Facebook Header

Visualizzazione post con etichetta Nurbs. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Nurbs. Mostra tutti i post

2 dicembre 2008

0019 [MONDOBLOG] PROG Engineering Architecture il blog di Alberto Pugnale

di Salvatore D'Agostino

Incursione sul work in progress di un architetto di URBS e NURBS: Il blog di Alberto Pugnale.

Salvatore D’Agostino Elia Zenghelis chiamato a riflettere sullo studente di architettura in un'intervista di Daria Ricchi e Manfredo di Robilant risponde
«Penso che, in realtà, molti studenti scelgano di fare architettura perché non sono abbastanza intelligenti per materie più scientifiche o più umanistiche.»1
Riprendendo questo paradosso, un architetto può disconoscere la logica matematica/scientifica?

Alberto Pugnale La domanda e la sua premessa accomunano temi diversi che preferirei non mescolare. L'intervista a Elia Zenghelis infatti è sì incentrata sulla formazione dell'architetto, ma addirittura prova a riflettere sui motivi che potrebbero spingere gli studenti a studiare architettura. E ovviamente li considera come possibili cause di una cattiva formazione. La tua domanda invece è volta sia alla formazione universitaria, quindi alla questione della didattica, ma immagino anche al bagaglio culturale che deve possedere un architetto che esercita poi la professione. Con riferimento alla scelta da parte degli studenti di iscriversi ad architettura non mi sento in grado di esprimere una posizione molto forte. Nonostante questo non sono però così convinto di quanto afferma Elia Zenghelis. Personalmente ho abbastanza fresco il ricordo di quando decisi di iscrivermi ad Architettura e posso affermare che fu una scelta casuale e non molto ragionata. Diciamo che la consideravo una naturale prosecuzione dell’istituto tecnico per geometri che frequentai in precedenza. Solo successivamente scoprì che per me era una passione. Però molti altri ex compagni avevano le storie più svariate a riguardo e considerare la Facoltà di Architettura come l’immondizia dove buttare gli studenti non adatti alle altre Facoltà più toste mi sembra veramente generalizzante e pessimistico, oltre che inutile come base per un ragionamento sul tema. E non credo di esagerare. Anche fosse sensato immaginare che i nostri studenti possano essere lo scarto del loro totale distribuito in più prestigiosi atenei prettamente scientifici o umanistici non ritengo sia così facile collocarsi comunque nella posizione di mezzo. Dico questo per introdurre la seconda parte della mia risposta. Infatti quella che chiami la logica matematica/scientifica è sostanzialmente parte integrante del sapere dell’architetto e, più o meno dosata a seconda dell’individuo con gli altri saperi, va a completare una formazione di base indispensabile. Se ci riferiamo all’università come luogo di formazione di architetti professionisti sono sicuro che il mercato richiede persone nelle quali le basi solide si trovano nelle conoscenze tecniche. È quello che permette di vendersi e crescere professionalmente. Ed è solo grazie a quello se vi è poi possibilità di far vedere nel mondo professionale anche altre doti personali. Con riferimento invece al mondo della ricerca, allora credo valga la pena sorpassare i saperi disciplinari e ragionare alla Popper, sulla base di problemi. Sempre dando per scontato che si tratti di problemi ben formulati, sebbene la cosa possa non essere così semplice, è l’unico modo di affrontare le questioni del mondo delle costruzioni superando le barriere disciplinari. In questo caso all'architetto è richiesto di studiare praticamente tutto. Già solo per citare l’argomento computer, premesso nella domanda, bisognerebbe spaziare dagli studi sugli strumenti e sulle tecnologie di Ong e di McLuhan, passando per le ricerche sull'Intelligenza artificiale e sulla psicologia cognitiva, ad esempio leggendo Minsky e Dennett, finendo poi con tante altre cose legate proprio all’uso specifico che interessa a noi architetti farne di questi strumenti. Mi viene quindi difficile pensare che questioni legate all'architettura, anche più prettamente filosofiche, riescano a trovare argomenti solidi senza poggiare su basi e studi scientifici. Queste questioni sono state ampiamente dibattute soprattutto con riferimento al tema della scuola d’architettura e della didattica in architettura negli atenei come il mio di Torino, i Politecnici (ad esempio Gabetti nei suoi scritti, alcuni dei quali raccolti in “Atti e rassegna tecnica della Società Ingegneri e Architetti di Torino”, Dicembre 2001). Ma anche a Genova con l’ing. Benvenuto, che poco prima della sua scomparsa intervenne in un convegno, sbobinato in PORTOGHESI P., SCARANO R. (a cura di), Il progetto di architettura. Idee, scuole, tendenze all'alba del nuovo millennio, Newton & Compton editori, Roma, 1999. Però non vorrei divagare troppo.

Per concludere, vorrei porre l’attenzione su alcune domande, che riformulo a partire dagli stimoli che mi offri: “È possibile che i problemi architettonici possano essere esclusivamente trattati attraverso un approccio progettuale, quindi sulla base di un talento personale e dell’esperienza accumulata? (Quindi eliminando la conoscenza disciplinare, scientifica o umanistica che sia, tanto le doti personali vengono fuori comunque prima o poi.) O riteniamo interessante indagare anche dei problemi, magari più limitati e semplici rispetto a un intero progetto, ma nei quali è possibile formulare correttamente il problema da studiare, il risultato che intendiamo ottenere è valutare gli strumenti che riteniamo adatti alla sua risoluzione (studiarli, capirli, adattarli, interiorizzarli)? Vogliamo veramente sfruttare un bagaglio culturale di altre discipline scientifiche per capire meglio come funziona la nostra mente (il processo progettuale)? Oppure il problema che più ci preme è la semplice demarcazione tra scienza e metafisica (perché certe cose sono talmente complesse e ‘scivolose’ da trattare che è meglio lasciar perdere in partenza)?”. 
Immagino di aver divagato. Se non ho risposto a pieno, spero almeno di aver sfruttato la domanda per provocare a dovere!


In un carteggio tra Luigi Moretti e Giulio Roisecco per la pubblicazione di un articolo sull'architettura parametrica (cioè il tentativo di coniugare la ricerca matematica e architettura) sulla rivista Moebius, Moretti scrive: 
«Tu sai che è dal 1939-40 che spingo la ricerca su queste relazioni e le possibilità della loro massima estensione per arrivare ad una architettura che viva nell'affascinate respiro del mondo attuale permeato di faustiano spirito scientifico, architettura cioè autenticamente moderna di fatto (quindi nuova e rivoluzionaria) e non soltanto di nome per appartenenza storica a tempi moderni. [...] L'ignoranza persistente, scusami, nella quasi totalità dell'area accademica delle nostre Facoltà di Architettura (e non solo in Italia) di ogni problema che esuli dal formalismo che impera e dalle dichiarazioni sociali prive di ogni contenuto concreto e l'impreparazione, non certo per la colpa, dei docenti e studenti delle nostre Facoltà delle materie matematiche, mi fecero desistere e chiudere le nostre ricerche nell'area di chi poteva parlare un linguaggio consimile.»
Qual è lo stato attuale nei confronti di queste tematiche nell'Università di oggi?


Rispondo riferendomi principalmente alla situazione del Politecnico di Torino. Non vorrei includere l’intera università italiana nella posizione che esprimo, maturata principalmente all'interno dell’ambiente che frequento. Partendo dal fatto che le Facoltà di Architettura offrono una didattica fornita da docenti afferenti a diversi dipartimenti (più una percentuale di esterni che si spera sia bassa) bisogna ricordare che la ricerca si svolge poi all'interno dei singoli dipartimenti, che sono per lo più indipendenti.  È quindi inevitabile che quanto accade nella didattica sia separato da quanto invece avviene nei dipartimenti e nel mondo della ricerca. E questo credo sia il più grande limite per la crescita e lo sviluppo di studi innovativi su temi che superano l’interesse dei singoli saperi disciplinari. Intendo il più grande limite burocratico. Poi c’è anche un altro impedimento culturale, dovuto al fatto che non tutti i docenti e i ricercatori ritengono opportuno far rientrare all'interno della Facoltà di Architettura certe ricerche. Per superare le difficoltà organizzative si può pensare di trasformare il modo di lavorare e fare didattica dei docenti in modo che vi sia maggior corrispondenza tra didattica e ricerca. Più nello specifico, sarebbe importante che docenti afferenti alle diverse discipline, ma che poi si ritrovano in aula a fare didattica sul progetto, possano appartenere per temi alla stessa struttura di ricerca anche finito il ruolo prettamente didattico. Si tratta quindi di far evolvere i Dipartimenti universitari in Scuole (di ricerca). Nel caso specifico di Torino, ritengo che le potenzialità affinché questo cambiamento possa raccogliere buoni risultati ci siano. Mario Alberto Chiorino spiega bene quanto ho appena affermato nel piccolo saggio: “Filosofia strutturale: Jürg Conzett e l’eredità di Torino” in Conzett J., Architettura nelle opere d’ingegneria, Allemandi, 2007. Il riferimento è al rapporto tra forma e struttura, dato che si tratta di un legame difficile da scindere, più volte affrontato con ottimi esiti (di pensiero e di opere) all'interno del nostro Politecnico. Chiorino esprime chiaramente la sua posizione, punzecchiando velatamente nel suo testo i sostenitori di orizzonti culturali opposti, largamente presenti nella scena della facoltà torinese (la unifico nonostante ve ne siano due).

Per concludere, la mia speranza è che l’università segua la rotta del maggior connubio tra ricerca e didattica, e del superamento della suddivisione in Dipartimenti, anche culturale. Però mi aspetto inoltre che sia proprio la Scuola di Dottorato la prima a formare dottori di ricerca che svolgono il proprio studio e lavoro con questo approccio. Oltre al rapporto tra forma e struttura si possono citare velocemente alcuni campi di ricerca che richiedono espressamente un team di lavoro ‘multi-etnico’: il rapporto edificio-impianti e la sostenibilità energetica, le infrastrutture, che legano l’ingegneria civile con gli studi sul paesaggio. Per fare solo un paio di esempi.


Una delle pagine più interessanti del tuo blog è la bibliografia ragionata, aiuta la tua ricerca ma invita anche l'utente ad un approfondimento, indirizzando il neofita e il curioso. Scorrendola s'intuisce il carattere del tuo studio sull'interazione tra architettura e ingegneria attraverso l'uso delle nuove tecnologie. A che cosa serve o è servito questo appunto telematico?

La pagina dedicata alla bibliografia è in sostanza un elenco di libri e articoli appuntati come memoria delle letture personali, volte alla stesura della tesi di dottorato.
Nel blog non aggiorno questa pagina da gennaio 2008. Nel mio archivio però conservo diverse versioni di questo elenco, salvate progressivamente ad ogni cambiamento che vi apporto. Si tratta di aggiunte ed eliminazioni di libri, ma anche di inserimenti di commenti personali.  È proprio un percorso di letture che sto portando avanti al fine di ottenere poi una vera bibliografia del mio lavoro, che vorrei fosse però limitata a quanto è effettivamente servito nella tesi. Ad esempio, nello specifico della ricerca operativa sono partito dal “Manuale sulle reti neurali” di Floreano nel quale è ben spiegato come costruire un semplice algoritmo genetico. Ho iniziato anche con la tesi di laurea di un mio ex compagno di studi T. Mendez, che si è occupato proprio di ottimizzare una forma libera sulla base di una performance prestabilita. Anche questa è indicata in bibliografia. Poi si passa agli articoli pubblicati sulle riviste di ingegneria o ai libri più tecnici, come il Koza per gli algoritmi genetici (è dedicato alla programmazione genetica ma ha un’introduzione agli AG eccellente ed è il più recente), l’articolo di Elbeltagi E., Hegazy T., Grierson D., Comparison among five evolutionary-based optimization algorithms dal quale sono nati gli stimoli per degli avanzamenti dello stato attuale delle nostre ricerche (ad esempio la tesi di laurea di Paolo Basso di Genova, veramente un lavoro di ricerca eccellente volto a ricondurre gli elementi costitutivi di una copertura a forma libera grid-shell ad un abaco di elementi predefiniti e limitati nel numero), o il Fonseca C. M., Fleming P. J., Multiobjective Optimization and Multiple Constraint Handling with Evolutionary Algorithms-Part I: A Unified Formulation, utile spunto per delle ottimizzazioni multi-obiettivo, mai ancora provate però per ora.
I libri di epistemologia mi stanno aiutando più che altro a costruire un quadro concettuale all’interno del quale collocare il lavoro di ricerca al fine della stesura della tesi. Mentre le pubblicazioni didattiche mi servono ad aggiornarmi su cosa succede all’interno di altre facoltà e dipartimenti.
I libri classici fa invece sempre bene rileggerli nel momento in cui interessa un particolare tema. Credo che nella rilettura si focalizzino meglio alcune parti magari ignorate in passato per scarsità d’interesse. Solo per questo motivo sono in elenco, e ce n’è parecchi. Rimangono però utilissimi i convegni e la lettura dei relativi atti. Niente di meglio di un po’ di contatti personali e continue scadenze affinché il proprio lavoro possa procedere spedito, avere continuamente visibilità ed essere confrontato con gli altri. Prometto che aggiornerò più di frequente questa pagina. Nel frattempo, ai curiosi (anche se sanno trovarsi da soli gli stimoli) consiglio di leggersi “Il turista matematico” di Peterson oppure “Il matematico impertinente” di Odifreddi. Questi sì che sono libri divulgativi ma chiari e dettagliati al punto da non essere banali. Proprio adatti per iniziare a capire quante cose interessanti si possono studiare e indagare.


Sta cambiando il linguaggio dell'architettura attraverso l'utilizzo dello strumento matematico/informatico in questa era, che possiamo definire, della sofisticazione tecnologica?

Non condivido il fatto di classificare l’architettura separando l’era attuale dal passato. E non condivido neanche doversi porre un problema che non esiste, e cioè quello di trovarle un nome.
Dal punto di vista storico è spesso utile riferirsi a epoche passate chiamandole coi vari nomi che si studiano sui libri. Però attualmente questo modo di fare storia trova un po’ di difficoltà col presente. Difatti si fanno molte biografie, piuttosto che storie dell’architettura. Approcciando però il problema non guardando alle diversità (che generano classificazioni) ma occupandosi delle ‘continuità’ col passato (come fa ad esempio Pigafetta, pur non studiando il presente) allora si può trattare questa domanda eliminando alla radice alcuni falsi problemi. Rispondo quindi come fece Moneo a Pierre-Alain Croset in un’intervista fatta in occasione di un suo intervento a Torino per il ciclo di conferenze in memoria di Roberto Gabetti, a una domanda simile ma riferita all'insegnamento dell’architettura, ora pubblicata nel librettino della Allemandi: “Costruire nel costruito” a cura di Michele Bonino:
«A mio modo di vedere queste tecniche hanno senz’altro avuto, e continuano ad avere, un effetto molto importante sulle nuove architetture. Ma il cambiamento è molto più sostanziale. I nuovi canali di comunicazione hanno dato adito a un nuovo modo di intendere la conoscenza. […] Ma nella vostra domanda c’era implicitamente qualcosa di inquietante, a cui mi è difficile rispondere. L’architettura continuerà ad essere un’arte in cui gli occhi, la visione, contano sopra ogni cosa? […]»
Io credo si possa riflettere su questo tema facendo un’analogia con la musica. I diversi strumenti musicali sono portatori in maniera differente di tecnologia. In alcuni casi, come negli archi, al musicista è richiesta maggior sensibilità ed è data quindi una più grande opportunità di definire e regolare il suono. In strumenti come l’organo, portatori di grande tecnologia, il suonatore perde quanto appena descritto con riferimento agli archi. Sono modi diversi di occuparsi della stessa cosa. In base agli strumenti che si usano ci si accolla vantaggi e svantaggi, modi di pensare e ragionare.



Sasaki è attualmente uno dei pochi progettisti di strutture che hanno l’interesse e la sensibilità adatta per capire quanto il suo lavoro influenzi sostanzialmente l’architettura. Comprende quanto il suo contributo sia principalmente di concezione del progetto più che di risoluzione tecnica. Detto questo, che era già stato compreso nel dopoguerra da una serie di progettisti di strutture (Nervi, Morandi, Musmeci, Candela, Torroja, Otto, ecc.), Sasaki non si ferma ai risultati raggiunti negli ultimi decenni e prova ad indagare il tema della ricerca di forma e della morfogenesi attraverso la computazione. Prova cioè ad utilizzare il computer per raggiungere degli obiettivi che sembrano sfruttare a pieno il suo potenziale, molto di più che sostituendoli ai tecnigrafi e alle macchine da scrivere.
A lui va l’onore di aver sperimentato per la prima volta in architettura un’ottimizzazione topologica per la ricerca di forma, una versione estesa dell'ESO method già consolidato da anni invece nel mondo dell’ingegneria nella sua versione tradizionale. Si è occupato anche di ricerca di forma attraverso un metodo iterativo basato sul gradiente, l’analisi di sensitività. Però in generale i risultati architettonici non mi affascinano particolarmente, nonostante ne comprenda il valore sperimentale. Preferisco personalmente alcuni grattacieli che i SOM stanno costruendo di recente, nei quali l’utilizzo di tecniche di ottimizzazione non si ferma alla lettura dei risultati del computer, assumendoli come forma finale, ma dove queste diventano appunto solo uno dei tanti strumenti di conoscenza. Però la forma finale si discosta in parte dai risultati della morfogenesi computazionale


Il post a cui fa riferimento è stato intitolato così proprio per valorizzare il contenuto del librettino che intendevo presentare. Infatti nel testo di Ciammaichella oltre a spiegare come i software NURBS-based permettono di generare delle superfici libere si occupa di trovare delle analogie tra le regole generative delle superfici parametriche e il modo di concepire spazi avvolti da queste forme libere da parte degli architetti, quelli più noti. Dato che il libro mira anche a classificare i diversi architetti in categorie, proprio perché questi utilizzano sempre lo stesso modo di concepire architetture libere (e quindi NURBS relative per rappresentarle), io preferirei rispondere alla domanda solamente in relazione ad un tipo di problema architettonico che mi viene sottoposto in contemporanea. Come faccio altrimenti a prendere decisioni progettuali, sulla generazione di una forma, senza un programma davanti? Così a vuoto appartengo a tutte, nel senso che sono tutte possibilità da valutare. Ripensando però anche a diversi progetti che mi sono trovato davanti a nessuna. Non vorrei, come spesso accade, che il primo problema di un programma progettuale fosse aggiunto proprio dall’architetto insistendo sul voler a tutti costi costruire forme libere senza senso.

A che cosa serve un blog per un architetto?

Il blog permette di avere visibilità, costringe a mettere in ordine le idee e impegna periodicamente l’autore a metterci mano.  È un modo rapido ed efficace per poter scambiare idee tra amici e colleghi più o meno lontani e con orari e impegni anche molto diversi dai nostri. A questo vorrei che servisse il mio di blog. Mi permetto però di affermare con molta disinvoltura che non si tratta di specifiche necessità da architetto. Sono i motivi per i quali parecchi autori di blog ne aprono uno e scrivono. In tutto questo c’è un problema però. La semplicità di questo strumento e la sua diffusione pone i naviganti nella situazione di trovarsi troppa informazione davanti agli occhi. E quindi il principale problema, e inversione di rotta rispetto al passato, diventa leggere per selezionare piuttosto che indagare per trovare.

2 dicembre 2008

Intersezioni ---> MONDOBLOG
__________________________________________
Note:
1 Intervista pubblicata sul Giornale dell'Architettura, maggio 2008.
Si possono leggere altri commenti su: A conversation with Salvatore D’Agostino

25 settembre 2008

0015 [MONDOBLOG] Intervista Blog a Davide Del Giudice


di Salvatore D'Agostino

L'architettura implementata in un'intervista con l'autore del blog MADE in CALIFORNIA.

Salvatore D'Agostino
«Il genio di Manhattan consiste nella semplicità con cui l'apparenza si scinde dalla realizzazione: l'illusione architettonica rimane intatta pur abbandonandosi interamente alle esigenze della metropoli; l'architettura si relaziona alle forze della Großstandt come un surfista alle onde.» (Rem Koolhaas)
Cercando nella rete sul tuo blog appare scritto: MADEinCALIFORNIA, nella terra dei surfisti e dell'architettura… Tralasciando il perché del tuo blog (Leggi: Why Made In California?), trovi che ci sia veramente un'analogia tra surf e architettura?

Davide Del Giudice Si potrebbero trovare diverse analogie tra l'architettura e il surf, ma quella che ritengo più importante è la sensazione che provi nell'azione di fare architettura e fare surf. L'unica differenza è il tempo. In architettura prima di avere dei risultati concreti ci vuole molto tempo, nel surf tutto è molto più immediato. Fare surf non è solo uno sport, è uno stile di vita. Quando fai surf l'oceano scambia con te la sua energia, ti trasmette la sua forza. Quando sei sulla tavola e cavalchi l'onda, in quel momento ti sembra di volare. In California, patria del surf, molti praticano questo sport anche i bambini. Ho vissuto con un surfista e ho amici surfisti e tutti mi dicono la stessa cosa: fare surf ti rende libero.
Uno dei miei film preferiti è Point Break, di Kathryn Bigelow; un gruppo di surfisti sopravvive alla vita di tutti i giorni compiendo continue esperienze adrenaliniche e rifiutando il sistema. La loro "droga" è l'adrenalina: si lanciano con il paracadute, fanno sport estremi e per pagarsi tutto questo fanno rapine a Los Angeles. Lo spirito del film è quello di vivere una vita libera priva di costrizioni.
Anche nell'architettura, quando progettiamo ci sentiamo liberi. Gli architetti trovano la loro libertà in quei segni grafici che creano sul foglio bianco, anche se costretti dai vincoli, dalle normative, dai costi riusciamo a creare la nostra architettura e quando ci riusciamo abbiamo raggiunto la nostra libertà. Come in Point Break dove il messaggio è che la vita si deve vivere al limite, se no è solo una vita vuota, in architettura dobbiamo osare e andare oltre i nostri limiti per creare qualcosa di interessante.

Recentemente hai partecipato a diversi workshop: Una stanza di luce; Architettura Parametrica - approccio al progetto di architettura attraverso software parametrici; Prototyping the city. In che misura, queste esperienze, sono state formative?

Dopo aver frequentato questi workshop posso dire che sono stati tutti e tre molto formativi aprendo nuove strade alla mia agenda personale di ricerca: i pattern generativi, features parametriche e la prototipazione, la realizzazione di un padiglione eco-parametrico. Ognuno di questi tre workshop ha lasciato qualcosa nel mio bagaglio personale che col tempo vorrei riprendere e continuare ad approfondire nel blog.
Consiglio a tutti gli studenti, ma anche ai professionisti, di cogliere l'occasione di partecipare ai workshop e rimanere costantemente aggiornati. Vorrei anche sfatare il luogo comune della facoltà di architettura italiana che non prepara lo studente. La facoltà dà gli strumenti per capire come organizzarsi una volta raggiunto il mondo del lavoro; certo facciamo una fatica immensa, ma a questo ci si abitua.

Il workshop "una stanza di luce" è stata l'occasione per lavorare in modo intensivo per 3 giorni ad un progetto di una stanza di un museo. Il tema è stato quello di progettare il sistema di illuminazione naturale di questo spazio lavorando sulle aperture dell'ultimo solaio, in modo da ottenere un esatto quantitativo di luce naturale prefissato. Ognuno di noi ha fatto dei plastici in scala sempre più dettagliati partendo dallo studio di superfici con aperture che seguivano dei pattern che si adattavano a seconda della quantità di luce da portare all'interno della stanza. Abbiamo lavorato in un ambiente molto suggestivo e stimolante, la mostra dei progetti dello studio MCA alla Cavallerizza Maneggio Chiablese di Torino. L'architetto Mario Cucinella con le sue critiche costruttive nella fase centrale e finale del workshop è stato molto prezioso e indispensabile per la riuscita di ogni progetto.

Il secondo workshop mi ha dato la possibilità di conoscere Maria Ludovica Tramontin (asp(e)x esperimental architecture, UNICA, Pratt Insitute, NY, USA) e Erich Schoenenberger (Su11 architecture+design, Pratt Insitute, NY, USA ). Oltre ai due tutor ho conosciuto un gruppo di studenti sardi e ora amici blogger che si occupano di architettura parametrica in Italia. Forse la cosa che mi ha colpito di più di questo workshop è stato appunto questo sistema di relazioni che si è andato a creare. Tre giorni intensivi lavorando con il software Generative Components della Bentley con persone molto preparate che condividevano la mia stessa passione. Anche in questo workshop il risultato finale è stato quello di creare qualcosa di tangibile, creato con il software e una macchina a taglio laser: un modulo tridimensionale che si adatta nello spazio in forma e dimensioni seguendo le u e v di una superficie generata da tre curve.

L'ultimo workshop è stata una summer school organizzata dal Politecnico di Torino, L'Architectural Association di Londra e la Columbia University di New York. Ognuna di queste tre facoltà di architettura aveva dei docenti come rappresentanti. Questa volta non ero studente ma sono passato dall'altra parte, essendo nel team dei tutors. La summer school consisteva in progettare e realizzare un padiglione ecologico con duecento stick di legno e duecento assi, tramite software parametrici come Grasshopper di Rhino4, Processing e Maya. In questa esperienza ho lavorato in un ambiente molto creativo e con studenti con un altissimo potenziale, ognuno di loro era specializzato in qualcosa e lavorava insieme agli altri per realizzare un progetto comune. Per questa summer school ho creato un blog http://www.protocity.blogspot.com/ . È stata molto intensa anche la review finale con la jury composta da Brett Steele, Antonino Saggio, Bernard Cache, Yasha Grobman, Enrico Morteo e Stefano Mirti, dove tutti gli studenti hanno uplodato ogni giorno il processo progettuale e gli esperimenti sui materiali.

Che cosa intendi per architettura parametrica?

Parametrica è un'entità geometrica creata da variabili. Con un sistema parametrico si ha un concetto di spazio legato ad un insieme di dati che possono essere modificati generando una nuova entità geometrica. È un concetto molto pratico: data una serie di dati otteniamo una forma e in un qualsiasi momento modificando il valore di questi dati automaticamente modificheremo la forma iniziale.

Con l'introduzione del computer il disegno architettonico è diventato parametrico. I primi esempi di moduli parametrici sono stati i blocchi di Autocad, utilizzati negli arredi o per i moduli in facciata. In qualsiasi momento editando il blocco di partenza e modificando le dimensioni il disegno viene aggiornato con le modifiche apportate ovunque siano stati utilizzati i blocchi. Una proto-parametrizzazione la troviamo nell'utilizzo di strumenti xref e dei blocchi 2d e 3d di Autocad che hanno ottimizzato il flusso di lavoro grazie ad un sistema di aggiornamento dei disegni fatti da un team composto da diverse persone che lavora sullo stesso file. Questo è il concetto che sta alla base dei sistemi attuali BIM (building information modeling). Chi si occupa dei prospetti automaticamente modifica gli elevati e il software aggiorna anche le piante. Non solo, scegliendo il pacchetto dei materiali che compongono i muri perimetrali, possiamo avere dal software i disegni alle varie scale di dettaglio. Più input forniamo al software più output potremo ricevere.

Ho provato tempo fa il software Autodesk Revit e penso che sia il futuro del disegno architettonico per questo semplice motivo, non possiamo permetterci di perdere tempo ridisegnando da capo e svariate volte parti del progetto. La strategia vincente sarà quella di pianificare le parti del progetto con le giuste variabili per rendere parametrico l'intero progetto e poterlo modificare con pochi click. Ogni software parametrico lo fa a suo modo con la propria interfaccia. Ad esempio Paracloud lavora interfacciandosi con un foglio di calcolo Excel e il software di modellazione Nurbs Rhinoceros. Il software Generative Components della Bentley lavora con una struttura a ramo in cui i nodi sono la chiave del progetto. Quando creiamo una nuova entità o una modifica nel progetto possiamo registrarla e ottenere una storia parametrica del processo progettuale, modificabile in qualsiasi momento.

Una volta finito il modello possiamo alterare ad esempio il primo nodo che detta le regole delle curve generatrici della forma e aspettare qualche secondo per vedere il software al lavoro che modifica interamente il progetto al posto nostro e risparmiandoci ore di lavoro. In campo architettonico avremo a mio parere nuove possibilità per quanto riguarda la risoluzione di problemi geometrici e spaziali. Sarà molto più semplice raggiungere dei risultati scomponendo e risolvendo i singoli sottosistemi del progetto e parametrizzando con delle regole i sottosistemi. Avremo nel progetto degli elementi fissi e altri variabili che saranno controllati dal software grazie alle regole che noi imposteremo. Investiremo il tempo impiegato per tutta la fase iniziale di parametrizzazione e scelta delle equazioni variabili per poi risparmiarlo in fasi più avanzate del progetto quali i disegni esecutivi e la realizzazione stessa del progetto.

Diversi studi di architettura utilizzano questo processo progettuale, ad esempio automatizzando parti della struttura come i giunti e i montanti. Non solo dettagli tecnologici e forma architettonica, l'architettura parametrica ha invaso da tempo anche i campi della progettazione urbanistica. All'Architectural Association di Londra il corso di master DRL ha da anni, come agenda, il titolo Parametric Urbanism. Un metodo di progettazione associativa è utilizzato per controllare le informazioni locali e dinamiche che derivano dall'analisi di uno spazio urbano e della società che lo governa per creare un sistema intelligente che regola forma, organizzazione e performance di spazi urbani, strutture e infrastrutture. Un esempio di associative design è il progetto del research studio synthetic vernacular, tenuto da Peter Trummer del Berlage Institute. I dati analizzati sono stati utilizzati per creare un set di regole che genera un sistema parametrico per un progetto di un'area urbana a Shanghai.

L'architettura parametrica quindi è metaprogettazione organizzata attraverso i software. Più aumenta la sofisticazione nell'utilizzo dei sistemi di disegno assistito più si riesce a processare l'idea/forma dell'oggetto architettonico. Quali sono i suoi limiti?

I software parametrici vengono utilizzati o in modo massivo all'interno di un progetto o solo per alcune parti, ma in entrambi i casi ci sono dei limiti. Quello più frustrante è la velocità di realizzazione dei disegni. Districarsi all'interno di questi tipi di software è molto difficile e bisogna spendere molte ore di esercizio per poter riuscire a disegnare qualcosa che con gli altri software riusciremmo a realizzare in pochi click. Il limite appunto è il tempo iniziale di apprendimento e di impostazione delle variabili durante il processo progettuale.  È però un tempo che investiamo perché sarà tutto quel tempo che con gli interessi risparmieremo quando dovranno essere apportate delle modifiche al progetto. Personalmente io utilizzo Rhinoceros perché trovo che sia il software che più si avvicina alla velocità del disegno a mano, strumento che per me risulta essere il più veloce e l'unico che accompagna l'intero processo progettuale. Utilizzo il software base correlato con alcune tools e qualche rhinoscript e con l'uscita del plugin Grasshopper anche i modelli in Rhino possono diventare parametrici.

Secondo me è fondamentale trovare il proprio set di software e tools per compiere il lavoro e seguirne gli aggiornamenti è la soluzione per poter risparmiare tempo.

La tua preparazione sembra ricalcare un percorso 'virtuoso': studi in un'università italiana non periferica, esperienza di formazione estera, specializzazione attraverso diversi e mirati master.   È  questo il percorso attuale dello studente italiano nelle nostre università di architettura?

Ho studiato al Politecnico di Torino e fin da studente ho frequentato molti workshop in Italia e all'estero e ho fatto diversi concorsi internazionali con studi di architettura. Ho sempre cercato di fare tutto ciò che mi veniva proposto e non perdevo tempo a partire per fare qualche nuova esperienza. Quello che ho imparato in questi anni di università è che bisogna fare molta pratica e lavorare duro per ottenere dei risultati accettabili e più facciamo pratica e più accumuliamo esperienza, elemento fondamentale per fare l'architetto. Lo studente italiano medio ormai ha un rapporto molto smaliziato con il computer e ha sete di conoscenza. Molti di loro preferiscono documentarsi sui blog degli altri studenti che frequentano corsi all'estero piuttosto che comprare riviste o libri molto costosi.

La quantità di informazioni che abbiamo al giorno d'oggi è davvero immensa, il parametro fondamentale è l'accessibilità a queste informazioni. Tutti ormai abbiamo una connessione a internet per poter accedere alle informazioni e vedere cosa succede nel mondo. Chi ha la possibilità, viaggia e conosce la realtà che esiste all'estero, un esempio sono i programmi Erasmus e Socrates o i Visiting Student Programs. Con questo sistema molti studenti italiani vanno all'estero per fare nuove esperienze e capire come si progetta fuori dall' Italia. Ormai fioccano i workshop estivi e le summer school delle più prestigiose facoltà estere, ma anche in Italia ultimamente si sta muovendo qualcosa.


Grazie alla rete i campi della ricerca si estendono e vanno oltre le mura del laboratorio di progettazione. Durante il percorso della mia tesi ho avuto modo di conoscere e far conoscere la mia ricerca a diversi architetti; è così che ho conosciuto il mio correlatore di tesi. Il mio blog pian piano ha preso la strada del design computazionale, che è un po' quello che cercavo, cioè trovare il mio design e il mio metodo di progettare. Grazie al blog conosco varie persone che sono interessate a quello che pubblico e con loro nasce a volte un sistema di scambio di conoscenze molto interessante e spesso e volentieri riesco a conoscerli di persona. 

Franco La Cecla nel suo pamphlet Contro l'architettura afferma: «Ma si sa, gli architetti non leggono, sfogliano». Quali sono i tuoi riferimenti?

È  vero che gli architetti sfogliano e non hanno tempo per leggere, ma è anche vero che se vogliamo riusciamo a ritagliarci degli spazi per leggere durante la nostra giornata. Abbiamo la necessità di immagazzinare nella nostra memoria tante immagini diverse per crearci un nostro archivio formale e tecnologico, ma allo stesso tempo sentiamo la necessità di leggere e capire la complessità che sta dietro ad un progetto. Io leggo molto in treno ed, essendo un pendolare, lo faccio tutti giorni. Ultimamente leggo molti testi che scarico direttamente da internet, quando navigo e vedo qualcosa che mi interessa lo mando in stampa e lo metto in borsa. I miei riferimenti sono i blog che salvo nel mio aggregatore e che consulto periodicamente e ormai sono davvero tanti.

I blog principali che si occupano di design computazionale sono Data-Tribe, De Zeen, Design Reform, ctrl i, DigitAG& e The very many. Le archistar che seguo ora sono i MAD, Zaha Hadid, Mario Cucinella, Massimiliano Fuksas e i più giovani Emergent architecture, Modostudio e AquilialbergIl mio libro preferito è Toyo Ito. Istruzioni per l'uso a cura di Andrew Barrie, Rachaporn Choochuey e Stefano Mirti, un libro che consiglio di leggere a tutti i giovani architetti. Le riviste che leggo sono The Plan, A+U e Abitare.

25 settembre 2008
Intersezioni ---> MONDOBLOG

__________________________________________
Note:
Si possono leggere altri commenti su MADEinCALIFORNIA On Wilfing

Pubblicato sulla presS/Tletter n. 26-2008