di Salvatore D'Agostino
Incursione sul work in progress di un architetto di URBS e NURBS: Il blog di Alberto Pugnale.
Salvatore D’Agostino Elia Zenghelis chiamato a riflettere sullo studente di architettura in un'intervista di Daria Ricchi e Manfredo di Robilant risponde
Incursione sul work in progress di un architetto di URBS e NURBS: Il blog di Alberto Pugnale.
Salvatore D’Agostino Elia Zenghelis chiamato a riflettere sullo studente di architettura in un'intervista di Daria Ricchi e Manfredo di Robilant risponde
«Penso che, in realtà, molti studenti scelgano di fare architettura perché non sono abbastanza intelligenti per materie più scientifiche o più umanistiche.»1Riprendendo questo paradosso, un architetto può disconoscere la logica matematica/scientifica?
Alberto Pugnale La domanda e la sua premessa accomunano temi diversi che preferirei non mescolare. L'intervista a Elia Zenghelis infatti è sì incentrata sulla formazione dell'architetto, ma addirittura prova a riflettere sui motivi che potrebbero spingere gli studenti a studiare architettura. E ovviamente li considera come possibili cause di una cattiva formazione. La tua domanda invece è volta sia alla formazione universitaria, quindi alla questione della didattica, ma immagino anche al bagaglio culturale che deve possedere un architetto che esercita poi la professione. Con riferimento alla scelta da parte degli studenti di iscriversi ad architettura non mi sento in grado di esprimere una posizione molto forte. Nonostante questo non sono però così convinto di quanto afferma Elia Zenghelis. Personalmente ho abbastanza fresco il ricordo di quando decisi di iscrivermi ad Architettura e posso affermare che fu una scelta casuale e non molto ragionata. Diciamo che la consideravo una naturale prosecuzione dell’istituto tecnico per geometri che frequentai in precedenza. Solo successivamente scoprì che per me era una passione. Però molti altri ex compagni avevano le storie più svariate a riguardo e considerare la Facoltà di Architettura come l’immondizia dove buttare gli studenti non adatti alle altre Facoltà più toste mi sembra veramente generalizzante e pessimistico, oltre che inutile come base per un ragionamento sul tema. E non credo di esagerare. Anche fosse sensato immaginare che i nostri studenti possano essere lo scarto del loro totale distribuito in più prestigiosi atenei prettamente scientifici o umanistici non ritengo sia così facile collocarsi comunque nella posizione di mezzo. Dico questo per introdurre la seconda parte della mia risposta. Infatti quella che chiami la logica matematica/scientifica è sostanzialmente parte integrante del sapere dell’architetto e, più o meno dosata a seconda dell’individuo con gli altri saperi, va a completare una formazione di base indispensabile. Se ci riferiamo all’università come luogo di formazione di architetti professionisti sono sicuro che il mercato richiede persone nelle quali le basi solide si trovano nelle conoscenze tecniche. È quello che permette di vendersi e crescere professionalmente. Ed è solo grazie a quello se vi è poi possibilità di far vedere nel mondo professionale anche altre doti personali. Con riferimento invece al mondo della ricerca, allora credo valga la pena sorpassare i saperi disciplinari e ragionare alla Popper, sulla base di problemi. Sempre dando per scontato che si tratti di problemi ben formulati, sebbene la cosa possa non essere così semplice, è l’unico modo di affrontare le questioni del mondo delle costruzioni superando le barriere disciplinari. In questo caso all'architetto è richiesto di studiare praticamente tutto. Già solo per citare l’argomento computer, premesso nella domanda, bisognerebbe spaziare dagli studi sugli strumenti e sulle tecnologie di Ong e di McLuhan, passando per le ricerche sull'Intelligenza artificiale e sulla psicologia cognitiva, ad esempio leggendo Minsky e Dennett, finendo poi con tante altre cose legate proprio all’uso specifico che interessa a noi architetti farne di questi strumenti. Mi viene quindi difficile pensare che questioni legate all'architettura, anche più prettamente filosofiche, riescano a trovare argomenti solidi senza poggiare su basi e studi scientifici. Queste questioni sono state ampiamente dibattute soprattutto con riferimento al tema della scuola d’architettura e della didattica in architettura negli atenei come il mio di Torino, i Politecnici (ad esempio Gabetti nei suoi scritti, alcuni dei quali raccolti in “Atti e rassegna tecnica della Società Ingegneri e Architetti di Torino”, Dicembre 2001). Ma anche a Genova con l’ing. Benvenuto, che poco prima della sua scomparsa intervenne in un convegno, sbobinato in PORTOGHESI P., SCARANO R. (a cura di), Il progetto di architettura. Idee, scuole, tendenze all'alba del nuovo millennio, Newton & Compton editori, Roma, 1999. Però non vorrei divagare troppo.
Per concludere, vorrei porre l’attenzione su alcune domande, che riformulo a partire dagli stimoli che mi offri: “È possibile che i problemi architettonici possano essere esclusivamente trattati attraverso un approccio progettuale, quindi sulla base di un talento personale e dell’esperienza accumulata? (Quindi eliminando la conoscenza disciplinare, scientifica o umanistica che sia, tanto le doti personali vengono fuori comunque prima o poi.) O riteniamo interessante indagare anche dei problemi, magari più limitati e semplici rispetto a un intero progetto, ma nei quali è possibile formulare correttamente il problema da studiare, il risultato che intendiamo ottenere è valutare gli strumenti che riteniamo adatti alla sua risoluzione (studiarli, capirli, adattarli, interiorizzarli)? Vogliamo veramente sfruttare un bagaglio culturale di altre discipline scientifiche per capire meglio come funziona la nostra mente (il processo progettuale)? Oppure il problema che più ci preme è la semplice demarcazione tra scienza e metafisica (perché certe cose sono talmente complesse e ‘scivolose’ da trattare che è meglio lasciar perdere in partenza)?”.
Immagino di aver divagato. Se non ho risposto a pieno, spero almeno di aver sfruttato la domanda per provocare a dovere!
2 dicembre 2008
In un carteggio tra Luigi Moretti e Giulio Roisecco per la pubblicazione di un articolo sull'architettura parametrica (cioè il tentativo di coniugare la ricerca matematica e architettura) sulla rivista Moebius, Moretti scrive:
«Tu sai che è dal 1939-40 che spingo la ricerca su queste relazioni e le possibilità della loro massima estensione per arrivare ad una architettura che viva nell'affascinate respiro del mondo attuale permeato di faustiano spirito scientifico, architettura cioè autenticamente moderna di fatto (quindi nuova e rivoluzionaria) e non soltanto di nome per appartenenza storica a tempi moderni. [...] L'ignoranza persistente, scusami, nella quasi totalità dell'area accademica delle nostre Facoltà di Architettura (e non solo in Italia) di ogni problema che esuli dal formalismo che impera e dalle dichiarazioni sociali prive di ogni contenuto concreto e l'impreparazione, non certo per la colpa, dei docenti e studenti delle nostre Facoltà delle materie matematiche, mi fecero desistere e chiudere le nostre ricerche nell'area di chi poteva parlare un linguaggio consimile.»
Qual è lo stato attuale nei confronti di queste tematiche nell'Università di oggi?
Rispondo riferendomi principalmente alla situazione del Politecnico di Torino. Non vorrei includere l’intera università italiana nella posizione che esprimo, maturata principalmente all'interno dell’ambiente che frequento. Partendo dal fatto che le Facoltà di Architettura offrono una didattica fornita da docenti afferenti a diversi dipartimenti (più una percentuale di esterni che si spera sia bassa) bisogna ricordare che la ricerca si svolge poi all'interno dei singoli dipartimenti, che sono per lo più indipendenti.
È quindi inevitabile che quanto accade nella didattica sia separato da quanto invece avviene nei dipartimenti e nel mondo della ricerca. E questo credo sia il più grande limite per la crescita e lo sviluppo di studi innovativi su temi che superano l’interesse dei singoli saperi disciplinari. Intendo il più grande limite burocratico. Poi c’è anche un altro impedimento culturale, dovuto al fatto che non tutti i docenti e i ricercatori ritengono opportuno far rientrare all'interno della Facoltà di Architettura certe ricerche. Per superare le difficoltà organizzative si può pensare di trasformare il modo di lavorare e fare didattica dei docenti in modo che vi sia maggior corrispondenza tra didattica e ricerca. Più nello specifico, sarebbe importante che docenti afferenti alle diverse discipline, ma che poi si ritrovano in aula a fare didattica sul progetto, possano appartenere per temi alla stessa struttura di ricerca anche finito il ruolo prettamente didattico. Si tratta quindi di far evolvere i Dipartimenti universitari in Scuole (di ricerca). Nel caso specifico di Torino, ritengo che le potenzialità affinché questo cambiamento possa raccogliere buoni risultati ci siano. Mario Alberto Chiorino spiega bene quanto ho appena affermato nel piccolo saggio: “Filosofia strutturale: Jürg Conzett e l’eredità di Torino” in Conzett J., Architettura nelle opere d’ingegneria, Allemandi, 2007. Il riferimento è al rapporto tra forma e struttura, dato che si tratta di un legame difficile da scindere, più volte affrontato con ottimi esiti (di pensiero e di opere) all'interno del nostro Politecnico. Chiorino esprime chiaramente la sua posizione, punzecchiando velatamente nel suo testo i sostenitori di orizzonti culturali opposti, largamente presenti nella scena della facoltà torinese (la unifico nonostante ve ne siano due).
Per concludere, la mia speranza è che l’università segua la rotta del maggior connubio tra ricerca e didattica, e del superamento della suddivisione in Dipartimenti, anche culturale. Però mi aspetto inoltre che sia proprio la Scuola di Dottorato la prima a formare dottori di ricerca che svolgono il proprio studio e lavoro con questo approccio. Oltre al rapporto tra forma e struttura si possono citare velocemente alcuni campi di ricerca che richiedono espressamente un team di lavoro ‘multi-etnico’: il rapporto edificio-impianti e la sostenibilità energetica, le infrastrutture, che legano l’ingegneria civile con gli studi sul paesaggio. Per fare solo un paio di esempi.
Una delle pagine più interessanti del tuo blog è la bibliografia ragionata, aiuta la tua ricerca ma invita anche l'utente ad un approfondimento, indirizzando il neofita e il curioso. Scorrendola s'intuisce il carattere del tuo studio sull'interazione tra architettura e ingegneria attraverso l'uso delle nuove tecnologie. A che cosa serve o è servito questo appunto telematico?
La pagina dedicata alla bibliografia è in sostanza un elenco di libri e articoli appuntati come memoria delle letture personali, volte alla stesura della tesi di dottorato.
Nel blog non aggiorno questa pagina da gennaio 2008. Nel mio archivio però conservo diverse versioni di questo elenco, salvate progressivamente ad ogni cambiamento che vi apporto. Si tratta di aggiunte ed eliminazioni di libri, ma anche di inserimenti di commenti personali.
È proprio un percorso di letture che sto portando avanti al fine di ottenere poi una vera bibliografia del mio lavoro, che vorrei fosse però limitata a quanto è effettivamente servito nella tesi. Ad esempio, nello specifico della ricerca operativa sono partito dal “Manuale sulle reti neurali” di Floreano nel quale è ben spiegato come costruire un semplice algoritmo genetico. Ho iniziato anche con la tesi di laurea di un mio ex compagno di studi T. Mendez, che si è occupato proprio di ottimizzare una forma libera sulla base di una performance prestabilita. Anche questa è indicata in bibliografia. Poi si passa agli articoli pubblicati sulle riviste di ingegneria o ai libri più tecnici, come il Koza per gli algoritmi genetici (è dedicato alla programmazione genetica ma ha un’introduzione agli AG eccellente ed è il più recente), l’articolo di Elbeltagi E., Hegazy T., Grierson D., Comparison among five evolutionary-based optimization algorithms dal quale sono nati gli stimoli per degli avanzamenti dello stato attuale delle nostre ricerche (ad esempio la tesi di laurea di Paolo Basso di Genova, veramente un lavoro di ricerca eccellente volto a ricondurre gli elementi costitutivi di una copertura a forma libera grid-shell ad un abaco di elementi predefiniti e limitati nel numero), o il Fonseca C. M., Fleming P. J., Multiobjective Optimization and Multiple Constraint Handling with Evolutionary Algorithms-Part I: A Unified Formulation, utile spunto per delle ottimizzazioni multi-obiettivo, mai ancora provate però per ora.
I libri di epistemologia mi stanno aiutando più che altro a costruire un quadro concettuale all’interno del quale collocare il lavoro di ricerca al fine della stesura della tesi. Mentre le pubblicazioni didattiche mi servono ad aggiornarmi su cosa succede all’interno di altre facoltà e dipartimenti.
I libri classici fa invece sempre bene rileggerli nel momento in cui interessa un particolare tema. Credo che nella rilettura si focalizzino meglio alcune parti magari ignorate in passato per scarsità d’interesse. Solo per questo motivo sono in elenco, e ce n’è parecchi. Rimangono però utilissimi i convegni e la lettura dei relativi atti. Niente di meglio di un po’ di contatti personali e continue scadenze affinché il proprio lavoro possa procedere spedito, avere continuamente visibilità ed essere confrontato con gli altri. Prometto che aggiornerò più di frequente questa pagina. Nel frattempo, ai curiosi (anche se sanno trovarsi da soli gli stimoli) consiglio di leggersi “Il turista matematico” di Peterson oppure “Il matematico impertinente” di Odifreddi. Questi sì che sono libri divulgativi ma chiari e dettagliati al punto da non essere banali. Proprio adatti per iniziare a capire quante cose interessanti si possono studiare e indagare.
Sta cambiando il linguaggio dell'architettura attraverso l'utilizzo dello strumento matematico/informatico in questa era, che possiamo definire, della sofisticazione tecnologica?
Non condivido il fatto di classificare l’architettura separando l’era attuale dal passato. E non condivido neanche doversi porre un problema che non esiste, e cioè quello di trovarle un nome.
Dal punto di vista storico è spesso utile riferirsi a epoche passate chiamandole coi vari nomi che si studiano sui libri. Però attualmente questo modo di fare storia trova un po’ di difficoltà col presente. Difatti si fanno molte biografie, piuttosto che storie dell’architettura. Approcciando però il problema non guardando alle diversità (che generano classificazioni) ma occupandosi delle ‘continuità’ col passato (come fa ad esempio Pigafetta, pur non studiando il presente) allora si può trattare questa domanda eliminando alla radice alcuni falsi problemi. Rispondo quindi come fece Moneo a Pierre-Alain Croset in un’intervista fatta in occasione di un suo intervento a Torino per il ciclo di conferenze in memoria di Roberto Gabetti, a una domanda simile ma riferita all'insegnamento dell’architettura, ora pubblicata nel librettino della Allemandi: “Costruire nel costruito” a cura di Michele Bonino:
«A mio modo di vedere queste tecniche hanno senz’altro avuto, e continuano ad avere, un effetto molto importante sulle nuove architetture. Ma il cambiamento è molto più sostanziale. I nuovi canali di comunicazione hanno dato adito a un nuovo modo di intendere la conoscenza. […] Ma nella vostra domanda c’era implicitamente qualcosa di inquietante, a cui mi è difficile rispondere. L’architettura continuerà ad essere un’arte in cui gli occhi, la visione, contano sopra ogni cosa? […]»
Io credo si possa riflettere su questo tema facendo un’analogia con la musica. I diversi strumenti musicali sono portatori in maniera differente di tecnologia. In alcuni casi, come negli archi, al musicista è richiesta maggior sensibilità ed è data quindi una più grande opportunità di definire e regolare il suono. In strumenti come l’organo, portatori di grande tecnologia, il suonatore perde quanto appena descritto con riferimento agli archi. Sono modi diversi di occuparsi della stessa cosa. In base agli strumenti che si usano ci si accolla vantaggi e svantaggi, modi di pensare e ragionare.
Sasaki è attualmente uno dei pochi progettisti di strutture che hanno l’interesse e la sensibilità adatta per capire quanto il suo lavoro influenzi sostanzialmente l’architettura. Comprende quanto il suo contributo sia principalmente di concezione del progetto più che di risoluzione tecnica. Detto questo, che era già stato compreso nel dopoguerra da una serie di progettisti di strutture (Nervi, Morandi, Musmeci, Candela, Torroja, Otto, ecc.), Sasaki non si ferma ai risultati raggiunti negli ultimi decenni e prova ad indagare il tema della ricerca di forma e della morfogenesi attraverso la computazione. Prova cioè ad utilizzare il computer per raggiungere degli obiettivi che sembrano sfruttare a pieno il suo potenziale, molto di più che sostituendoli ai tecnigrafi e alle macchine da scrivere.
A lui va l’onore di aver sperimentato per la prima volta in architettura un’ottimizzazione topologica per la ricerca di forma, una versione estesa dell'ESO method già consolidato da anni invece nel mondo dell’ingegneria nella sua versione tradizionale. Si è occupato anche di ricerca di forma attraverso un metodo iterativo basato sul gradiente, l’analisi di sensitività. Però in generale i risultati architettonici non mi affascinano particolarmente, nonostante ne comprenda il valore sperimentale. Preferisco personalmente alcuni grattacieli che i SOM stanno costruendo di recente, nei quali l’utilizzo di tecniche di ottimizzazione non si ferma alla lettura dei risultati del computer, assumendoli come forma finale, ma dove queste diventano appunto solo uno dei tanti strumenti di conoscenza. Però la forma finale si discosta in parte dai risultati della morfogenesi computazionale
Parafrasando un tuo post di che NURBS sei?
Il post a cui fa riferimento è stato intitolato così proprio per valorizzare il contenuto del librettino che intendevo presentare. Infatti nel testo di Ciammaichella oltre a spiegare come i software NURBS-based permettono di generare delle superfici libere si occupa di trovare delle analogie tra le regole generative delle superfici parametriche e il modo di concepire spazi avvolti da queste forme libere da parte degli architetti, quelli più noti. Dato che il libro mira anche a classificare i diversi architetti in categorie, proprio perché questi utilizzano sempre lo stesso modo di concepire architetture libere (e quindi NURBS relative per rappresentarle), io preferirei rispondere alla domanda solamente in relazione ad un tipo di problema architettonico che mi viene sottoposto in contemporanea. Come faccio altrimenti a prendere decisioni progettuali, sulla generazione di una forma, senza un programma davanti? Così a vuoto appartengo a tutte, nel senso che sono tutte possibilità da valutare. Ripensando però anche a diversi progetti che mi sono trovato davanti a nessuna. Non vorrei, come spesso accade, che il primo problema di un programma progettuale fosse aggiunto proprio dall’architetto insistendo sul voler a tutti costi costruire forme libere senza senso.
A che cosa serve un blog per un architetto?
Il blog permette di avere visibilità, costringe a mettere in ordine le idee e impegna periodicamente l’autore a metterci mano.
È un modo rapido ed efficace per poter scambiare idee tra amici e colleghi più o meno lontani e con orari e impegni anche molto diversi dai nostri. A questo vorrei che servisse il mio di blog. Mi permetto però di affermare con molta disinvoltura che non si tratta di specifiche necessità da architetto. Sono i motivi per i quali parecchi autori di blog ne aprono uno e scrivono. In tutto questo c’è un problema però. La semplicità di questo strumento e la sua diffusione pone i naviganti nella situazione di trovarsi troppa informazione davanti agli occhi. E quindi il principale problema, e inversione di rotta rispetto al passato, diventa leggere per selezionare piuttosto che indagare per trovare.
2 dicembre 2008
Intersezioni ---> MONDOBLOG
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Note:
1 Intervista pubblicata sul Giornale dell'Architettura, maggio 2008.
Si possono leggere altri commenti su: A conversation with Salvatore D’Agostino
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---> Alberto,
RispondiEliminaun colloquio pieno di spunti, dalla lunghezza innaturale per un blog.
Sono d'accordo con te che non bisogna classificare l'architettura.
Mi ricollego al tuo spunto: «Però attualmente questo modo di fare storia trova un po’ di difficoltà col presente. Difatti si fanno molte biografie, piuttosto che storie dell’architettura». per parlare di un libro che per paradosso potrebbe essere la storia dell'architettura italiana contemporanea, Federico Zanfi, Città latenti. Un progetto per l'Italia abusiva, Bruno Mondadori, 2008.
Saluti,
Salvatore D'Agostino
Ciao Salvatore,
RispondiEliminavolevo farti i complimenti per l'intervista ad Alberto, davvero un'ottima panoramica sui temi trattati sul suo blog . Per quanto riguarda ciò che scrive Alberto penso sia molto interessante capire cosa succede all'interno di una facoltà di Architettura a riguardo della ricerca. Il problema della non comunicazione tra dipartimenti è un qualcosa di deleterio per la ricerca, specie per il nostro lavoro che fa della conoscenza multidisciplinare l'arma vincente. Ancora complimenti ad Alberto per il lavoro e i traguardi che raggiunge nel nostro Politecnico.
saluti a tutti e due.
---> Davide,
RispondiEliminagrazie mi piace provocare l'intelligenza altrui ed Alberto è stato un ottimo interlocutore.
Il rapporto tra ricerca e università è interessante perché tralasciando le vuote beghe mediatiche, per vincere le nuove scommesse bisogna superare molti ostacoli burocratici e culturali.
Mi auguro che si possa insistere dall'interno per cambiare concretamente lo stato delle cose, senza lamentazioni e splatter televisivi.
Forza e buon lavoro.
Riguardo alla ricerca, forse il fatto che i dipartimenti non siano in grande comunicazione tra loro, se non per questioni didattiche, può essere normale. Allora forse è opportuno formare dei dipartimenti che sono più vicini alla struttura di alcuni laboratori didattici, quindi didattica e ricerca più legati tra loro e soprattutto più vicini tra loro diversi settori disciplinari. Purtroppo invece i dipartimenti accomunano proprio persone afferenti a settori disciplinari affini, per ora. E anche i gli stessi settori disciplinari non favoriscono lo sviluppo di carriere marcatamente multidisciplinari. Forse una loro riduzione, come previsto dalle linee guida dei governi ormai da anni, non sarebbe una cattiva idea. Tutto questo per dire che la struttura dell'università non è burocraticamente adatta ad accogliere, e soprattutto a favorire e spingere, i potenziali ricercatori verso questo genere di ricerche.
RispondiEliminaQuesta è solo una mia opinione ma sarebbe un tema molto interessante sul quale discutere.
Grazie, e un saluto a tutti,
Alberto
---> Alberto,
RispondiEliminaquesto stato di università diffusa contribuisce alla non formazione di poli universitari d'eccellenza e competitivi in chiave internazionale.
Spesso le nostre università lottano tra di loro dimenticandosi la vera scommessa lo sguardo planetario, riducendosi a semplici università locali.
Resta l'invito a non lagnarsi per cambiare concretamente il nostro sistema.
In tre parole: lavoro, intelligenza e competitività.
Salvatore D'Agostino