5 giugno 2009

0032 [SPECULAZIONE] Santo cemento di Cristiano De Majo - 1° parte

Esmeralda Calabria, Andrea D'Ambrosio, Peppe Ruggiero nel 2007 girarono un film in Campania 'Biùtiful cauntri' un viaggio con telecamera in spalla. La loro guida era Raffaele Del Giudice, un uomo che lotta ogni giorno contro i mali di quella terra. Volevano documentare l’illegalità diffusa e i continui sversamenti dei rifiuti tossici, nelle mille discariche abusive di quel territorio.
Del Giudice non si aiutava di informatori o spie segrete, ma si orientava attraverso l'olfatto, seguiva l'odore della munnezza.



Cristiano De Majo mi ha autorizzato a pubblicare il suo articolo scritto per Il diario, maggio 2009 dedicato alla 'città' [1], ripercorre lo stesso paesaggio, ma l'odore che più lo colpisce è quello del cemento.
Com’è stato descritto da Roberto Saviano capire il 'ciclo del cemento' è fondamentale per spiegare il nostro paese.
Recentemente in Sicilia sono stati arrestati i proprietari di un cementificio, usavano il cemento depotenziato per aumnetare i propri profitti. Tra i lavori ultimati vi sono parti dell'aereoporto di Palermo e di Trapani, il porto di Balestrate, il lungomare di Mazara del Vallo e infrastrutture dell’area industriale di Partinico. In costruzione un commissariato edificato sul terreno sequestrato alla mafia. [Link]

Mi chiedo perché gli architetti parlano dei personali luoghi comuni centro storico, periferia, archistar, villetopoli, ecomostro, non luoghi e poi si dimenticano di trovare delle sinergie per sconfiggere il vero male italiano, la cementificazione illegale e senza sosta?

Buona lettura:


Santo cemento


«Quale orrore! Quale orrore!»
Joseph Conrad – Cuore di tenebra

Più giro e più sento di perdermi. Più vedo e più faccio fatica a riconoscere. Se chiudo gli occhi continuano a scorrermi davanti le stesse immagini. Lembi di strade extraurbane, campagne distrutte, carcasse fiammeggianti, scheletri edilizi che galleggiano nel nulla. Nelle narici mi sembra di sentire l’odore del cemento, come se fossi riuscito ad annusare questa polverosa essenza di annientamento. Quando torno a casa, mi sento pesante come se avessi attraversato una colata di magma, una distesa di fango viscido, qualcosa di inafferrabile che ti può solo inghiottire.
Volevo capire cosa fosse realmente la provincia di Napoli. Vista dalla città sembrava un corpo estraneo e al tempo stesso un capro espiatorio, un concetto territoriale a cui attribuire le cause dei nostri mali. «Quelli non sono napoletani, vengono dalla provincia», avevo sentito dire spesso da persone convinte che certe cose – brutte, tremende o soltanto spiacevoli – siano ricondotte a Napoli mentre in realtà succedono in provincia originando dalle sue deformità. Io, invece, ero persuaso che non si potesse realmente separare la città dal frastagliato lago edilizio che la circonda, un continuum urbanistico che arriva a nord fino ai campi di Villa Literno, a sud lambisce la nostalgia in stile bella epoque di Sorrento, e a est s’inerpica sulle pendici del Vesuvio per disperdersi nell’Irpinia. Mi pareva che tutti gli abitanti di questa conurbazione ad alta densità si sentissero nel bene e nel male parte di una grande capitale dello spirito. E che proprio nella provincia risiedesse l’idea di una metropoli napoletana.
La realizzazione della nuova area metropolitana sembrava peraltro uno dei principali temi delle elezioni provinciali di giugno, in cui il centrosinistra sarebbe stato chiamato a una missione impossibile: ribaltare l’opinione diffusa che quindici anni di governo della città e della regione avessero prodotto soprattutto dissesto, degrado, disordine, fallimento, peggiorando, se possibile, un quadro complessivo già di per sé tragico. Per interpretare questo ruolo miracoloso, le alte sfere nazionali avevano deciso di impalmare Luigi Nicolais da Sant’Anastasia, ingegnere, ex ministro della Funzione Pubblica, ed ex bassoliniano convertito sulla via di Damasco, che proprio in ragione di questa conversione aveva potuto permettersi il lusso di presentarsi come volto nuovo. Il centrodestra aveva invece deciso di far gestire il suo netto vantaggio psicologico da un impresentabile ras dell’edilizia, tale Luigi Cesaro, uomo incapace di mettere due parole in croce, che affondava le proprie radici a Sant’Antimo nel cuore della provincia nord.

A prescindere da come sarebbe andata, ancora una volta si trattava di un programma di occupazione. Una casella da assegnare nello scacchiere del potere nazionale. La Provincia, ente di cui tutti almeno a parole auspicavano l’abolizione, poteva rappresentare un simbolo di qualche rilevanza mediatica, ma con nessuna ricaduta sulla vita degli abitanti, considerata anche la scarsità delle sue competenze. Del resto chi poteva ancora proporre con serietà cure realistiche per un territorio ridotto ormai allo stato terminale di una lunga malattia politica e umana?
Mentre con il fotografo al mio fianco viaggiavo in cerca del confine immaginario – il fossato concettuale che distingue la periferia dalla provincia, la città dalla non città – avevo pensato alla via crucis. Non ero arrivato ancora al punto da sentirmi Gesù Cristo ma si avvicinava la Pasqua e, mano a mano che prendeva forma, il percorso si conformava come una vera e propria strada di sofferenza e passione, anche se non eravamo diretti verso nessun Golgota, e non ci aspettava la morte. Le nostre stazioni sarebbero stati i luoghi salienti di questa storia di distruzione, i posti dove ci saremmo fermati perché incapaci di andare oltre o soltanto per cercare sollievo. Avremmo affrontato con il corpo e lo spirito le disordinate colpe che nel corso del tempo i nostri simili avevano fatto materializzare su questa terra.

Il rione 219 a Melito

Un giorno di inizio primavera ci mettiamo in macchina e usciamo dalla città. Circumnavighiamo Scampia intercettando con la coda dell’occhio le Vele, ectoplasmi edilizi da cui si desidera solo fuggire.
Melito è il primo comune che s’incontra lasciando Napoli in direzione nord. L’ingresso ha un’apparenza normale. Il corso principale di un paese disordinato, ma tutto sommato ancora umano, che indirizza lo sguardo verso una specie di miraggio: una bella chiesa di scuola vanvitelliana, settentesca e tondeggiante, soltanto troppo gialla. Ci raccontano che anni fa fu tinteggiata arbitrariamente da un costruttore della zona in occasione del matrimonio della figlia. (Vedi alla voce: Restauro spontaneo). Ai lati della strada, dopo anni, rivedo i contrabbandieri di sigarette e le loro facce consumate dall’assenza di aspettative. Sembrerebbe di essere in un paese dell’entroterra, se non fosse per i profili minacciosi dei mostri edilizi che sbucano oltre le case del centro storico e un senso di tensione che rimbalza qui come un’eco che esplode in tutta la periferia.
Ci avvaliamo di una guida locale – un architetto cresciuto a Melito – e ci rendiamo conto presto di quanto sia necessaria. Il paese, come tutta la zona del giuglianese, ha un’antichissima tradizione nella produzione delle mele annurche. L’insediamento nasce come casale, terra di masserie, fabbriche di frutta che riforniscono la città. Il carattere agricolo della zona viene conservato fino a tempi relativamente recenti. Tutti i melitesi che incontro fanno risalire l’inizio della loro rovina a una data fatidica, il 1980, anno del terremoto in Irpinia.
Il nostro si trasforma molto rapidamente in un tour guidato dello Scempio Edilizio. Sbancamenti, scheletri di centri commerciali che si andranno ad aggiungere ad altri scheletri stabilmente provvisori, un reticolo di strade dove si affacciano palazzine basse, la cui difformità immotivata omaggia un estremo e illogico spontaneismo costruttivo. Costeggiamo un intero complesso residenziale sequestrato (il Parco Guerra), che si erge come una specie di monumento alla violenza edilizia. Dopo il milite ignoto, il mausoleo del costruttore ignoto, un’opera costituita da quattrocentosessanta appartamenti vuoti. Il verde che a tratti affiora dall’asfalto è soffocato dalla mancanza di cura, dalle bottiglie di plastica, da una sentenza di inutilità che condanna gli spazi collettivi.

Le palazzine della 219 sono l’ennesimo fortino del degrado urbano, «il Bronx di Melito», come le chiamano. Furono messe in piedi grazie alla legge 219 dell’81, approvata per finanziare la costruzione di case popolari per i terremotati. Grazie a essa, i rioni 219 hanno progressivamente punteggiato tutta la provincia-periferia, guidando la deportazione in massa dei napoletani del centro costretti ad abbandonare le loro case fatiscenti. A proposito di effetti del terremoto, qui l’attribuzione delle responsabilità del degrado viene ribaltata. Non è colpa di quelli della provincia come pensano molti in città. Qui sono sicuri che la colpa sia dei napoletani. O di questi napoletani mandati al confino in un territorio con il quale non avevano nessun legame.

Chiusi in macchina galleggiamo in questa zona autonoma dello scissionismo non senza qualche preoccupazione. I palazzi grigi sono tristi e abbandonati ma non hanno forme disumane. Le strade sono velate da una calma ovattata, imposta. Nel silenzio acquatico un ragazzino cammina come se stesse lentamente uscendo di scena. Era stata prevista una piscina comunale. È stata distrutta. Nessuno svago è permesso. C’è gente che lavora sodo. Ci fermiamo davanti a una statua di Cristo con le mani aperte, tenuta in buona compagnia da un’altra più piccola di Babbo Natale. Vegliano (e proteggono?) un giardinetto recintato, ovvero, mi viene spiegato, una piazza di spaccio. Tre o quattro giovanotti si mettono subito in allarme. Per nostra fortuna la guida conosce uno di loro e la situazione si tranquillizza. Ci fingiamo studenti di architettura. Ciononostante ci viene impedito di scattare una foto ai palazzi. «Fateci stare tranquilli», ci chiedono, ma sembra che questo diniego sia semplicemente un modo per manifestare il loro potere. Ci raccontano orgogliosi che solo qualche giorno fa hanno cacciato una troupe di Italia 1 «a calci nel culo». Su uno dei bordi del rione, si trova un muro alto un paio di metri con un piccolo spazio al centro dove riesce a stento a passare una persona. È stato alzato, mi spiegano, ai tempi della deportazione, reclamato dagli abitanti del vecchio nucleo per tenere i terremotati idealmente lontani. Un muro per illudersi di non essere toccati dall’infezione.

Tornati al paese, Nino Masella, pianificatore territoriale e responsabile urbanistico del Pd per il comune di Melito, mi illustra in modo illuminante una possibile chiave dei rapporti tra centro e periferia: «Quando più ci siamo avvicinati alla città», mi dice, «più ci siamo allontanati da un’idea di centro».

Il palazzetto dello sport di Cesaro a Sant’Antimo

Spostandosi solo di un paio di chilometri, nel nulla più autentico, a due passi dalla stazione ferroviaria Sant’Antimo – Sant’Arpino, ai confini di un parcheggio vuoto, dove, come se ci fosse bisogno di sottolineare una differenza tra dentro e fuori, ci sono i resti archeologici di un campo di basket – quattro tabelloni senza canestri né reti, linee consumate – sorge il Centro sport benessere del Gruppo Cesaro. L’ingresso, che sembra il varco di una dogana di un paese nordeuropeo e marca in modo palese uno stacco netto con il paesaggio circostante – e ora qualcosa di completamente diverso, sembra comunicare – è affiancato da giganteschi cartelloni elettorali sui quali figurano i nomi di Berlusconi e Cesaro a caratteri cubitali. Su tutti troneggia lo slogan Riprendiamoci la dignità.

Prima di incominciare il viaggio, ero andato a curiosare sul sito di Cesaro. Non avevo trovato né un programma, né linee guida, ma la biografia del costruttore parlava chiaro. L’inizio del suo impegno politico risaliva agli anni Ottanta, il periodo in cui era incominciata la distruzione. Era stato, tra le altre cose, assessore all’urbanistica, all’ambiente, ai lavori pubblici. Da cui si faceva veramente fatica a capire quale dignità volesse riprendersi.

Ma forse per Cesaro dignità è il campo di calcio regolamentare contenuto nel suo centro benessere, sono i sofisticati apparecchi per il fitness con chiavetta usb, è il centro estetico che offre «una colata di gel a soli 25 euro». Ho la sensazione che tutte le persone che vedo impegnarsi nelle svariate attività sportive abbiano voglia di dimenticare il luogo in cui vivono. Si auto-recludono in questa pulitissima e ordinata enclave per cercare la loro dignità. Con tutta probabilità per Cesaro dignità sono anche le foto del Milan sparse ovunque nelle hall del centro, accompagnate da una lettera del team manager che si congratula per la qualità dell’accoglienza. La squadra è stata ospitata qui in occasione dell’ultima trasferta con il Napoli. Mi viene da pensare a Maldini che palleggia tranquillo e inconsapevole, mentre fuori a pochi metri prende forma l’apocalisse.
Chiediamo a un responsabile del centro di fare delle foto, ma, anche se con uno stile più istituzionale, ci viene impedito come nella 219. «Abbiamo un ufficio stampa che si occupa di tutti gli aspetti della nostra immagine coordinata, ma in questo momento non c’è», ci comunica il responsabile. E fino a quando non lasciamo il centro ci fa seguire da un suo scagnozzo, che cerchiamo di seminare inscenando un improbabile nascondino, mentre gruppi di bambini giocano a calcetto.

Fine prima parte

© Cristiano de Majo

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Leggi un altro articolo di Cristiano De Majo su WA: 0031 [SPECULAZIONE] In nome di cosa continuiamo a sentirci migliori?

[1] E-mail di contatto:
Cristiano,
vorrei pubblicare anche questo tuo scritto.
Questi appunti di viaggio senza retorica m’interessano.
Sono comparabili agli scritti di Paolo Rumiz e Franco Arminio (Wilfing Architettura a breve farà un’intervista da pubblicare in inverno, la rete perde lettori in estate) ma a me piace ricordare Sandro Onofri.
Inviato: venerdì 29 maggio 2009 ore 10.45

caro salvatore,
puoi senz'altro pubblicare l'articolo. l'unico problema è che è molto lungo. se preferisci puoi anche estrapolare degli stralci, a patto che appaiano come tali.
ti saluto, ti ringrazio e ti auguro una bella giornata,
cristiano
Inviato: venerdì 29 maggio 2009 ore 16.21

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