Pubblico un articolo di Marc Augé apparso il 17 ottobre 2009 su Le Monde con il titolo ‘L'architecture globale’. Tradotto in Italia dal settimanale ‘Internazionale’, n. 821, 13/19 novembre 2009, pp. 84-85.
Una riflessione sull’architettura ‘iconica’ e la sua deriva estetica/commerciale. Un articolo privo della retorica del non-luogo.
di Marc Augé
Oggi i nomi dei grandi architetti sono conosciuti quasi quanto quelli dei grandi calciatori. L'architettura ha raggiunto uno status molto particolare. C'è il rischio che la torre progettata da Jean Nouvel a Manhattan sia ridotta di qualche metro? La stampa insorge.
Un'azienda vinicola vuole aumentare il prestigio dei suoi bordeaux? Chiede all'architetto della cattedrale di Evry di progettare la sua nuova cantina. S'inaugura un museo a Bilbao o a Chicago? Folle di persone accorrono, attirate più dall'edificio che dal suo contenuto.
Gli architetti più noti sono celebrati nel mondo intero: molte città di media importanza cercano di convincerne almeno uno a costruire qualcosa dalle loro parti, perché così conquisterebbero una dignità turistica internazionale. Quali sono le cause e le conseguenze di questo entusiasmo?
Bisogna innanzitutto sottolineare che le opere dei grandi architetti hanno sempre espresso e rafforzato i rapporti di potere nella società. Oggi l'architettura spettacolare dei quartieri finanziari statunitensi e dei loro equivalenti europei - torri che svettano nel cielo diurno avvolte nel bagliore delle loro facciate, o che rischiarano il cielo notturno con le lucenti trasparenze dei loro uffici perennemente illuminati - rappresenta nel modo più esplicito il potere delle aziende.
Le grandi imprese che aprono una sede in una di queste torri lo fanno prima di tutto per una questione d'immagine, parola magica e affascinante che per molti riassume tutto quel che siamo in grado di conoscere del mondo in cui viviamo. Certo, lo fanno anche per offrire buone condizioni di lavoro ai loro impiegati. Ma anche queste sono una questione d'immagine. Gli open space non sono luoghi di libertà dove lo sguardo può spingersi fino all'orizzonte attraverso vetrate immense: sono luoghi dove ognuno è prigioniero dello sguardo degli altri, in un ambiente rigorosamente gerarchizzato come quello aziendale. Non a caso gli alti dirigenti hanno uffici separati.
I musei, invece, concepiti come opere d'arte, tendono a mettere in secondo piano gli oggetti, le collezioni e le mostre che ospitano. I turisti sono davvero interessati a quello che vedranno al Guggenheim di Bilbao? Oggi un museo nuovo non è solo la struttura creata per esibire degli oggetti artistici o storici, è il piatto forte della mostra.
Dietro la polemica tra etnologi e amanti dell'arte scatenata dal musée du quai Branly di Parigi, inaugurato nel 2006, c'era un altro dibattito, implicito, sul ruolo dell'architettura. Il modo in cui un architetto museale decide come esporre gli oggetti rischia di essere soprattutto un modo di interpretarli. Immergere dei manufatti africani nella penombra, per esempio, vuol dire suggerire qualcosa di vago e ineffabile più che esaltarne il valore estetico.
C'è chi parla di "cultura del progetto" per descrivere gli architetti che si contendono i progetti finanziati dallo stato, dagli enti locali o dai privati. Esaminando le proposte dei diversi partecipanti ci si accorge subito che, oltre a fornire i dati tecnici dell'appalto, tendono a enfatizzare il significato dell'edificio progettato.
È inevitabile. Immaginate cosa succederebbe se si chiedesse ai romanzieri o ai saggisti di commentare i loro libri per ottenere il permesso di scriverli: sarebbe il trionfo dell'eloquenza! È proprio questa la condizione degli architetti. Inutile stupirsi, quindi, se nei loro progetti s'insidia pericolosamente la metafora. Le polemiche sull'importanza di adattarsi al contesto non hanno senso in un'epoca in cui ogni contesto locale vuole anche essere globale e in cui la firma dell'architetto diventa il simbolo di questo cambiamento di scala. Che sia locale o globale, il contesto è solo il pretesto per creare metafore che hanno come unico referente l'architettura stessa. Per dirla con Rem Koolhaas: "Fuck the context!".
Il mondo sta diventando un'immensa città e il potere demiurgico dell'architetto è un segno dei tempi. Esegue un appalto, certo, ma questa è al tempo stesso la sua forza e la sua debolezza. La retorica dei suoi discorsi serve a conquistare mercati: per questo, spesso imita l'ideologia degli imprenditori. Per lo stesso motivo incarna il cammino della storia, forse ne è addirittura l'espressione più spettacolare e, a volte, sfarzosa.
Capire dove ci sta portando il cammino della storia, naturalmente, è un'altra faccenda. La questione degli alloggi offre un esempio di questa incertezza. In Europa, in particolare in Francia, è apparsa la categoria dei "senza fissa dimora", più numerosa di quella dei disoccupati. Tra i senzatetto ci sono infatti persone che lavorano ma non guadagnano abbastanza per pagarsi un tetto. Chi invece ha un alloggio e un lavoro deve adattarsi a una forma di crescita urbana che spesso lo condanna a ore di spostamenti quotidiani, in una città ormai priva di senso urbanistico.
A confronto con il nostro tempo.
Quando un luogo è colpito da una catastrofe, le unità anticrisi entrano in azione per fornire alle vittime un alloggio provvisorio. In Europa la maggior parte degli immigrati irregolari, e molti di quelli in regola, vive in condizioni abitative terribili. In Francia ci sono stati molti tragici incidenti in edifici residenziali che non rispondevano alle norme minime di sicurezza.
Appena scoppia un conflitto nel mondo, la televisione ci sbatte sotto gli occhi case in rovina, esodi di massa, campi di rifugiati. Ed è evidente che in tutte le grandi città del pianeta la frattura tra i più ricchi e i più poveri si esprime in termini geografici e architettonici. Le baraccopoli che credevamo di aver eliminato negli anni sessanta hanno ricominciato a svilupparsi. La metafora della giungla fa ormai parte dell'attualità, ma la cosa sembra non colpire nessuno.
Al tempo stesso la smania di costruire si manifesta un po' ovunque, in particolare nei paesi emergenti: in Cina spuntano senza sosta edifici giganteschi, ma l'architettura fatica a seguire il ritmo sfrenato dell'urbanizzazione e della demografia. Mi tornano in mente le magnifiche e spaventose immagini del bel film di Gianni Amelio La stella che non c'è.
Un altro problema è come conciliare gli eccessi dell'architettura e il risparmio energetico, che è diventato una priorità ufficiale anche nei progetti edilizi. I cosiddetti edifici "intelligenti" divorano enormi quantità di energia.
È strano: l'architettura è il mestiere che più di tutti deve fare i conti con i problemi del mondo, ma al tempo stesso ne è sopraffatta. Li insegue senza mai riuscire a controllarli. I "grandi architetti" sono più affascinati dalla possibilità di lasciare la loro impronta sui luoghi più importanti del pianeta (e chi potrebbe rimproverargli quest'ambizione?) che dall'idea di affrontare i problemi tecnici e sociali causati dall'urbanizzazione mondiale.
L'esempio di Le Corbusier dovrebbe spingere alla prudenza: il maestro, con il suo ideale dell'alloggio autosufficiente, il suo rifiuto della città storica e la passione per la tabula rasa, ha fatto molti danni. Oggi i suoi testi, insieme ad altri sogni, sono diventati quei "grandi racconti" utopici di cui Jean-Francois Lyotard celebrava la scomparsa. Ma è forse un motivo per ascoltare solo le sirene del liberismo, il cui "grande racconto" sembra altrettanto malmesso?
Sarebbe bello se gli architetti rifiutassero di presentare progetti che, in fondo, sono di seconda mano. Se avessero le loro opinioni e le esprimessero. Se si decidessero a prendere la parola. Se i più famosi non si limitassero a fare l'esegesi delle loro opere e a esprimersi con grande retorica, ma formulassero delle proposte sugli alloggi in città, su come affrontare l'emergenza pensando anche sul lungo periodo. In altre parole, se fossero loquaci quanto gli intellettuali che su questi argomenti hanno accumulato più chiacchiere che esperienza. Più ammiriamo gli architetti e più speriamo che riescano a liberarsi dalla cultura del progetto, da una forma di pensiero "a breve termine" imposta dal consumismo. E che tornino a essere dei visionari del mondo.
14 novembre 2009
di Marc Augé
L'architettura globale
Oggi i nomi dei grandi architetti sono conosciuti quasi quanto quelli dei grandi calciatori. L'architettura ha raggiunto uno status molto particolare. C'è il rischio che la torre progettata da Jean Nouvel a Manhattan sia ridotta di qualche metro? La stampa insorge.
Un'azienda vinicola vuole aumentare il prestigio dei suoi bordeaux? Chiede all'architetto della cattedrale di Evry di progettare la sua nuova cantina. S'inaugura un museo a Bilbao o a Chicago? Folle di persone accorrono, attirate più dall'edificio che dal suo contenuto.
Gli architetti più noti sono celebrati nel mondo intero: molte città di media importanza cercano di convincerne almeno uno a costruire qualcosa dalle loro parti, perché così conquisterebbero una dignità turistica internazionale. Quali sono le cause e le conseguenze di questo entusiasmo?
Bisogna innanzitutto sottolineare che le opere dei grandi architetti hanno sempre espresso e rafforzato i rapporti di potere nella società. Oggi l'architettura spettacolare dei quartieri finanziari statunitensi e dei loro equivalenti europei - torri che svettano nel cielo diurno avvolte nel bagliore delle loro facciate, o che rischiarano il cielo notturno con le lucenti trasparenze dei loro uffici perennemente illuminati - rappresenta nel modo più esplicito il potere delle aziende.
Le grandi imprese che aprono una sede in una di queste torri lo fanno prima di tutto per una questione d'immagine, parola magica e affascinante che per molti riassume tutto quel che siamo in grado di conoscere del mondo in cui viviamo. Certo, lo fanno anche per offrire buone condizioni di lavoro ai loro impiegati. Ma anche queste sono una questione d'immagine. Gli open space non sono luoghi di libertà dove lo sguardo può spingersi fino all'orizzonte attraverso vetrate immense: sono luoghi dove ognuno è prigioniero dello sguardo degli altri, in un ambiente rigorosamente gerarchizzato come quello aziendale. Non a caso gli alti dirigenti hanno uffici separati.
I musei, invece, concepiti come opere d'arte, tendono a mettere in secondo piano gli oggetti, le collezioni e le mostre che ospitano. I turisti sono davvero interessati a quello che vedranno al Guggenheim di Bilbao? Oggi un museo nuovo non è solo la struttura creata per esibire degli oggetti artistici o storici, è il piatto forte della mostra.
Dietro la polemica tra etnologi e amanti dell'arte scatenata dal musée du quai Branly di Parigi, inaugurato nel 2006, c'era un altro dibattito, implicito, sul ruolo dell'architettura. Il modo in cui un architetto museale decide come esporre gli oggetti rischia di essere soprattutto un modo di interpretarli. Immergere dei manufatti africani nella penombra, per esempio, vuol dire suggerire qualcosa di vago e ineffabile più che esaltarne il valore estetico.
C'è chi parla di "cultura del progetto" per descrivere gli architetti che si contendono i progetti finanziati dallo stato, dagli enti locali o dai privati. Esaminando le proposte dei diversi partecipanti ci si accorge subito che, oltre a fornire i dati tecnici dell'appalto, tendono a enfatizzare il significato dell'edificio progettato.
È inevitabile. Immaginate cosa succederebbe se si chiedesse ai romanzieri o ai saggisti di commentare i loro libri per ottenere il permesso di scriverli: sarebbe il trionfo dell'eloquenza! È proprio questa la condizione degli architetti. Inutile stupirsi, quindi, se nei loro progetti s'insidia pericolosamente la metafora. Le polemiche sull'importanza di adattarsi al contesto non hanno senso in un'epoca in cui ogni contesto locale vuole anche essere globale e in cui la firma dell'architetto diventa il simbolo di questo cambiamento di scala. Che sia locale o globale, il contesto è solo il pretesto per creare metafore che hanno come unico referente l'architettura stessa. Per dirla con Rem Koolhaas: "Fuck the context!".
Il mondo sta diventando un'immensa città e il potere demiurgico dell'architetto è un segno dei tempi. Esegue un appalto, certo, ma questa è al tempo stesso la sua forza e la sua debolezza. La retorica dei suoi discorsi serve a conquistare mercati: per questo, spesso imita l'ideologia degli imprenditori. Per lo stesso motivo incarna il cammino della storia, forse ne è addirittura l'espressione più spettacolare e, a volte, sfarzosa.
Capire dove ci sta portando il cammino della storia, naturalmente, è un'altra faccenda. La questione degli alloggi offre un esempio di questa incertezza. In Europa, in particolare in Francia, è apparsa la categoria dei "senza fissa dimora", più numerosa di quella dei disoccupati. Tra i senzatetto ci sono infatti persone che lavorano ma non guadagnano abbastanza per pagarsi un tetto. Chi invece ha un alloggio e un lavoro deve adattarsi a una forma di crescita urbana che spesso lo condanna a ore di spostamenti quotidiani, in una città ormai priva di senso urbanistico.
A confronto con il nostro tempo.
Quando un luogo è colpito da una catastrofe, le unità anticrisi entrano in azione per fornire alle vittime un alloggio provvisorio. In Europa la maggior parte degli immigrati irregolari, e molti di quelli in regola, vive in condizioni abitative terribili. In Francia ci sono stati molti tragici incidenti in edifici residenziali che non rispondevano alle norme minime di sicurezza.
Appena scoppia un conflitto nel mondo, la televisione ci sbatte sotto gli occhi case in rovina, esodi di massa, campi di rifugiati. Ed è evidente che in tutte le grandi città del pianeta la frattura tra i più ricchi e i più poveri si esprime in termini geografici e architettonici. Le baraccopoli che credevamo di aver eliminato negli anni sessanta hanno ricominciato a svilupparsi. La metafora della giungla fa ormai parte dell'attualità, ma la cosa sembra non colpire nessuno.
Al tempo stesso la smania di costruire si manifesta un po' ovunque, in particolare nei paesi emergenti: in Cina spuntano senza sosta edifici giganteschi, ma l'architettura fatica a seguire il ritmo sfrenato dell'urbanizzazione e della demografia. Mi tornano in mente le magnifiche e spaventose immagini del bel film di Gianni Amelio La stella che non c'è.
Un altro problema è come conciliare gli eccessi dell'architettura e il risparmio energetico, che è diventato una priorità ufficiale anche nei progetti edilizi. I cosiddetti edifici "intelligenti" divorano enormi quantità di energia.
È strano: l'architettura è il mestiere che più di tutti deve fare i conti con i problemi del mondo, ma al tempo stesso ne è sopraffatta. Li insegue senza mai riuscire a controllarli. I "grandi architetti" sono più affascinati dalla possibilità di lasciare la loro impronta sui luoghi più importanti del pianeta (e chi potrebbe rimproverargli quest'ambizione?) che dall'idea di affrontare i problemi tecnici e sociali causati dall'urbanizzazione mondiale.
L'esempio di Le Corbusier dovrebbe spingere alla prudenza: il maestro, con il suo ideale dell'alloggio autosufficiente, il suo rifiuto della città storica e la passione per la tabula rasa, ha fatto molti danni. Oggi i suoi testi, insieme ad altri sogni, sono diventati quei "grandi racconti" utopici di cui Jean-Francois Lyotard celebrava la scomparsa. Ma è forse un motivo per ascoltare solo le sirene del liberismo, il cui "grande racconto" sembra altrettanto malmesso?
Sarebbe bello se gli architetti rifiutassero di presentare progetti che, in fondo, sono di seconda mano. Se avessero le loro opinioni e le esprimessero. Se si decidessero a prendere la parola. Se i più famosi non si limitassero a fare l'esegesi delle loro opere e a esprimersi con grande retorica, ma formulassero delle proposte sugli alloggi in città, su come affrontare l'emergenza pensando anche sul lungo periodo. In altre parole, se fossero loquaci quanto gli intellettuali che su questi argomenti hanno accumulato più chiacchiere che esperienza. Più ammiriamo gli architetti e più speriamo che riescano a liberarsi dalla cultura del progetto, da una forma di pensiero "a breve termine" imposta dal consumismo. E che tornino a essere dei visionari del mondo.
14 novembre 2009
Intersezioni --->SPECULAZIONE
Splendido l'ultimo paragrafo. Sono assolutissimamente d'accordo con la funzione ermeneutica dell'architettura (anzi, no: dell'architetto) nei confronti della realtà. «È necessario vivere / bisogna scrivere». La teoria è pratica, porca miseria! Mi chiedo quando smetteremo di fare teoria pratica e pratica teorica e cominceremo ad occuparci di teoria teorica e pratica pratica imparando a far nascere la seconda direttamente dalla prima come spontanea conseguenza.
RispondiEliminaL'unica cosa con la quale non concordo pienamente è la questione museale. È ovvio ed inevitabile che il museologo faccia interpretazione delle collezioni. E tutto sommato non credo sia un errore. Può al più esserlo se il tutto si sposta al piano superiore, cioè in fase di progetto. Ma sono pronta a discuterne più ampiamente. Tra l'altro, non credo sia questo il punto focale dell'interessante contributo.
Rossella,
RispondiEliminaquesto è l’inghippo dell’Italia poiché si costruisce troppo e male.
L’architetto o l’ingegnere che sappia fare bene il suo lavoro si scontra con la dura realtà della cultura ‘edile’ basata sull’economia dei capitolati prezzari e sui cataloghi pieni d’immagini.
Un mestiere ha bisogno di pratica ma per fare con dignità questo lavoro occorre una vera e propria rivolta civile poiché la corruzione e il lavoro nero in Italia sono da paese incivile. Tutto questo compromette notevolmente la figura dell’architetto ‘locale’.
Augé si rivolge agli architetti ‘noti’ per lanciare un monito sulla possibilità di nuovi slums in Europa dicendo che c’è bisogno di maggiore attenzione alle realtà poco visibili, anche attraverso una nuova visione dell’architetto/ura.
È notizia di oggi che Obama vuole regolarizzare 12 milioni di clandestini e abbattere un muro lungo 1000 km tra gli Stati Uniti e il Messico. Ti segnalo il lavoro dell’architetto Eddy Cruz su questa realtà.
Stefano Boeri in un articolo datato 20 novembre 2007 pubblicato sul Corriere della Sera ‘C’è una domanda’ lanciò un grido di allarme simile a quello di Augé nei confronti di Milano: «Credere che, in previsione dell’Expo, Milano sappia rilanciare quella grande e nobile politica di generosità sociale che cento anni fa la portò a costruire istituzioni di accoglienza e formazione come l’Umanitaria non è un sogno. E’ anzi una necessità, se vogliamo evitarci un futuro di favelas e slums. Altre strade, non si danno».
Link: http://wilfingarchitettura.blogspot.com/2008/04/0016-citta_20.html
Che sia chiaro il nostro compito è diverso dalla generazione precedente noi dobbiamo ‘ricostruire’ ciò che è stato distrutto da provinciali e dure contrapposizioni simili ai tormentoni di Don Camillo e Peppone con una differenza niente era edulcorato e spesso si moriva sia fisicamente che territorialmente.
Una brutta storia che –ahimè- ancora stiamo vivendo.
Saluti,
Salvatore D’Agostino
1° di Facebook
RispondiEliminaCopio e incollo i commenti di facebook una piattaforma complementare al blog che facilità l’interazione con gli utenti ribaltando la logica del classico blog.
Quest’ultimo legato alla serendipità e alla fidelizzazione, al contrario di FB che è ristretto ad alcuni amici selezionabili dall’utente principale che attraverso specifiche del programma coinvolge alcuni ‘amici/lettori’.
Renzo Marucci: Che dire ? Che Augè è uno dei rarissimi sociologi che fanno il mestiere di sociologo ? Dice cose giuste sacrosante e normali!
Le dice con tono civile mentre ci sarebbe da risentirsi fortemente di questo andazzo alla deriva che invece plana a vele spiegate con le correnti della retorica più nauseante e arretrante la cultura della città e della sua architettura. Anche se in modo tiepido quasi pavido lo dice e questo è tanto per non sentirsi troppo soli in questo mondo.
Salvatore D’Agostino: ---> Renzo,
mi piace la parola ‘normale’.
Marco Paolini nei suoi spettacoli spesso parla di ‘avere il senso del limite’ che trasposto non è altro che avere la consapevolezza della normalità.
Parlando di Città.
Non è normale per Roma e Milano avere la stessa squallida edilizia dei piccoli comuni.
Non è normale che piccole città aspirino a diventare grandi solo grazie all’architettura ‘iconica’.
La normalità ha bisogno di architetture con il senso della misura e non di manifesti architettonici.
Per Roma avere solo un MAXXI è imperdonabile. Lì c’è bisogno di più architettura ‘normale’ poiché storicamente non si è mai pensato di dialogare con il nulla ‘provinciale’.
Per Roma la normalità è stata dettata da Bernini, Borromini, Michelangelo e via dicendo.
Qual è la normalità ‘romana’ di oggi?
Saluti,
Salvatore D’Agostino
Salvatore, questo bell'articolo mi offre l'occasione di continuare nel nostro scambio di commenti di oggi.
RispondiEliminaMi sapresti dire cosa c'è di così sostanzialmente diverso tra quello che scrivo da svariati mesi io, e che sono spesso oggetto di tue critiche, e i concetti espressi da Marc Augè? Non voglio fare nè il presuntuoso nè il falso modesto, dico solo che quelli di Augè oramai sono idee nell'aria, che cominciano ad essere accettate da molti ma manca, non da parte di Augè che è un sociologo, quanto degli architetti di trarne le conseguenze.
Diciamo che io faccio affermazioni più "militanti" ma per il resto davvero sottoscriverei tutto o quasi. Fantastica poi la fantomatica "cultura del progetto" su cui ho ironizzato spesso (mi spiace, ma per una volta non resistito alla tentazione di citarmi).
Penso che continuerò il discorso con un post ripartendo da questo articolo.
Saluti
Pietro
2° di Facebook
RispondiEliminaRenzo Marrucci: Che Roma e Milano siano i registri di una arretratezza culturale ormai è un fatto che è lecito assumere come paradigma della involuzione più generale e diffusa sul territorio... che è siglata dallo strapotere delle archistar incalzati e sostenuti a suon di assegni e medaglie dai tanti amati gruppi collettori i denaro di più o meno chiara provenienza... Da fette di prosciutto coprenti l'opinione della carta stampata e dulcis in fondo dallo squilibrio generalizzato della cultura architettonica piegata alla stupidità della politica e alla viltà di molti architetti e delle scuole di architettura. Ormai è normale ! Nel senso che non se ne esce dall'inviluppo... almeno per ora tocca viverlo! Il denaro trascina tutto : nobiltà e passione, amore e sentimento e se poi ci metti la mancanza di lavoro si và al ballo dei "tanti" tramite i segni luminosi della architettura spot spotterizzata spottente dei signori sindaci che la usano per fare clamore... Se siamo così coglioni da starci siamo ben serviti... ecco la normalità che dico io.
Scusa D'Agostino il Maxxi? Ma lo hai guardato bene il Maxxi ?
Una roba allucinante! Dico allucinante con il senso dell'intorcinante, parapsicoanalitico e mi verrebbe da dire anche della voglia di fare le cose all'incontrario... cioè frutto di una idiosincrasia spinta al parossismo. Con una parvenza di plasticismo sperimentale ma dove non si considera l'uomo, lo si piega come se fosse un pieghevole... alle angosce della signora hadid. Massì un Maxxi o due Maxxi per rendersene conto o tre... se proprio non lo si comprende !
Salvatore D’Agostino: --->Renzo,
io credo nel grande potere del saper camminare.
La fotografa Letizia Battaglia si trovò a documentare la mattanza palermitana camminando in vespa e a piedi.
Il giornalista Roberto Saviano ha raccontato ciò che vedeva.
L’architetto Danilo Dolci credeva nella partecipazione essendo il primo a partecipare.
Lo scrittore Walter Siti ha raccontato Roma (non quella degli architetti da divano del centro storico) vivendo nella borgata.
La regista Emma Dante ha creato uno spazio ‘La Vicaria’ in un garage del Sacco di Palermo (quest’anno un suo spettacolo aprirà la Scala di Milano).
Il poeta/paesologo Franco Armino ogni mattina si alza per andare a fare visita ai paesi dell’Irpinia.
L’architetto Federico Zanfi ha scritto un libro dal titolo ‘Città latenti – Un progetto per l’Italia abusiva’ sa che non possiamo far più finta di niente.
Occorre cambiar modo di vedere la nostra architettura basta guardarsi intorno e dare voce a tanta gente che mediaticamente non funziona poiché non rientra nelle logiche della semplificazione veloce ma nell’ascolto lento.
Basta evitare di scegliere il furbo –ahimè- una missione impossibile per noi italiani.
Che sia chiaro avere solo il MAXXI per Roma è imperdonabile poiché tutto il resto sembra una copia dell’architettura di provincia.
Mi devi credere non serve solo criticare il MAXXI ma la politica/urbana nel suo insieme, se puoi leggi Walter Siti il capitolo Urbanistica del suo libro ‘Il contagio’.
Saluti,
Salvatore D’Agostino
Pietro,
RispondiEliminaio partirei dalla frase finale di Marc Augé: «E che tornino a essere dei visionari del mondo».
Ciò che critico del tuo punto di vista sostanzialmente sono quattro aspetti:
1) Il revisionismo storico militante;
2) La mancanza di proposte oltre Krier/Salingaros/Caniggia/Muratori. Vorrei vedere ‘architettura’ e ‘città’, occorre mostrare l’alternativa senza lagnarsi del sistema nefasto (c’è molta gente anche brava che costruisce cose interessanti ‘antichiste’ perché non gli dai spazio?);
3) Parlare dell’architettura contemporanea utilizzando negativamente l’epiteto ‘archistar’ mischiando in questo vacuo calderone linguistico architetti con sensibilità costruttive diverse Massimiliano Fuksas non è Zaha Hadidi o Renzo Piano non è Frank Ghery ma tutti sono archistar. Quindi occorre parlare di architettura utilizzando il suo linguaggio e la sua grammatica;
4) Parafrasando Marc Augè ti manca una visione del mondo che sappia mediare con il nostro tempo.
Saluti,
Salvatore D’Agostino
3° di Facebook
RispondiEliminaRenzo Marucci: In poche parole non vuoi vedere il Maxxi ? Ma fai bene sai è un complicarsi la vita...
Mila Spicola: bello, bello, bello. le riflessioni dell'architetto si fanno camminando. in lungo e in largo, a piedi, incessantemente. si fanno con la matita, per strada e fuori. e sottoterra. la vicaria di emma: un dolore acuto, sia di emma che mio, però tra un pò ritorna..il tempo di riprenderci dalle botte varie ed eventuali e "cu arriva ietta vuci ritorna". p.s. non è un suo spettacolo, ma il grande onore di fare la regia scenica della Carmen che aprirà la stagione.
---> Renzo,
io vedo la città e non il semplice episodio.
---> Mila,
Grazie della precisazione.
Ecco un link: http://palermo.repubblica.it/dettaglio/una-carmen-alla-siciliana-la-scala-chiama-emma-dante/1551177
Di questo articolo sono infatti due le cose che non condivido:
RispondiEliminala prima quella riferita al contesto, anche se bisogna ammettere che quello di Augè è più una constatazione da sociologo che un suo giudizio;
la seconda quella frase finale.
Quanto al resto ti dico, ma te lo dissi già tempo fa, che piacerebbe anche a me dare spazio ad architetti tradizionali ma il fatto è che non è affatto facile, e puoi credermi. Quanto a farli parlare...è un pò più semplice ma sempre difficile.
Ad esempio c'è E.M. Mazzola che è estremamente aperto e mi manda suoi scritti e lavori, altri lo sono molto meno e non vorrei fare i nomi (non è che un architetto tradizionale ha un carattere migliore degli altri per definizione).
Però devi pensare che non c'è solo il mio blog e ultimamente ho curato per Il Covile un numero sulle periferie uscito qualche giorno fa dove ho messo insieme interventi di Isabella Guarini, Angelo Gueli, Ciro Lomonte, Sergio Porta, Salìngaros, Ciro Lomonte, E.M. Mazzola, Sergio Porta, Marco Romano, N. Salìngaros, Emanuele Strano, Gabriele Tagliaventi.
Come vedi non disdegno affatto la tua idea ma devo centellinare il tempo, dato che qui siamo tutti dilettanti.
Mediare con il nostro tempo! Generica affermazione se non riferito a qualcosa di specifico. Presa così, in generale, sono sinceramente convinto di saper mediare benissimo, purchè per mediare tu non intenda non avere principi. In questo caso allora non so mediare.
Saluti
Pietro
4° di facebook
RispondiEliminaRenzo Marrucci: Il divertente è che esiste un modo per far riflettere l' architetto? Camminando? Se è per riflettere basta riflettere anche stando seduti ma se poi ti addormenti e sogni di camminare e anche di volare ? Ma non sarà più importante anche capire ? Anche dopo aver camminato si capisce ! Con tutto il rispetto naturalmente! L'importante comunque è "capire" più che "vedere". Poi dietro alle parole in moltissimi oggi si nascondono...
Urban Lab: il senso della sostanza... la risposta più semplice a una richiesta di qualità dello spazio...forse si dovrebbe tornare sarti?
Renzo Marrucci: Spiegatevi meglio per cortesia...
Maurizio de Caro: pur essendo un autore di grande spessore in questo editoriale ha scritto delle semplici ovvietà,spero che non si passi dalle archi-star,ai critic-star.triste è quel popolo che ha bisogno di piccole o grandi mitologie
Renzo Marrucci: E' proprio triste si!
Prima parte:
---> Renzo, Urban LAb e Maurizio,
all’inizio degli anni novanta nelle scuole di architettura veniva studiato e quasi inculcato il pensiero di Bernando Secchi soprattutto uno dei suoi scritti più semplici e immediati ‘Cucire e legare’ (apparso su Casabella n. 490, aprile 1983).
Vi riporto l’inizio: Una nuova generazione di piani sta forse nascendo. A Roma come a Madrid o Napoli ed, in modi diversi, a Barcellona il «tema» è cambiato. Le parole dell’urbanistica divengono «cucire», «legare», «recuperare»; l’attenzione è posta la definizione, l’identità e la riconoscibilità della città e delle sue singole parti, soprattutto di quelle periferiche, incompiute, emarginate e degradate. Ciò che si cerca è «lo spostamento di quantità minime per ottenere nuove differenze specificità qualitative, valori».
Sappiamo com’è andata a finire a Roma e Napoli essendo stati privi del ‘modo diverso’ di ripensare la città, vedi Barcellona.
Urban Lab l’idea della ricucitura mi convince veramente poco, le più belle città italiane sono quelle più stratificate e meno legate-cucite tra i vari nuclei storici. La stratificazione e la diversità sono valori importanti.
Nel 1993G. Campos Venuti e F. Oliva scrissero una storia dell’urbanistica dal titolo ‘Cinquant’anni di urbanistica in Italia. 1942-1992. Due date significative l’inizio del crollo del regime fascista e tangentopoli.
La tesi del libro sosteneva che ci fossero state tre generazioni urbanistiche:
la prima: la fase della ricostruzione post bellica fino agli anni 60;
la seconda fase dell’espansione ‘incontrollata’ delle città per via del boom economico fino agli anni 80;
la terza fase è chiamata della ‘trasformazione’ le città si regolano e si riposizionano.
(Campos Venuti sarà l’autore dell’attuale piano urbanistico di Roma e ideatore ‘delle nuove centralità’).
Una lettura ‘tassonomica’ che se pur ricco di esempi non racconta la storia dell’urbanistica italiana, poiché non tutte le città furono distrutte e quindi ricostruite nel dopoguerra, alle città che si espandevano a causa del boom economico corrisposero città che si svuotavano, infine non vi è mai stata una generazione della trasformazione matura, incisiva e determinante simile all’urbanistica barcellonese.
5° di facebook
RispondiEliminaSeconda parte:
Ho pubblicato l’articolo di Marc Augé poiché fa eco alle recenti dichiarazioni di Rem Koolhaas e la sua nuova teoria tormentone ‘dell’architettura generica’ ovvero un ritorno alle tematiche della città con più consapevolezza (non più tabula rasa vedete qui ---> http://wilfingarchitettura.blogspot.com/2009/02/0028-speculazione-larchistar-e-in-crisi.html) o al monito di Boeri al pericolo slum a Milano (Vedete qui ---> http://wilfingarchitettura.blogspot.com/2008/04/0016-citta_20.html )
Maurizio De Caro tu dici che le tesi di Marc Augé sono “semplici ovvietà” io credo che sia il limite del linguaggio della scrittura ‘globale’ che non può mai essere specifica ma ampia al limite della banalità.
Augé-Koolhaas-Boeri sono signor Pierre Dupont (ovvero in francese il signor qualunque) o meglio i signori del Jet –lag.
Pierre Dupont è l’uomo su cui Marc Augé basa il racconto e la tesi del ‘Non luogo’.
Nell’ultimo abitare dedicato a Renzo Piano si può capire come gli spostamenti per questa gente ‘globale’ sono importanti,sembrano legati ai nodi autostradali e agli aeroporti. Per Renzo Piano impiegare 6 ore per andare a dare un premio a Zumthor è una missione.
In un’intervista alla radio Gregotti afferma che è cambiato il rapporto con il committente poiché adesso ci sono solo le ‘Real estate’.
Sono convinto che i signor qualunque-Dupont hanno una visione limitata dell’Italia poiché si sono dimenticati di camminare a piedi.
Sono convinto che i ‘non-luoghi’ sono il pane quotidiano- gli amori-gli incontri- della gente che lavora per far funzionare i loro transiti.
Maurizio e Renzo capisco la vostra preoccupazione ma abbiamo bisogno di gente seria che sappia capire (con la giusta professionalità, sono banditi i provinciali del ‘io so tutto’) i mali non del mondo ‘globale’ ma del proprio ‘intorno’.
Sono convinto, come Rebecca Solnit, che l’atto del camminare (critico e pratico) è rivoluzionario.
Saluti,
Salvatore D’Agostino
Pietro,
RispondiEliminacontinua così parla sempre meno di ciò che non ti piace (tormentone vuoto degli archistar) e fai vedere le tue/vostre idee solo in questo modo possiamo uscire fuori dall’inghippo‘ideologico’, immaturo e senza senso, del bene e del male, della destra e della sinistra.
L’Italia è straordinaria perché nel corso dei secoli ogni città non voleva essere uguale alla città di fronte. Ognuno cercava sempre nuovi codici ‘architettonici’ per non omologarsi.
L’idea che persegui non mi convince ma per mia etica non mi permetto di disprezzare il ‘lavoro-onesto’ altrui, mi piace la critica e il suo linguaggio (non il bla-bla-bla visivo-analogico).
La diversità di valori/vedute è un bene da tutelare come la memoria della città che conserva tra le proprie mura i resti del passato.
L’unico problema è che ci siamo dimenticati di costruire ‘bene’ la città del presente.
Una chiosa a questa tua frase “dato che qui siamo tutti dilettanti“ perché ti piace avere una visione totalitaria della gente? Io eviterei di pensare per tutti, non credi che sia un po’ esagerato?
Il verbo mediare è fondamentale poiché tutela i punti di vista differenti. Chi media non ama convincere, imporre, prescrivere la propria verità sugli altri.
Cerca una possibile convivenza evitando la stagnazione dell’antinomia.
Saluti,
Salvatore D’Agostino
Interessante che nel momento di massima ridondanza mediatica della figura dell'architetto, all'apogeo del "nome", il momento in cui l'architetto si incarna nello sprezzante romantico quale rifiuta di essere in quanto antidogmatico, l'architettura perde presa politica su tutti i fronti. Tutte le legislature si impegnano per limitare i poteri del progettista, per scansarlo dalle faccende burocratiche, gli viene sottratto potere d'azione in più e più modi. Ormai l'articolo di Marc Augé è vecchio e si riferisce a questioni terminate da una decina di anni, non si progetta ormai quasi più, si portano a termine solo le cose pensate a suo tempo. Marc Augé è stato solo fortunato a non arrivare in ritardo, per dar poi voce al suo sentire. Ma è un sentire stanco che nasce vecchio. Non dico che non dice cose condivisibili, ma che dice cose facili da dire.
RispondiEliminaPS: Augé è un antropologo, non un sociologo! :)
Ho capito che siete modaioli! Allora, un colpo La Cecla, un altro Augè e rimango sempre della mia idea, mi sembrano confusi! Ambedue boriosamente intellettual\très chic, sì no, sì no ed invidioselli!Credo che ormai sia opinione comune che viviamo l'epoca della reingnerizzazione, degli ecosistemi rinaturati, delle città ripianificate, delle aree dimesse rivitalizzate, dei quartieri rigenerati, delle piattaforme politiche riscritte, degli interni "ri\decorati" e delle riviste ridisegnate!Una stagione di "filosofia del design" che mutua perfettamente il pensiero di "Sloterdijk, P.",1999, Spharen 2: Globen, Frankfurt am Main,Suhrkamp.
RispondiEliminaLa contemporaneità architettonica è il modo specifico in cui le cose si sono presentate come
“materie di fatto” e che ora sono visibili in quanto "tendenza"– uno stile che sta cambiando proprio sotto i nostri occhi. L’estetica delle “materie di fatto” è sempre stata questa: una estetica “storicamente” situata, un modo di illuminare gli oggetti, di incorniciarli, di presentarli, di posizionare lo sguardo degli osservatori, di allestire gli interni in cui sono presentati – e chiaramente la politica a cui essi sono (erano) così saldamente associati. Oggi il concetto di esplicitazione, del piegarsi e ripiegarsi degli involucri, è un modo “potente” (nel senso materico) di recuperare le scienze e le tecnologie modificando completamente ciò che si intende con vita artificiale sostenibile. Oggi il concetto di “design” (“Dasein (esser-ci) ist Design”) è una così potente alternativa a concetti quali fare, costruire, edificare, il concetto di esplicitazione ci permette di comprendere che è possibile rimaterializzare senza importare con il concetto di “materia” l’intero bagaglio modernista delle “materie di fatto”. Ciò è esattamente cosa fa Sloterdijk. Nessun filosofo contemporaneo è più interessato alla materialità, all’architettura, all’ingegneria, alla biotecnologia, allo stesso design, all’arte contemporanea e alle scienze più in generale. Tuttavia, quando si occupa di materialità, non tratta questa in quanto costituita da “materie di fatto” che inietterebbero necessità indiscutibili come ultima parola all’interno di questioni sociali o simboliche. Al contrario, quando Sloterdijk aggiunge materialità a un dato ambito delinea un altro delicato involucro all’interno del quale siamo ancora più imbrigliati, ripiegati. Questo garbuglio d’involucri è tanto rilevante per gli involucri delle biotecnologie quanto per quelli delle stazioni spaziali. Sloterdijk, con molto in anticipo, ha colto proprio alla lettera la crescita in intensione ed estensione del concetto di design; talmente alla lettera che è stato fatto rettore della Hochschule für Gestaltung di Karlsruhe– “Gestaltung”, cioè design. Consentitemi, è il caso di buttare giù dalla “rupe Tarpea”, La Cecla, Augè…e tutti i conservatori ottusi e “archifobici” in circolazione? Spiegate a Pietro che i pesi, in architettura, non devono più, necessariamente, scaricare a terra? Sempre secondo il pensiero di Sloterdijk, questa volta, mutuato da me!
6° di facebook
RispondiEliminaMaurizio de Caro: concordo ma bisogna approfondire.se nascerà "il luogo dell'ascolto nello spazio bianco"ne potremo discutere(e anche se non dovesse nascere.....)
Renzo Marrucci: Guarda Salvatò… se ti piace tanto la tua idea del camminare io posso aver dei dubbi ? Chi mi conosce sa bene che sono uno di quei camminatori che fanno venire le traveggole... Eppure cammino perchè sono curioso e osservo, penso studio camminando e dovrei fare i gridolini di fronte a certe ammissioni? Ammettiamo pure che voglia intendere qualche cosa in più al camminare e embhè che vuoi dire? Che bisogna capire? Ma certo caro Salvatore che bisogna capire ? Ma se ti dico che l'Augè dice cose normali è perchè quello che dice si pensa in molti,o in alcuni che siano... Va benissimo che lo dica ma non si possono di belle frittate far bistecche neanche con le chiacchere dirivelte e che non dicono molto di più di ciò che ben si sà . Il problema è passare dalla cognizione ai fatti e quì i problemi veri... per cui alcuni parlano parlano e parlano tanto per tenere acceso il motore mentre altri cercano di sensibilizzare le coscienze ma con argomenti comprensibili e non dirivelti...
Sappiamo che Secchi ha seccato come tanti altri agendo nell' urbanistica italiana... e non solo lui... ma ora il problema è uscirne con una maggiore sensibilità e competenza per cambiare il modo di pensare alla città non più come luogo delle cazzate... quando ancora questi progettano e continuano a svolgere incarichi imperturbabili nonostante la crisi..
Salvatore D'Agostino:
---> Maurizio,
ho appezzato molto la tua idea ‘il luogo dell'ascolto nello spazio bianco’.
Il mio blog ama molto l’idea dell’ascolto (primo atto importante per determinare azioni concrete). Vedi rubriche Mondoblog, Fuga di cervelli, Oltre il senso del luogo, Con giustizia.
Certo che ne possiamo discutere, anzi se vuoi possiamo curare uno spazio o sul blog o sulla homepage della presS/Tletter (nelle mie intenzioni voleva essere uno spazio dove discutere a più voci su alcuni temi, ma al momento resta solo un’idea).
Saluti,
Salvatore D’Agostino
Salvatore D'Agostino:
Renzo,
hai ragione occorre concretezza io cerco di portare l’idea di città e architettura con spirito missionario nella mia terra abbandonata dai camminatori ma amata dai semplificatori dei media ‘la Sicilia’.
La Sicilia è il buco nero dei luoghi comuni.
Dice Rebecca Solnit: «Il camminare condivide con il fabbricare e il lavorare quell’elemento di impegno cruciale del corpo e della mente con il mondo, di conoscenza del mondo attraverso il corpo e del corpo attraverso il mondo».
Camminare-fabbricare -lavorare per me significa far uscire la mia gente dalla trappola dei luoghi comuni.
Una bella sfida .
Saluti,
Salvatore D’Agostino
Peja,
RispondiEliminaMarc Augè scrive al mondo semplificando concetti e ahimè l’UTOPIA.
Utopia dal greco U(OY)= non (TÒPOS) luogo.
La ‘scrittura globale’ è una ‘non scrittura’.
Ho pubblicato quest’articolo per riscriverlo collettivamente.
Saluti,
Salvatore D’Agostino
P.S.: Augé nei suoi primi libri si definisce etnologo della surmodernità.
7° di face book
RispondiEliminaLuca Silenzi: Non mi basta un commento :)
http://spacelab.myblog.it/archive/2009/11/17/marc-auge-l-architecture-globale-e-il-nonsense-dello-star-sy.html
Renzo Marrucci: quello che mi riguarda puoi seguire i miei contributi su ANTITHESI o andare agli articoli su wikio e architetti.com, e anche vedere su facebook mentre attendi altre riflessioni.
Luca,
«L’intervento dell’architetto, come confermano le statistiche, si nota poco: In Germania, ad esempio, oltre l’80% delle case private sono costruite senza la partecipazione del progettista, percentuale che non varia di molto negli altri paesi europei; in nessun altro ambito di progettazione la partecipazione dell’architetto è più bassa».
Christian Schittich, Atlante delle case unifamiliari, Utet, 2002, p. 9
Secondo ‘The American Institute of Architects’ solo il 4% degli edifici costruiti viene pubblicato (rapporto del 2006). Di questo 4% non tutti sono noti.
Vorrei subito smarcarmi dall’equivoco sentimentale dell’architetto, ricordando che ciò che ci appare brutto spesso è apprezzato da chi dopo anni di sacrifici si è costruito un tetto ‘probabilmente sgrammaticato’, forse solido e per questo bello.
La domanda che occorre porsi è: a chi si rivolge Marc Augé, al 95% (prendo il tuo dato) o al 5% dei progettisti?
A questo punto occorre essere realisti e prendere atto di un sistema di autori critici e architetti transnazionali che non possono e forse non devono colloquiare con le idee e i luoghi ‘nazionali’.
Ma tra i transnazionali e i locali non c’è solo uno iato profondo ma anche l’amore per gli eccessi il primo odia il linguaggio provinciale e il secondo pur di svestirsi dall’intrinseco provincialismo spesso reitera i peggiori luoghi comuni dei primi. Ovvero rendendo POP codici che ‘grammaticalmente’ non gli appartengono.
Per il giardiniere Gilles Clément è possibile intervenire con la strategia dell’osservazione «Istruire lo spirito del non fare così come si istruisce lo spirito del fare». (Manifesto del terzo paesaggio, Quodlibet, 2005, p. 59)
Invece per il filosofo Mario Perniola gli antidoti al virale spirito della comunicazione sono: disinteresse, discrezione e moderazione. (Contro la comunicazione', Einaudi, 2004)
Due idee rivoluzionare che non collimano con il sentire della nostra epoca, ovvero ‘l’economia’. Perché non è possibile vendere senza fare. Come non è possibile ampliare i propri mercati senza una strategia di comunicazione.
Il territorio è il luogo della produzione della merce, contrariamente alla città che è il catalizzatore commerciale.
Parafrasandoti la merce può essere poesia, prosa o imitazione sgrammatica.
Per uscire da questo binomio inscindibile (produzione territorio - commercio città) occorrerebbe superare la fase della notizia ‘commerciabile’ (Augé) dove le città sono ‘generiche’, cominciando ad ascoltare il territorio.
Facendo in modo che ogni comune italiano (dei circa 8000) si ponga una semplice domanda: come gestire la nostra merce/lavoro prendendoci cura di noi stessi?
Intuisco il tuo disappunto, poiché sembra una non soluzione, ma non voglio illuderti con idee demiurgiche o proporti l’illusione della ricetta politica salvifica.
La “città è agone” dice Tiziano Scarpa quindi non distraiamoci, possiamo non sentire lo sparo iniziale e restare fermi allo start magari prendendocela con l’arbitro.
Saluti,
Salvatore D’Agostino
---> Renzo,
ho fatto un Wilfing sui tuoi articoli ma non ho trovato niente che mi/ci possa aiutare per questa ‘riflessione’.
Mi/ci fai il piacere di essere più preciso, perché mi è sfuggito.
Ahimè, Google non è l’oracolo.
Saluti,
Salvatore D’Agostino
Maurizio,
RispondiEliminanon so perché, ho sempre trascurato la lettura di Peter Sloterdijk ma questo commento mi ha incuriosito e ho perso un paio d’ore su internet e su alcune mie vecchie letture (ad esempio l’ultimo libro di Vittorio Gregotti a tal proposito Umberto Eco ne parla qui ---> http://wilfingarchitettura.blogspot.com/2009/11/0035-speculazione-sulla-fine-del-design.html).
Grazie per lo stimolo poiché sono rimasto affascinato e spero di rimediare al più presto il mio deficit culturale.
Sbaglio o sei particolarmente appassionata di letteratura/architettura tedesca?
In un’intervista tra il serio e il faceto mi è stata posta una domanda:
Tre parole oggi importanti.
Ecco la mia risposta: Trans, Distopia e la disobbedienza di Don Milani.
(pubblicata il 23 giugno 2009 su wa qui ---> http://wilfingarchitettura.blogspot.com/2009/06/0025-mondoblog-archistar-o-archipov-2.html)
Intendendo per ‘Trans’ nel suo doppio significato ‘oltre’ e ‘in transito’ che collimano ampiamente con la tua frase: «Questo garbuglio d’involucri è tanto rilevante per gli involucri delle biotecnologie quanto per quelli delle stazioni spaziali. Sloterdijk, con molto in anticipo, ha colto proprio alla lettera la crescita in intensione ed estensione del concetto di design; talmente alla lettera che è stato fatto rettore della Hochschule für Gestaltung di Karlsruhe– “Gestaltung”, cioè design».
Distopia, anche in questo caso è da intendere, nel suo duplice significato ‘malformazione’ e nel suo essere il contrario di ‘utopia’.
Come dicevo qualche commento fa Utopia nel suo significato originario dal greco U(OY)= non (TÒPOS) luogo (ovvero Marc Augé).
La distopia ama non giocare con i luoghi e osserva la realtà, anche se è spesso cinica e indesiderabile.
Abitiamo più la distopia che l’edulcorata utopia.
Infine la disobbedienza di Don Milani è un ossimoro disobbedire/credere.
Condivido la tua idea è da pazzi essere misoneisti come è triste fare architettura forzatamente avveniristica nel deserto (non mi riferisco a Dubai o Abu Dhabi).
Saluti,
Salvatore D’Agostino
8° di Facebook
RispondiEliminaRenzo Marrucci: Io ne scrivo sempre ma ora cercando sull'argomento specifico non su antithesi ma su altro... e quando ho tempo te lo dico.
Michele Sacco: "SE GUARDO AI GRANDI DEL NOVECENTO...
Commento di Pino Nuovo: oha!
<<...grazie di aver diffuso questo accorato scritto di Augé.
Come dare un cenno di colloquio?
L’ho riletto stralciando pochissimo testo che sintetizza il rischio dell’artista di amare così tanto la sua espressione, da non concedere nulla agli altri aspetti ( sociale, filosofico, in breve spirituali del suo tempo).
Ma così facendo egli si involve facilmente in una produzione narcisistica.
Se guardo ai grandi del novecento ( Wright, Le Corbusier, Loos) vedo che essi si mantenevano in presa diretta con i problemi e le risorse del proprio tempo, anzi, da questo ricavavano la forza ispiratrice per le creazioni architettoniche .Queste perciò risultavano fatalmente come risposta anche morale al proprio tempo, e il proprio tempo ne è stato fecondato.
Per essere più diretto: gli architetti contemporanei si comportano come quell’uomo che per non entrare nelle complicazioni della vita coniugale ( moglie, casa, figli) si conserva single, cioè un essere esangue che ama solo la sua personale conformazione: ma un essere così immaturo e astratto, che cosa potrà mai produrre di reale in Arte?
Questo non vuol dire: ”ragazzi, sposatevi!”.
Però …..
Con molto affetto
Pino
I musei, invece, concepiti come opere d'arte, tendono a mettere in secondo piano gli oggetti, le collezioni e le mostre che ospitano
(….)
I "grandi architetti" sono più affascinati dalla possibilità di lasciare la loro impronta sui luoghi più importanti del pianeta (e chi potrebbe rimproverargli quest'ambizione?) che dall'idea
di affrontare i problemi tecnici e sociali causati dall'urbanizzazione mondiale.
(….)
Più ammiriamo gli architetti e più speriamo che riescano a liberarsi (….) da una forma di pensiero "a breve termine"imposta dal consumismo. E che tornino a essere dei visionari del mondo.>>"
Renzo Marrucci: Sacco dice cose davvero espressive di un decadimento culturale significativo... Chi potrebbe rimproverare ai grandi architetti di essere ecc...ecc... specialmente ! Non si rende conto che è questo il principio... il tarlo di una cultura che va a remengo? Come lui tanti ed è la massa degli architetti e non solo architetti... inclusi quelli che fanno finta...
Michele Sacco: Grazie Renzo, ma io ho riportato solo lo scritto del presidente di OhA! Pino Nuovo
Michele Sacco: Battiato intervistanto Panikkar faceva notare al Maestro come nel mondo ci soni piccoli gruppi di grandi uomini ricercatori e il resto sono una massa di ignoranti, popolo bue....
Panikkar con un colpo da maestro ribaltando i valori, spiegò che il problema degli ignoranti non è quello di essere ignoranti, ma di non sapere di esserlo. L'ignoranza con la coscienza della propria ignoranza ci permette di andare liberi di fronte al mistero di ogni cosa. Pensare di sapere con arroganza e la cosa peggiore.
9° di Facebook
RispondiEliminaMichele Sacco: Mi piace quello che dice Marrazzo, spero di invecchiare bene come lui!
Michele Sacco: Tangenti, tangenti e tangenti!
Renzo Marrucci: Questo è solo uno degli aspetti secondari purtroppo e detto così come lo dice Sacco, è davvero riduttivo. "
Michele Sacco: "Renzo sei invitato in OhA!.
C'è gente in gamba (io sono solo un pinco pallino del gruppo, uno "stracan de disegnator") se ci degni della tua presenza puoi dare una bella scossa! Sarebbe bello ci fosse con noi anche Salvatore D'Agostino con cui mi sento più in afifnità, ma è così lontano... però ci potrebbe appoggiare per una visita a Palazzo Abatelis!
Renzo Marrucci: Come tutti i ragazzi sei un po splafonato ma del resto capita così... Per OhA credo di aver già detto che sono disponibile.
Sono disponibile verso chi voglia discutere e confrontarsi in civiltà di scambio e in armonia di contenuto.
Michele Sacco: Renzo (ti do del tu scusami e fammi sapere se non gradisci) ho visto immagini di tuoi progetti ed architetture, sei un grande direi! Io per ora ho fatto solo due progetti (ristrutturazione di casa di famiglia del '700 e progetto fognature) per il resto lavoro ai progetti dei miei capi, che son veramente bravi, ma i progetti son loro!
Michele Sacco: benissimo per oha! siamo un gruppo che prima di tutto cerca l'armonia e l'amicizia e il rispetto dell'altro ricercando anche i valori spirituali!
Michele Sacco: Tra i nostri amici c'è Vittorio Mazzucocni che sta organizzando a Milano degli incontri sull'architettura vedi tu se andarci
http://www.facebook.com/l/8ff3a;www.vittoriomazzucconi.it/ita/fondazione/arte-psiche/programma.asp
Renzo Marrucci: I temi che vedo esposti nel sito non sono quelli che attualmente mi interessano
Salvatore D’Agostino: ---> Michele e Renzo,
ho fatto fatica a ricostruire il vostro dialogo poiché sono stati eliminati dei commenti.
Un piccolo invito a essere più ordinati e precisi nei commenti.
Non serve a nessuno la mancanza di chiarezza o l’impulsività.
Cerchiamo di argomentare bene le nostre idee.
Evitiamo le semplificazioni o gli atteggiamenti del tipo ‘ti faccio vedere io”.
Un po’ di sana ‘lentezza’ discorsiva.
Buona domenica,
Salvatore D’Agostino
10° di Facebook
RispondiEliminaMichele Sacco: PASSEPARTOUT - Philippe Daverio - RaiTRE - 22 novembre 2009 ore 13.20EDOARDO GELLNER
Salvatore D’Agostino---> Michele,
grazie spero di vederlo in settimana in streaming.
Sai bene che in Sicilia il pranzo domenicale è un rito irrinunciabile.
Ho trovato su un blog che sconoscevo (non si finisce mai di scoprire qualcosa in rete), che sarà particolarmente criticata/visitata la chiesa di Nostra Signora del Cadore. Un capolavoro nato dal contatto di due menti geniali Gellner e Scarpa.
Da studiare l’approccio professionale, tecnico e creativo.
Un esempio importante, suggerisco la lettura del libro dell’Electa dedicato esclusivamente a quest’opera.
Saluti,
Salvatore D’Agostino
Sono un pò attonito. Chiarisco che, per me, non si può prescindere dal pensiero della "scuola di Francoforte". E, in ogni caso, da Kant in giù! Certo non è che a noi architetti debba importare, la filosofia, più di Mies o Aalto ma ovviamente "pensiero e segno" sono parenti stretti! Lungi da me, la "pappardella" che l'architettura è la scrittura...eccetera eccetera e bla, bla, tesi un pò bacchettona e inconcludente!Sinteticamente ribadisco che Sloterdijk argomentando circa “…la contingenza che è la cifra della moderna condizione umana, esposta sull’orlo dell’abisso cosmologico, è perdita di mondo e di centro”. Il nuovo corso della globalizzazione sbalza in modo imprevisto gli esseri umani lontani dal centro, trasforma i mondi della vita (Lebenswelten), città, villaggi in gelide e asettiche ubicazioni sulla superficie del globo che non è più "una casa per tutti, ma un mercato per ciascuno". La mutazione antropologica è senza precedenti: "il risultato antropologico della globalizzazione cioè la sintesi logica dell’umanità in unico possente genere e la sua riunione in un compatto e sincronico mondo del traffico, è il prodotto di un ardito e convincente lavoro di astrazione e di ancor più arditi e vincolanti movimenti di traffico. La globalizzazione determinerebbe così un generale trasferimento di sovranità dagli Stati ai mercati. "In forma di merce, il denaro si lancia sul mare aperto dei mercati ed è costretto, come normalmente lo sono le navi, a sperare in un felice ritorno nei porti di partenza". In altre parole dall’antropologia si passa all’antropotecnologia (Sloterdijk), ecco d'amblè la buttata dalla rupe di Augè e La Cecla (sappi, Salvatore che tu difendi l'indifendibile!) Ribadisco, con Sloterdijk, che, il nuovo universo globalizzato presuppone uno spazio infinito, indifferenziato e omogeneo, segnato da continue localizzazioni neutralizzanti. Uno spazio che assume la globalizzazione come un fatto, come l'esito di un processo iniziato con le Conquiste (Americhe!sic). Di conseguenza non esiste nessuna deroga o giustificazione di lontana matrice tradizional-passatista che possa ancor più bloccare la nostra (esclusivamente tutta italiana!) competività sul piano architettonico-urbanistico . Liberati da menate identitarie, provincialistiche e rachitiche, la “modernità”, obbliga il progetto a rispondere a responsabilità del processo progettuale e quindi a contenere il concetto di tempo e mobilità che per eccellenza, un processo, esige. "Leggerezza" contro ogni grevità e gravità del manufatto in rispetto di un’accelerazione del reale che muta continuamente, nell'accoglienza di una nuova società multietnica che predilige la cultura dell'intreccio e quindi progetta il nodo che genera il “tappeto”. Insomma di cosa vi piace discutere sempre, del sesso degli angeli? C’è in atto una nuova estetica e si tenta di manipolarla con etica e identità! Chi stabilisce cosa è etico e chi stabilisce la vera identità umana se non eventualmente alla fine di una vita? Mi fate sorridere tutti, nel vostro “rimescolare” nel tentativo di imbrigliare la fuga estetica\espressiva che viviamo e che vi scompiglia le “regole” e le carte in mano! W Zaha che fa star-bene, con la sua architettura!
RispondiElimina---> Maurizio Zappala,
RispondiEliminaforse c’è un equivoco io non difendo né La Cecla né Augè e sono molto interessato alle teorie di P. Sloterdijk.
Sull’identità ne parlo nell’epilogo di OLTRE IL SENSO DEL LUOGO vedi ----> http://wilfingarchitettura.blogspot.com/2009/11/0073-oltre-il-senso-del-luogo-il.html
Condivido questa definizione di Umberto Galimberti:«L’identità è un fondo vuoto e la sua ricerca un tentativo inutile».
Non c’è nessun dubbio che la globalizzazione ‘merce’ ha cambiato antropologicamente la società ‘globale’.
Volevo partire proprio da questa lettura realistica di una società-merce , per provare a riflettere su possibili alternative non reazionarie e tantomeno passatistiche.
Inoltre m’interessava distinguere la globalizzazione delle ‘grandi’ città e quella delle ‘piccole’.
Per farla breve accediamo tutti alla merce globalizzata ma viviamo tutti in realtà diverse.
Questa diversità (non identitaria ma reale) a mio avviso nasconde delle bellezze non sempre furbescamente ‘globali’.
Saluti,
Salvatore D’Agostino
11° di Facebook
RispondiEliminaPaolo De Gasperin: Sutta trasmissine Passapartout Philippe Daverio ha fatto un buon commento , teniamo conto che Gellner ha studiato prima a Vienna e poi a Venezia dove e' diventato assistente di Carlo Scarpa ,
Gellner tra l' altro e' stato il trait d' union tra Wright e Scarpa avendo mostrato un libro tradotto in tedesco sull' opera di Wright negli anni 20 , e poi ha fatto da interprete a Neutra quando e' venuto a Venezia
Paolo De Gasperin: Edoardo Gellner viene considerato l' ultimo capomastro architetto dato che ha lavorato nella bottega del padre , oltre architetto e urbanista , paesaggista , architetto degli interni e studioso delle tipologie dolomitiche .
Michele Sacco: Grazie Paolo! Ecco il link per vedere in streaming la trasmissione:
http://www.rai.tv/dl/RaiTV/programmi/media/ContentItem-7e3eecd9-680a-4719-aa05-65fc9b64c08f.html?p=0
---> Paolo De Gasperin,
io ho conosciuto l’architettura di Edoardo Gellner grazie alla mia passione per Carlo Scarpa e pesno che sia un peccato che nell’università se ne parli poco.
Spesso fanno studiare architetti molto ‘teorici ‘ e poco artigiani.
Saluti,
Salvatore D’Agostino
----> Michele Sacco,
grazie per il link.
Mi preoccupa l’ultimo Daverio un po’ misoneista.
Staremo a vedere,
Saluti,
Salvatore D’Agostino
Per concludere e starmene muto di nuovo per un pò! Se si smembra o parcellizza il concetto di globalizzazione si ricade, ovviamente, nel concetto identitario della "val di Noto" che è diversa dalla Val\tellina e della valle di Vals! Mah! Se si comprendono le tesi di Sloterdijk,dopo averlo letto, allora, non viene più su, l'identifobia! E Carrapipi è esattamente come Stoccolma... nel senso che se lavoro nella prima o nella seconda, il sottoscritto, non prova traumi identitari! Sia nella prima che nella seconda arriva Internet! Capisco che c'è, ad oggi, chi desidera anacronisticamente difendere l'identità della val di Noto e chi crede, viceversa, nell'dentità ubiquitaria!
RispondiEliminaMaurizio,
RispondiEliminaperché ti autocensuri, apprezzo la tua verve critica.
Io non sono un ‘identifobico’ e tantomeno difendo il concetto d’identità.
Sono critico nei confronti della fascinazione ‘commerciale’ dell’essere globale a tutti i costi.
Spesso alcuni clienti per sentirsi ‘globali’ imitano in senso ‘POP’ temi globali, con risultati terrificanti.
A proposito di Carrapipi, uno degli abitanti più colti di questo paese –Francesco Lanza – qualche tempo fa, ha raccolto alcuni ‘Mini siciliani’ ovvero dei modi di dire spesso grevi e offensivi.
Molti di essi raccontano della cruenta lotta globale dei paesi.
All’epoca il mondo/globale per ogni paese era rappresentato dai paesi (odiati) limitrofi.
Ogni paese aveva una peculiarità caratteriale che spesso veniva raccontata nei Mimi.
Te ne riporto uno:
«Il piazzese
Andandosene a Piazza un tale, incontrò il piazzese.
- O voi – gli fece – siete cristiano?
E quello:
- ‘Gnornò: piazzese».
Io credo che sia riduttivo pensare solo al mondo ‘globale’, non vi è dubbio che ‘la rete’ sta cambiando – come affermi - soprattutto il mondo del lavoro (questo sempre più interattivo e globalizzato) ma sarebbe triste un mondo così piatto dove «Carrapipi è esattamente come Stoccolma».
Non tutti sono cristiani – per fortuna – qualcuno è piazzese, che sia chiaro non confondiamo questo ragionamento con la retorica dell’identità da proteggere, tutelare e via dicendo, ma nel suo senso più banale della ‘bella’ diversità legata ai luoghi.
Capisco e comprendo il pensiero di Peter Sloterdijk tutti da ‘Carrapipi a Stoccolma’ siamo attori della globalizzazione del profitto.
Viviamo nell’epoca dell’abbondanza mediatica-commerciale.
Ti cito un altro ‘Mimo’ tratto nuovamente dal libro di Francesco Lanza:
«Le minchie
Un giorno trovandosi San Pietro a passare di qua, vide il piazzese che arato il suo campo lo andava seminando:
- O che semini? – gli domandò.
E quello:
- Minchie, per chi non ne ha.
- E minchie sieno – disse San Pietro, facendosi sopra la benedizione.
E alla stagione infatti il campo produsse in abbondanza grandi minchie e rigogliose: e fu lo spasso delle vedove, delle vergini e delle maritate, cui una sola non bastava più».
Il piazzese oggi è ‘il genio digitale’ che semina ‘servizi o necessità’ poiché in quel momento ha scoperto che ‘mancavano’.
Il campo di minchie è Google, Microsoft, Facebook, Twitter, il giornalismo ‘falso’ e scandalistico, la maglietta firmata ‘Corona’, l’outlet che imita la piazza del paese e via dicendo.
Come San Pietro, io non oso esprimere giudizi morali, poiché so che è lo spasso per tanti (compreso il mio) e benedico la globalizzazione.
Però, sono consapevole che è un campo di minchie ‘false’ e mantengo le distanze anche se, ti confesso, ogni tanto vado in questi campi a spassarmela.
Saluti,
Salvatore D’Agostino
P.S.: trovi qui ---> http://wilfingarchitettura.blogspot.com/2009/11/0035-speculazione-sulla-fine-del-design.html
questa frase:
Che cosa esso sia, per Gregotti è abbastanza chiaro, e qualcuno recentemente su internet parlava di alcune sue preoccupazioni "apocalittiche". Non so se il termine sia esagerato ma certo è che nel suo L'architettura nell'epoca dell'incessante (p. 26) Gregotti cita: «Avvicinandoci al secondo millennio, dobbiamo iniziare a considerare la modernità come l'epoca in cui il mostruoso viene compiuto da criminali umani: imprenditori, tecnici, artisti e consumatori. Questo mostruoso non è inviato dagli antichi dei, né è rappresentato dalle mostruosità classiche: la modernità è l'epoca del mostruoso fabbricato dall'uomo». E commenta: «Se si giudica questa affermazione di Peter Sloterdijk non lontana dalla verità, si deve ammettere che le riviste di architettura e le mostre internazionali, premi e show televisivi, si sviluppano quasi sempre come campioni significativi della rappresentazione di quel mostruoso».