Santo cemento
L’asse mediano, il Doppio senso
Ancora edilizia, edilizia, edilizia. Abusi, abusi, abusi. La provincia sono soprattutto le sue strade. Vie di scorrimento interno che attraversano e disegnano questo paesaggio da megalopoli del Terzo mondo. Il cosiddetto Doppio senso (o Strada degli americani). L’asse mediano. Una teoria di case morte, concessionari di macchine, venditori di statue, negozi di mobili, spazzatura. I manifesti di Cesaro compaiono a ogni angolo, svettano sulle dune di terra corrosa, incorniciano gli insediamenti abitativi sparsi a macchia di leopardo su questa pianura metallica. Riprendiamoci la dignità.
Un’altra statua di Cristo compare mentre camminiamo sul Doppio senso. Enorme. Candidamente bianca. Con le braccia alzate e mazzi di fiori ai piedi. Dev’essere l’altare di un incidente mortale. Dietro la figura gigantesca, il nostro pan di zucchero è lo scheletro di un palazzo non completato. E non si capisce se la statua stia dicendo agli automobilisti «andate piano», oppure gridi agli uomini «guardate cosa avete fatto».
Qualche chilometro e ci fermiamo davanti a un manifesto pubblicitario, che in realtà non è quello che sembra. C’è la foto di una donna e di una bambina incorniciata da un cuore. Accanto, una lettera sdolcinata rivolta a un uomo, rispettivamente marito e padre. Un regalo di compleanno autostradale. Ti amiamo da impazzire. Anche la cartellonistica è affidata allo spontaneismo.
Sfiliamo sull’asse mediano in direzione del mare, attraversando il territorio del comune di Giugliano, il terzo più popolato della Campania. Il cemento si dirada progressivamente e in certi tratti la campagna resiste ancora. Ma a Varcaturo ritorna il far west. Una lunga strada costeggiata da fantasiose architetture di tutti gli stili, dal neoclassico al moresco. Saloni per cerimonie. Negozi di articoli da spiaggia. Caseifici. Fino all’orizzonte.
La spiaggia è una sequenza ininterrotta di stabilimenti balneari chiusi. Sulla costa piatta a perdita d’occhio, casupole di lamiera e cemento brillano sotto la luce viola del sole che sta per tramontare. Varcaturo d’estate è uno dei posti di mare più frequentati. È vicino alla città. Si prende il sole senza fare il bagno. Si fa un grande uso di docce, visto che in certi periodi l’acqua del mare assume una strana tonalità rossastra.
Questa spiaggia non mi è mai sembrata così bella come ora in questo crepuscolo purgatoriale. È un pianeta inesplorato di qualche lontana galassia. Gli unici esseri umani nel raggio di alcuni chilometri sono una coppia di ragazzi che si rotolano sul bagnasciuga a uso di un paio di fotografi. Stanno preparando il servizio del loro matrimonio. E mentre si abbracciano spruzzati dalle onde, sembra stiano tentando di immaginare come sarebbe l’amore dopo la fine del mondo.
Il Vulcano Buono
Ci spostiamo all’interno verso sud. È sera e l’interporto di Nola (il CIS) è una foresta di lampioni, una fitta giungla di alberi elettrici. Accanto sorge il Vulcano Buono l’ennesima opera monstre calata dall’alto. Autore: l’incommensurabile Renzo Piano.
Non che sia così manifestamente violenta. Al contrario, vista dalla strada, è perfettamente mimetizzata col paesaggio. Un vulcano ricoperto di verde che rende invisibili negozi, merci, scale mobili contenuti nel cratere. Ne sono certo, non scoppierà. Il problema semmai è il senso: c’era bisogno di un altro gigantesco centro commerciale in un territorio i cui unici spazi di condivisione sono centri commerciali? Dovremmo ridimensionare l’aura di sensibilità che avvolge certi artisti della progettazione. Vengono convocati come eroi culturali nei talk show che contano, ma sono in realtà esecutori in bello stile di un’arte regimentale, senza più nessuna consapevolezza della loro funzione sociale.
E però, per quanto spaventoso sia, non è difficile comprendere chi viene qui, al Vulcano Buono, per sentirsi a proprio agio, finalmente sicuro. L’ordine del consumo infonde una specie di calore neutro, qualcosa in grado di tranquillizzare rispetto ai disastrosi paesaggi dopobomba dell’esterno. L’interno non è più un freddo non luogo, ma la materializzazione di un’utopia familiare, una piattaforma di felicità media.
Stanchi e appagati, mangiamo anche noi un panino naturale e scivoliamo sui corridoi lucidi e semivuoti come personaggi di un plastico a grandezza naturale. Fino alla chiusura.
L’inceneritore di Acerra
Ci ritroviamo di mattina presto al termovalorizzatore di Acerra. L’aria è sporca di umido, nebbiosa. La struttura si profila in lontananza come un oggetto non identificato. Un minaccioso robot di metallo atterrato sulle distese d’insalata dell’ex Campania felix, una tra le terre più fertili d’Italia.
L’atmosfera è improntata alla segretezza. L’esercito ad armi spianate veglia sulla distruzione. Dall’esterno appare come un’area riservata di inimmaginabili esperimenti. Cosa starà succedendo di così importante e riservato? Semplicemente: si brucia spazzatura.
Passiamo dentro i campi di verdura che circondano il termovalorizzatore e dove, a qualche metro dal recinto militare, un gruppo di contadini sta lavorando la terra. Abbiamo bisogno di un caffé e capitiamo davanti a un chiosco parcheggiato nel deserto della zona industriale. Un posto a tal punto assurdo che neanche Aki Kaurismaki sarebbe riuscito a concepirlo.
Ci mettiamo a parlare con due persone, anche loro provvisori clienti di questo bar nel niente. Uno è titolare di un’azienda agricola, l’altro un autista di camion della spazzatura. Se avessi voluto organizzare un dibattito sull’emergenza rifiuti non sarei riuscito a riunire due figure tanto rappresentative.
Parliamo dei vecchi tempi e della cultura rurale. Di come, mi dicono, l’inaugurazione del termovalorizzatore sia stato «un mezzo imbroglio». L’autista sostiene che al momento non sta funzionando e mi indica la ciminiera da cui, in effetti, non esce fumo. Bassolino ha sbagliato, dicono tutti e due, ma si è trasformato in una specie di capro espiatorio. Aveva chiuso le discariche e cercato un dialogo con le popolazioni. Berlusconi, l’uomo che ha risolto il problema anche agli occhi di alcuni illuminati opinionisti della stampa nazionale, ha semplicemente imposto la forza, ma intanto la raccolta differenziata continua a latitare e se non c’è differenziazione, i rifiuti che dovrebbero bruciare sono quelli sbagliati.
La trascorsa emergenza rifiuti è il tema caldo della campagna. Il centrodestra usa le surreali immagini di quei giorni per ricordare all’elettorato che potrebbe ancora succedere. Il centrosinistra cerca di far dimenticare le sue responsabilità producendo facce nuove. In questa battaglia navale l’elettore di sinistra si trova decisamente spaesato. Consapevole che la sua astensione darebbe in qualche modo il via libera a uno dei personaggi più inquietanti che si siano visti in questi anni, prova una certa sofferenza ad avallare con il suo voto un quindicennio di politiche fallimentari che non hanno portato nessun miglioramento reale, a parte alcuni impulsi iniziali, subito soffocati da uno stolido esercizio del potere. Lo slogan che caratterizza la campagna affissione di Nicolais – Ei tu! Vota la provincia – aumenta se possibile il sospetto. È l’ennesima chiamata a raccolta non si capisce per fare che, se non opporsi ottimisticamente ma senza alcuna idea alla calata dei barbari.
La spiaggia di Pozzano
Fuggiamo ancora più a sud, lungo la costa. Attraversiamo la vecchia periferia industriale di San Giovanni a Teduccio e affrontiamo il litorale vesuviano. Una successione ininterrotta di agglomerati urbani alla pendici di un vulcano che potrebbe esplodere da un momento all’altro. La bella linea rocciosa del versante avrebbe fatto la fortuna turistica di qualsiasi località. Qui, invece, il mare è ancora un’estensione urbana, una strada non trafficata che delimita il paesaggio arrugginito.
A Castellammare di Stabia passeggiamo sul lungomare chiedendoci quale disastro si sia abbattuto sulla città. La spiaggia sembra uno di quei luoghi fotografati dopo lo tsunami nel sud-est asiatico. È una distesa di cartacce, plastiche, rifiuti di qualsiasi tipo. Sembra tutto morto, mentre i vivi camminano, indifferenti all’infernale dimensione visiva, passeggiando sul selciato della villa comunale. Sono questi i fantasmi?
Il confine della metropoli forse è qui, sulla spiaggia di Pozzano, a pochi chilometri da Castellammare. Un piccolo lembo di sassi che guarda verso Napoli e domina il golfo. Alle nostre spalle il vecchio cementificio trasformato in un improbabile albergo a quattro stelle. Subito dopo la dimensione urbana si dissolve. Vico Equense, Seiano, Sorrento. E più avanti Massa Lubrense, Termini, Sant’Agata sui due golfi. Senza accorgertene ti ritrovi in una paradiso per turisti tedeschi dove è facile dimenticare la bruttezza. Questa è anche la residenza estiva della borghesia napoletana da cui traspare lo splendore della riserva esclusiva.
Guardando Capri dall’alto mi chiedo se anche questa è Napoli. La risposta l’avrò qualche ora dopo, mentre seduti a un bar di Sant’Agata, qualcuno ci racconterà del progetto di trasformare la Costiera in una Repubblica indipendente. «Sorrento come San Marino», lo sentirò con le mie orecchie.
© Cristiano de Majo
Leggi la 1° parte
Leggi un altro articolo di Cristiano De Majo su WA: 0031 [SPECULAZIONE] In nome di cosa continuiamo a sentirci migliori?
Ancora edilizia, edilizia, edilizia. Abusi, abusi, abusi. La provincia sono soprattutto le sue strade. Vie di scorrimento interno che attraversano e disegnano questo paesaggio da megalopoli del Terzo mondo. Il cosiddetto Doppio senso (o Strada degli americani). L’asse mediano. Una teoria di case morte, concessionari di macchine, venditori di statue, negozi di mobili, spazzatura. I manifesti di Cesaro compaiono a ogni angolo, svettano sulle dune di terra corrosa, incorniciano gli insediamenti abitativi sparsi a macchia di leopardo su questa pianura metallica. Riprendiamoci la dignità.
Un’altra statua di Cristo compare mentre camminiamo sul Doppio senso. Enorme. Candidamente bianca. Con le braccia alzate e mazzi di fiori ai piedi. Dev’essere l’altare di un incidente mortale. Dietro la figura gigantesca, il nostro pan di zucchero è lo scheletro di un palazzo non completato. E non si capisce se la statua stia dicendo agli automobilisti «andate piano», oppure gridi agli uomini «guardate cosa avete fatto».
Qualche chilometro e ci fermiamo davanti a un manifesto pubblicitario, che in realtà non è quello che sembra. C’è la foto di una donna e di una bambina incorniciata da un cuore. Accanto, una lettera sdolcinata rivolta a un uomo, rispettivamente marito e padre. Un regalo di compleanno autostradale. Ti amiamo da impazzire. Anche la cartellonistica è affidata allo spontaneismo.
Sfiliamo sull’asse mediano in direzione del mare, attraversando il territorio del comune di Giugliano, il terzo più popolato della Campania. Il cemento si dirada progressivamente e in certi tratti la campagna resiste ancora. Ma a Varcaturo ritorna il far west. Una lunga strada costeggiata da fantasiose architetture di tutti gli stili, dal neoclassico al moresco. Saloni per cerimonie. Negozi di articoli da spiaggia. Caseifici. Fino all’orizzonte.
La spiaggia è una sequenza ininterrotta di stabilimenti balneari chiusi. Sulla costa piatta a perdita d’occhio, casupole di lamiera e cemento brillano sotto la luce viola del sole che sta per tramontare. Varcaturo d’estate è uno dei posti di mare più frequentati. È vicino alla città. Si prende il sole senza fare il bagno. Si fa un grande uso di docce, visto che in certi periodi l’acqua del mare assume una strana tonalità rossastra.
Questa spiaggia non mi è mai sembrata così bella come ora in questo crepuscolo purgatoriale. È un pianeta inesplorato di qualche lontana galassia. Gli unici esseri umani nel raggio di alcuni chilometri sono una coppia di ragazzi che si rotolano sul bagnasciuga a uso di un paio di fotografi. Stanno preparando il servizio del loro matrimonio. E mentre si abbracciano spruzzati dalle onde, sembra stiano tentando di immaginare come sarebbe l’amore dopo la fine del mondo.
Il Vulcano Buono
Ci spostiamo all’interno verso sud. È sera e l’interporto di Nola (il CIS) è una foresta di lampioni, una fitta giungla di alberi elettrici. Accanto sorge il Vulcano Buono l’ennesima opera monstre calata dall’alto. Autore: l’incommensurabile Renzo Piano.
Non che sia così manifestamente violenta. Al contrario, vista dalla strada, è perfettamente mimetizzata col paesaggio. Un vulcano ricoperto di verde che rende invisibili negozi, merci, scale mobili contenuti nel cratere. Ne sono certo, non scoppierà. Il problema semmai è il senso: c’era bisogno di un altro gigantesco centro commerciale in un territorio i cui unici spazi di condivisione sono centri commerciali? Dovremmo ridimensionare l’aura di sensibilità che avvolge certi artisti della progettazione. Vengono convocati come eroi culturali nei talk show che contano, ma sono in realtà esecutori in bello stile di un’arte regimentale, senza più nessuna consapevolezza della loro funzione sociale.
E però, per quanto spaventoso sia, non è difficile comprendere chi viene qui, al Vulcano Buono, per sentirsi a proprio agio, finalmente sicuro. L’ordine del consumo infonde una specie di calore neutro, qualcosa in grado di tranquillizzare rispetto ai disastrosi paesaggi dopobomba dell’esterno. L’interno non è più un freddo non luogo, ma la materializzazione di un’utopia familiare, una piattaforma di felicità media.
Stanchi e appagati, mangiamo anche noi un panino naturale e scivoliamo sui corridoi lucidi e semivuoti come personaggi di un plastico a grandezza naturale. Fino alla chiusura.
L’inceneritore di Acerra
Ci ritroviamo di mattina presto al termovalorizzatore di Acerra. L’aria è sporca di umido, nebbiosa. La struttura si profila in lontananza come un oggetto non identificato. Un minaccioso robot di metallo atterrato sulle distese d’insalata dell’ex Campania felix, una tra le terre più fertili d’Italia.
L’atmosfera è improntata alla segretezza. L’esercito ad armi spianate veglia sulla distruzione. Dall’esterno appare come un’area riservata di inimmaginabili esperimenti. Cosa starà succedendo di così importante e riservato? Semplicemente: si brucia spazzatura.
Passiamo dentro i campi di verdura che circondano il termovalorizzatore e dove, a qualche metro dal recinto militare, un gruppo di contadini sta lavorando la terra. Abbiamo bisogno di un caffé e capitiamo davanti a un chiosco parcheggiato nel deserto della zona industriale. Un posto a tal punto assurdo che neanche Aki Kaurismaki sarebbe riuscito a concepirlo.
Ci mettiamo a parlare con due persone, anche loro provvisori clienti di questo bar nel niente. Uno è titolare di un’azienda agricola, l’altro un autista di camion della spazzatura. Se avessi voluto organizzare un dibattito sull’emergenza rifiuti non sarei riuscito a riunire due figure tanto rappresentative.
Parliamo dei vecchi tempi e della cultura rurale. Di come, mi dicono, l’inaugurazione del termovalorizzatore sia stato «un mezzo imbroglio». L’autista sostiene che al momento non sta funzionando e mi indica la ciminiera da cui, in effetti, non esce fumo. Bassolino ha sbagliato, dicono tutti e due, ma si è trasformato in una specie di capro espiatorio. Aveva chiuso le discariche e cercato un dialogo con le popolazioni. Berlusconi, l’uomo che ha risolto il problema anche agli occhi di alcuni illuminati opinionisti della stampa nazionale, ha semplicemente imposto la forza, ma intanto la raccolta differenziata continua a latitare e se non c’è differenziazione, i rifiuti che dovrebbero bruciare sono quelli sbagliati.
La trascorsa emergenza rifiuti è il tema caldo della campagna. Il centrodestra usa le surreali immagini di quei giorni per ricordare all’elettorato che potrebbe ancora succedere. Il centrosinistra cerca di far dimenticare le sue responsabilità producendo facce nuove. In questa battaglia navale l’elettore di sinistra si trova decisamente spaesato. Consapevole che la sua astensione darebbe in qualche modo il via libera a uno dei personaggi più inquietanti che si siano visti in questi anni, prova una certa sofferenza ad avallare con il suo voto un quindicennio di politiche fallimentari che non hanno portato nessun miglioramento reale, a parte alcuni impulsi iniziali, subito soffocati da uno stolido esercizio del potere. Lo slogan che caratterizza la campagna affissione di Nicolais – Ei tu! Vota la provincia – aumenta se possibile il sospetto. È l’ennesima chiamata a raccolta non si capisce per fare che, se non opporsi ottimisticamente ma senza alcuna idea alla calata dei barbari.
La spiaggia di Pozzano
Fuggiamo ancora più a sud, lungo la costa. Attraversiamo la vecchia periferia industriale di San Giovanni a Teduccio e affrontiamo il litorale vesuviano. Una successione ininterrotta di agglomerati urbani alla pendici di un vulcano che potrebbe esplodere da un momento all’altro. La bella linea rocciosa del versante avrebbe fatto la fortuna turistica di qualsiasi località. Qui, invece, il mare è ancora un’estensione urbana, una strada non trafficata che delimita il paesaggio arrugginito.
A Castellammare di Stabia passeggiamo sul lungomare chiedendoci quale disastro si sia abbattuto sulla città. La spiaggia sembra uno di quei luoghi fotografati dopo lo tsunami nel sud-est asiatico. È una distesa di cartacce, plastiche, rifiuti di qualsiasi tipo. Sembra tutto morto, mentre i vivi camminano, indifferenti all’infernale dimensione visiva, passeggiando sul selciato della villa comunale. Sono questi i fantasmi?
Il confine della metropoli forse è qui, sulla spiaggia di Pozzano, a pochi chilometri da Castellammare. Un piccolo lembo di sassi che guarda verso Napoli e domina il golfo. Alle nostre spalle il vecchio cementificio trasformato in un improbabile albergo a quattro stelle. Subito dopo la dimensione urbana si dissolve. Vico Equense, Seiano, Sorrento. E più avanti Massa Lubrense, Termini, Sant’Agata sui due golfi. Senza accorgertene ti ritrovi in una paradiso per turisti tedeschi dove è facile dimenticare la bruttezza. Questa è anche la residenza estiva della borghesia napoletana da cui traspare lo splendore della riserva esclusiva.
Guardando Capri dall’alto mi chiedo se anche questa è Napoli. La risposta l’avrò qualche ora dopo, mentre seduti a un bar di Sant’Agata, qualcuno ci racconterà del progetto di trasformare la Costiera in una Repubblica indipendente. «Sorrento come San Marino», lo sentirò con le mie orecchie.
© Cristiano de Majo
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Aspettavo la seconda parte!
RispondiEliminaGrazie Salvatore e, per inciso, ovviamente, grazie a De Majo.
Con i suoi ultimi post, mi hai fatto tornare la voglia di leggere Diario. E, vabbè, lo dico: ho ricominciato da quello di giugno, ma devo dire che preferivo la versione di Deaglio: le "inchieste vecchio stile", ecc. Bastavano le rubriche di Lodoli e di Fontana per farne una bella rivista! Poi però mia zia diceva che mi faceva diventare triste, perchè era una rivista pessimista, ecc. ecc. ...non voglio impelagarmi.
Mi è piaciuta la tua domanda (retorica?) sul perchè gli architetti "dimentichino" la cementificazione illegale.
Beh, mi vengono in mente solo parole poco lusinghiere per definire la categoria (cominciano tutte per P), ma insomma, la situazione rende un po' conto del ruolo sociale che ha l'architetto, no?
Ora però torno al Diario di giugno: c'è un articolo su "Incompiuto siciliano" che sviluppa - in direzione situazionista - il tema del Santo cemento. ...ci sarebbe da farne un post! Ehi! Ma io ho un blog! ...vediamo se avanza tempo!
Arturo,
RispondiEliminaa me piace ricordare Enzo Baldoni (anch’egli blogger) e Sandro Onofri, ahimè ambedue morti e ottimi giornalisti del ‘Il diario della settimana’.
Dell’incompiuto siciliano ne avevo parlato in questa intervista ---> http://wilfingarchitettura.blogspot.com/2008/12/0004-fuga-di-cervelli-colloquio-italia.html
E ne ha parlato anche la rivista ‘abitare’ in un suo recente numero.
Come puoi notare i pezzi più pregiati sono a Giarre, parlandone con un mio amico precario professore dell’Università di architettura e abitante nello stesso paese mi ha ammesso la sua ignoranza su questa iniziativa a mio parere importante ma troppo elitaria.
Link ‘Incompiuto siciliano’ ---> http://www.alterazionivideo.com/new_sito_av/workshop/hangar.php
A proposito della domanda retorica oggi sul blog di ‘Abitare’ ho letto questi due articoli:
Stefano Boeri La bellezza dei centri storici italiani - http://abitare.it/direttore/the-beauty-of-italys-historic-cities/
Una riflessione sulle città in contrazione e la frenesia dei nostri governanti ad approvare leggi per iniettare cemento/euro sul nostro paesaggio urbano;
Gialuigi Ricuperati ‘Torino, Italia, 19 - 05 -2009’ - http://abitare.it/highlights/costruire/#comment-19363
Osservando dei lavori in corso di fronte casa sua, fotografa dei muratori che disattendevano qualsiasi norma di sicurezza, ecco la sua chiosa finale: «Lo so, è facile indignazione, facile facile. Lo so. Allora mettiamola così: la mancanza di adesione alla “realtà” della nostra classe politica è così brutale, così evidente, che nessuno si preoccupa di mettere a fianco del sindaco, della giunta, della segreteria del governo della città, un piccolo periscopio per osservare gli angoli della piazza su cui si affaccia.
L’Italia è, cupamente, questo: un videogioco di ruolo a regole intuitive, in cui la strategia vincente è l’indifferenza-come-airbag. Qualunque cosa succeda, scoppiano da ogni dove soffici nuvole di interscambiabilità. Se giochi la parte del pedofilo sai bene che è indifferente nasconderti nei pertugi più improbabili o masturbarti nudo appeso al cancello di un asilo.»
Occorre ripartire dalle più elementari norme di comportamento per iniziare a discutere di architettura.
Ma non vorrei ritornare a essere retorico per non annoiare anche il nipote, aspetto il tuo pezzo.
Saluti,
Salvatore D’Agostino