quanto agli effetti, ma non se ne determina il funzionamento, ne manualmente ne intellettualmente (persino il tecnico ha solo istruzioni di montaggio).
Per il resto la pelle dell'oggetto è lasciata alla genialità o all'estetismo del progettista e alle fluttuazioni della moda. Al limite una radio potrebbe assomigliare a un automobile o a un violino, e se assomiglia ancora (ma sempre meno) a una radio è perché è più comodo individuarla immediatamente come tale in soggiorno, ma per quel che riguarda la sua prestazione potrebbe essere simile a un porcellino (e ne esistono) o a una bottiglia di whisky.
La bottiglia del whisky è ancora una vecchia protesi che sostituisce le mani a conca, ma domani il whisky potrebbe essere versato mediante telecomando da ugelli posti alla base del televisore (come accade con le macchine per tè o caffè nelle aziende o nelle stazioni).

Quindi ci si avvia alla completa deresponsabilizzazione del design e alla semplificazione dell'ergonomia (un unico dispositivo dovrà azionare sia Chopin che lo sciacquone). La macchina universale del futuro assomiglierà allo schermo di Windows, e non avrà ragioni per non assomigliarvi. Quando non vi assomiglierà sarà per pure ragioni di prestigio (il versamento manuale dei liquidi rimane d'obbligo nei grandi hotel e nelle sale vip degli aeroporti, così come la Rolls Royce deve assomigliare a un'automobile di cinquant'anni fa). Per il resto la macchina universale dovrà occupare poco spazio, essere gradevole alla vista, facilmente pulibile, il più possibile leggera e trasportabile. Anche il robot del futuro non avrà forma androide ma sarà una sfera, o un cubo, la cui superficie esterna servirà insieme da specchio, telecamera, audiodiffusore, schermo tv e computer.
Rispetto a questa ipersemplificazione, là dove ormai in linea di principio ogni manufatto, dal cucchiaio alla città, potrebbe assumere la stessa e unica forma (grosso modo il parallelepipedo nero di Odissea nello spazio), si comprendono gli esercizi più spericolatamente deliranti del postmoderno, intesi a differenziare la pelle di queste macchine universali mediante una intercambiabilità ludica. L'automobile si è arrotondata per sembrare una radio giapponese, la quale si era a sua volta arrotondata per assomigliare a un Pokemon, la facciata del grattacielo diventa cartellone pubblicitario, lo spot pubblicitario imita l'arte un tempo d'avanguardia e l'arte oggi d'avanguardia imita lo spot pubblicitario di un tempo.

Le forme postmoderne sono possibili non perché si oppongono al design moderno né perché si sono assoggettate a una idea deteriore di design, ma perché il design "buono", in cui la forma segue e comunica la funzione, è morto.
Spero di essere stato più apocalittico di Gregotti. A anche se, come ho detto, sono un apocalittico cinico, e la radio alla Mazinga, che sta suonando Beethoven mentre scrivo, mi piace moltissimo.

19 novembre 2009
Intersezioni --->SPECULAZIONE
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N.B.: L'evidenziazione in giallo sono trasposte dalla pubblicazione cartacea.

5 commenti:

  1. 1° di Facebook
    Copio e incollo i commenti di facebook una piattaforma complementare al blog che facilità l’interazione con gli utenti ribaltando la logica del classico blog. Quest’ultimo legato alla serendipità e alla fidelizzazione, al contrario di FB che è ristretto ad alcuni amici selezionabili dall’utente principale che attraverso specifiche del programma coinvolge alcuni ‘amici/lettori’.
    Renzo Marrucci: L'uso ma di più il consumo della forma attraverso i media produce una sorta di fagocitazione della cultura perchè ci è accorti che produce denaro ma il denaro non è un valore in sè
    lo è solo informa indiretta. La società in cui il denaro assume un ruolo prioritario...quella società ha creato il mostro. In quella società la forma e la funzione tra di loro rapportate non contano nulla e pertanto anche l'uomo soggiace al montone e si divora senza rendersene conto. Anche l'uomo ha una forma ed una funzione e per eccellenza... qualcuno disse che l'uomo è misura di tutte le cose... non mi sembrano parole imbecilli e per cui occorre rifletterci sopra!
    Il resto sono autentiche cazzate!
    Non è morto proprio nulla e chi lo dice ci ricama sopra perchè gli torna bene... in realtà non è morto nulla e basta guardarsi bene attorno oppure basta saper riconoscere e se capisco che è questo il dramma tuttavia occorre comunque fare lo sforzo, ne vale fortemente la pena. Anzi la felicità.
    Salvatore D’Agostino: ---> Renzo,,
    fin dalla comparsa dei primi rudimentali forum, passando dai blog e adesso da facebook si è studiato il comportamento dei ‘commenti’.
    Ti sembrerà strano ma alcuni commenti a volte determinano la visibilità di un link.
    E il link è il cuore semantico del Web.
    Per capire meglio l’argomento di riporto una piccola lista di definizioni: Snark: commento sarcastico, ricco d’insinuazioni, malizioso e spesso offensivo nei confronti dell’interlocutore (vedi Snark di David Denby ---> http://www.amazon.com/Snark-David-Denby/dp/1416599452)
    Troll: commento provocatorio scritto per ‘litigare’ spesso usato per essere visibile (hai presente Gabriele Paolini il disturbatore dei telegiornali?)
    Flame: nella sua accezione ‘positiva’ descritta da Fabio Metitieri (Il grande inganno del Web 2.0) è un commento che dissente dal punto di vista dell’autore ma argomentandolo, senza far uso di limitazioni nel linguaggio (offese verbali).
    Snark/Troll/Flame sono comportamenti ‘personali’ del commentatore che io non critico, so bene che lo ‘scontro verbale’ a volte è necessario. Ciò che non condivido è l’idea che tutto può essere ridotto a una snarketizzazione o trollismo esautorando i contenuti critici.
    Accetterei con piacere i flame, poiché anche se ostili, contribuiscono con le loro argomentazioni, a recepire un punto di vista diverso.

    Tornando a Eco.
    Il semilogo non dice che il Design è morto ma afferma che la concezione del moderno (legato all’affordance) non ha più senso poiché la tecnologia ha fornito protesi e di conseguenza modi d’uso (che hanno cambiato la concezione dell’oggetto):«Quindi ci si avvia alla completa deresponsabilizzazione del design e alla semplificazione dell'ergonomia (un unico dispositivo dovrà azionare sia Chopin che lo sciacquone). La macchina universale del futuro assomiglierà allo schermo di Windows, e non avrà ragioni per non assomigliarvi».
    Eco, non erige barricate ideologiche, riflette su questo cambiamento e pare suggerire al suo amico apocalittico ‘Gregotti’ che non serve l’atteggiamento sentimentale-storico: «Spero di essere stato più apocalittico di Gregotti. A anche se, come ho detto, sono un apocalittico cinico, e la radio alla Mazinga, che sta suonando Beethoven mentre scrivo, mi piace moltissimo.»
    Una riflessione che reputo rilevante.
    Saluti,
    Salvatore D’Agostino

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  2. 2° di Facebook

    Renzo Marrucci: Grazie delle spiegazioni che tu ritieni didare ma ti assicuro che a me non me importa assolutamente nulla di codesta lista di regolette. Sai faccio come mi viene e nel modo più sincero che sia possibile... Se non lo hai capito ora anche io ti ho spiegato qualche cosa ma, sia chiaro, nelle mie parole non c'è offesa ne ironia per nessuno...

    Salvatore D’Agostino: ---> Renzo,
    non sono regolette ma neologismi legati ai comportamenti su internet.
    Non ho dubbi che tu sei sincero (per fortuna ). Volevo dire semplicemente (senza moralismi, ognuno è libero di fare ciò che vuole) che sono un po’ stanco dello snark e del troll che ricalcano l’uso mediatico atto a ‘costruire’ ascolto. Queste azioni ‘artefatte’ determinano il potere commerciale fondamentale per gestire i gettiti pubblicitari.
    In poche parole dire: ‘sono autentiche cazzate!’ fa molto ‘Fantozzi-chic’ ma non dimentichiamoci che quel film denunciava la ‘figura’ dell’impiegato succube del padrone e dei luoghi comuni derivanti dall’ignoranza.
    Mi piacerebbe uscire fuori da questa bieca trappola mediatica/commerciale. Solo un mio desiderio niente di più.
    Saluti,
    Salvatore D’Agostino

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  3. 3° di Facebook

    Maria Elena Fauci: caro salvatore, bellissima riflessione, l'ho letta tutta d'un fiato! Che dire...? anch'io ho lo spremiagrumi e sono seduta sulla mia sedia Louis Ghost (con un cuscino...)
    Salvatore D’Agostino:---> Maria Elena,
    si! È un piccolo saggio che si legge con piacere.
    È esilarante la risposta di Vittorio Gregotti che a mio avviso ‘non ha capito niente’ soprattutto la battuta finale: «la radio alla Mazinga, che sta suonando Beethoven mentre scrivo, mi piace moltissimo».
    Ti riporto il finale: «Non si tratta quindi di produrre oggetti la cui forma dipenda di modi di produzione e dall’uso necessario, ma dai modi di diffusione e dai valori di scambio che essi sono in grado di assumere. Quando tutto questo, come spesso affermo, si estende tanto da divorare la stessa architettura come oggetto di “design” ingrandito. I tempi diventano tristi, allietati solo da persone come te con cui si può discutere di queste cose.
    Un abbraccio
    Vittorio
    Un abbraccio a te Elena,
    Salvatore D’Agostino

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  4. 4° di Facebook

    Emanuele Piccardo: diciamo che l'Eco migliore si è fermato ai Sessanta. Fare l'elogio di Gregotti è un operazione molto discutibile così come affermare che l'architetto milanese non sia postmoderno
    Salvatore D’Agostino: ---> Emanuele,
    l’Eco degli anni 70’ resta ancora oggi molto valido, le sue analisi sui media sono ‘profetiche’.
    Forse ‘sbaglio’ ma la battuta finale sembra dire mio caro ‘Gregotti’ ciò che tu reputi ‘cattivo’ uso/progettazione del design nasce dal profondo cambiamento introdotto dalla tecnologia: «Ora che cosa accade oggi? Gli strumenti e persino le protesi diventano sempre più macchina. Ma la macchina tradizionale, da quelle di Erone a quelle di Jules Verne, aveva aspetti quasi antropomorfi, denti, leve, bracci, bilancieri. L'interfaccia era spesso rappresentazione analogica di alcune di queste funzioni – si pensi al girare delle lancette dell'orologio che ricorda il girare delle sue rotelle interne. La macchina elettronica invece non ha più funzioni antropomorfe. Non solo, ma fa economia di una antica differenza di funzioni facendo funzionare tutto con lo stesso criterio. Le funzioni sono - o paiono - immateriali, e pertanto non sono rappresentabili dall'interfaccia. Per questo un solo tipo di interfaccia standard sta già unificando il televisore, la radio, il computer, il cruscotto dell'automobile, il forno a microonde, la sonda Geografica, il bisturi laser».
    Il tuo ‘Less is more’ è cambiato in ‘I like it, more or less’.
    La radio a forma di Manzinga ‘mi piace’ fattene una ragione.
    Sul Gregotti ‘Postmoderno’, la sua architettura sembra più una maniera del moderno che non un postmoderno puro.
    Saluti,
    Salvatore D’Agostino

    P.S.: Come va il tuo video?

    Emanuele Piccardo: gregotti è un manierista che ha sempre osteggiato la sperimentazione. Mi raccontava Ugo La Pietra l'ostracismo nei confronti di Vittoriano Viganò, architetto brutalista che non se filato nessuno. Ostracismo operato da Rogers e dal suo allievo Gregotti oggi un vecchio trombone.
    Lettera22 prosegue la sua tournée italiana quindi bene!grazie
    Salvatore D’Agostino: ---> Emanuele,
    un vecchio ‘trombone’ ancora molto potente.
    Ovviamente tour Italiano isole escluse.
    Saluti,
    Salvatore D’Agostino

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