24 luglio 2013

0025 [CITTÀ] Antonino Saggio | La città e la rivoluzione informatica

di Salvatore D'Agostino

Per il geografo Franco Farinelli una città è costituita non da cose separate l’una dall'altra, ma da “cose che stanno l'una dentro l'altra”. Una città concepita per separazioni di funzioni oggi appare asfittica, incapace di dialogare con le pulsioni sociali innescate dall'invenzione del web. Non tener conto di questi impulsi, secondo Antonino Saggio, significa non avere gli strumenti necessari per progettare la città contemporanea.

Sul rapporto città e rivoluzione informatica, con il consenso dell'autore Antonino Saggio, pubblico un articolo scritto per la rivista italianieuropei, n.8/2012.*

Senza parole: tautologica immagine di copertina della rivista.






La città e la rivoluzione informatica
di Antonino Saggio

Parliamo di rivoluzione informatica. Non vi è quindi da stupirsi se le differenze tra una città della “seconda ondata” – come direbbe Alvin Toffl e una della “terza ondata” o dell’“informazione” sono molto grandi. Infatti, la città è la più grande e complessa forma di artefatto creato dall'umanità quale sistema di accelerazione delle proprie capacità produttive. Di conseguenza, il passaggio da una struttura urbana basata sull'industria manifatturiera a una basata sull'organizzazione, diffusione e formalizzazione dell’informazione comporta differenze sostanziali.

RETE


La città industriale incorporava nella propria logica formativa quella dell’organizzazione tayloristica del lavoro. Una logica che si traduceva in scelte dal punto di vista sia organizzativo che fisico.

Lo zoning, come noto, è il principio urbanistico attraverso il quale lo spazio veniva concepito, organizzato, regolato e progettato. Ogni zona della città industriale o “moderna” (come la chiamavano gli architetti dei congressi internazionali di architettura moderna) era organizzata attraverso specifici standard, densità e tipi edilizi e, soprattutto, attraverso una specifica funzione: ora residenziale, ora industriale, ora terziaria o direzionale. Ogni zona veniva messa “in serie” – come l’anello di una catena – con un’altra funzionalmente distinta, in maniera da ottimizzare la produttività generale. Se la casa è una macchina per abitare, come diceva Le Corbusier, la città è una macchina per produrre!

Ma, se ora ci domandassimo se nella civiltà dell’informazione sia ancora la catena di montaggio il modello della produzione, risponderemmo con facilità che sono oggi subentrati alla catena di montaggio la rete come strumento principe della produzione e all'automobile il computer come oggetto catalizzante. Ecco allora che da questi assunti, come fossero due molecole di DNA, tutto cambia. Se noi sostituiamo alla catena di montaggio la rete, scopriamo che i processi produttivi non sono più lineari, ma, come è del tutto ovvio, interconnessi, interrelati e interattivi, coerentemente con i modelli informatici che ne sono alla base. Anche il tempo cambia. Al tempo ciclico ruotante con gli stessi ingranaggi delle ruote dentate (ora produttivo, ora ludico, ora di riposo) la città dell’informazione tende a sostituire un intreccio che sovrappone i tempi e rende tutto disponibile, sempre e ovunque. Possiamo lavorare in ogni momento, perché questo ci permettono i nostri cordoni ombelicali informatici, possiamo al contempo lavorare e trascorrere il tempo libero, produrre e consumare e, tra non molto, potremo anche dormire e apprendere insieme. Se l’auto era lo strumento per spostarsi nelle diverse zone, il computer ci permette di essere quasi ubiqui. Non solo lavorare ovunque, ma anche trovarci ovunque ci interessi essere. Spazio e tempo si riconfigurano completamente nel nuovo sistema produttivo.


Il modello stesso di città che ne scaturisce è diverso. Se l’architettura del passato voleva essere essa stessa costruzione regolata di un tempo meccanicamente ripetitivo, la città di oggi, più che costruire, ha la tendenza ad annullare il tempo attraverso il battito del bit che ricrea continuamente informazioni e immagini sullo schermo. 

Il tempo della città contemporanea somiglia sempre più a quello che viviamo su uno schermo e sembra esistere solo nell'istantaneità. A una forma mentis lineare (prima e dopo, causa ed effetto, if and then), legata alla produzione seriale e meccanizzata, si sostituisce oggi quella della simultaneità dei processi, della ramificazione dei cicli, della compresenza delle alternative; insomma, vince il principio dell’ipotesi, del “what if”, ovvero del “che cosa succederà se modifico questo parametro o questa variabile?”. E alle linee parallele della catena di montaggio si sostituisce il triangolo ramificato della rete – che è certo internet, ma anche moltissimo altro: una rete che diffonde, interrela, interconnette e rende globale e locale lo sviluppo dei processi.

D'altronde, la spinta del sistema produttivo non è più l’uniformità e omogeneità dell’esito finale e dello standard, ma esattamente l’inverso: la personalizzazione del prodotto, sulla base di un’attivazione, ogni volta diversa, di alcune connessioni della rete informativa e produttiva.

MIXITÉ

Tutti questi fattori si traducono, dal punto di vista fisico e nel contesto della città dell’informazione, nella perdita di centralità delle idee di zoning e di omogeneità funzionale, perché la città dell’informazione tende a riaggregare, combinare, sovrapporre e intrecciare le funzioni. Uno degli aspetti fondamentali di questo cambiamento è l’affermarsi del fenomeno della mixité, per cui le parti di città, e con esse i progetti, invece di aderire a una sola funzione – la zona residenziale, la zona terziaria, la fabbrica, la scuola – come nel vecchio zoning, tendono a essere ogni volta una combinazione, un mix appunto, delle diverse attività.

I progetti mirano sempre di più ad aderire a grandi nebulose di usi diversi che, prendendo a prestito la terminologia inglese, che permette l’idea dinamica dell’espansione, possiamo chiamare dell’inhabiting (la sfera del risiedere), dell’exchanging (la sfera del commercio), del creating (la sfera dell’attività produttiva), dell’infrastracturing (la sfera delle infrastrutture) e del rebuilding nature (la sfera della nuova naturalità). Nella città dell’informazione ogni progetto presenta tendenzialmente una combinazione di questi diversi usi sia alla grande scala che alla scala dell’edificio. Basti guardare al grado di mixité che hanno oggi le stazioni o gli aeroporti, ma anche i musei o i centri commerciali o i campus universitari o gli stadi (lo stadio monofunzionale è un residuo del passato e rappresenta una perdita economica: una struttura per funzionare oggi deve servire a tanti scopi diversi).

D'altronde, il multitasking non è caratteristica saliente dei nostri pc? La città di oggi tende a somigliare ai nostri computer e a operare con le loro modalità esattamente come la città dell’industria non solo era fatta per l’automobile, ma tendenzialmente era anche basata sugli stessi processi produttivi (la catena di montaggio), sulla stessa idea di standard (la Ford nera o la Seicento per tutti!), sugli stessi principi logici e, nei casi più estremi, sugli stessi principi formali (si pensi a quanto ideato dalle avanguardie artistiche di futurismo, costruttivismo, neoplasticismo, purismo).


Ma la chiave della mixité non è solo la pura e semplice compresenza multitasking delle funzioni, quanto la capacità dell’insieme di avere la forza di una “comunicazione narrativa”, affinché l’esito sia dotato di senso, di immagine e di storia e si possa inserire nei nuovi parametri produttivi e comunicativi della civiltà dell’informazione: si tratta di una driving force ed è la caratterizzazione trainante di un progetto, tanto alla scala di un singolo oggetto di design quanto di una parte di città. La driving force deve sia essere radicata in profonde ragioni sostanziali, contestuali ed economiche che proporsi con coraggio nuove ipotesi.


In un caso la mixité si struttura attorno alla driving force di un campus per lo studio del territorio, in un altro in nuovi centri di produzione cinematografica, in un altro sviluppa la valorizzazione ambientale o dei percorsi storici, in un altro ancora affronta il tema del cibo o dell’automobile. agorà, nuovi forum pubblici in cui la “narrazione” del primato meccanico si traduce in mille declinazioni. Alcune di queste opere, come quella della Mercedes Benz a Stoccarda, sono anche capolavori dell’architettura di oggi, ma questo è un altro discorso. Quando il sistema funziona, la mano pubblica orienta i principi generali e negozia i massimi vantaggi per la collettività; il privato realizza, gestisce, dà occupazione e trae reddito. In Germania la grande cultura dell’automobile ha generato nuovi grandi progetti, che non sono affatto musei della Mercedes, dell’Audi, della Porsche o della BMW, ma vere e proprie agorà, nuovi forum pubblici in cui la “narrazione” del primato meccanico si traduce in mille declinazioni. Alcune di queste opere, come quella della Mercedes Benz a Stoccarda, sono anche capolavori dell’architettura di oggi, ma questo è un altro discorso. Quando il sistema funziona, la mano pubblica orienta i principi generali e negozia i massimi vantaggi per la collettività; il privato realizza, gestisce, dà occupazione e trae reddito.

Se volessimo sintetizzare alcune differenze tra città dell’informazione e città dell’industria, diremmo allora: reti contro catena di montaggio, mixité contro zoning, computer contro macchina e narrazione contro monofunzionalità. Questi cambiamenti comportano ulteriori e rilevanti conseguenze, alcune delle quali indichiamo qui di seguito.


BROWN AREAS E OLTRE

Il più macroscopico effetto riguarda la dismissione di enormi aree – le cosiddette brown areas – del vecchio modello della produzione industriale.

Che cosa fare, come dare a queste aree un’indicazione che sia propulsiva e coerente con l’idea di città dell’informazione è una sfida grande e interessante. Solo chi ha studiato come il mondo è cambiato può formulare ipotesi con possibilità di successo. Vi sono molti casi eclatanti di nuove possibilità legate alla dismissione delle ex aree industriali. Il più grandioso è forse rappresentato dalla città di Seul, la capitale della Corea del Sud, che ha tolto per molti chilometri l’autostrada che circondava il centro, ha fatto riemergere un canale interrato e ha creato un parco tematico sul fiume ritrovato per tutta la città. Immensi capitali si sono rivitalizzati e la città attrae sempre più lavoratori qualificati dell’informazione.

Un altro esempio molto importante è, naturalmente, la High Line a New York. Anche in questo caso un’infrastruttura industriale dismessa è stata rivitalizzata grazie all'azione dei cittadini e oggi genera ingenti aumenti di occupazione, oltre che di valore immobiliare. Alla scala degli edifici, i progetti sono numerosissimi e, per fortuna, riguardano anche l’Italia (si pensi al Lingotto di Torino), anche se il capostipite è il Museo Guggenheim a Bilbao, il quale è stato appunto creato in un’area industriale dismessa che è divenuta oggi un luogo di pellegrinaggio culturale per milioni di cittadini. Invece, per quanto riguarda gli interventi in intere parti di città, il primo esempio su larga scala in Europa è Potsdamer Platz a Berlino.

La presenza delle aree dismesse indica, tra l’altro, che invece di prefigurare una espansione infinita della città forse vale la pena infittire e intessere nuove relazioni operando all'interno. Il sottoutilizzo dei suoli e delle aree abbandonate dentro la città e il parallelo spreco di terreno agricolo all'esterno sono prassi che si continuano a perseguire per inerzia.

All'idea di far-west, cioè della conquista infinita di un territorio dove corrono inesorabili i binari paralleli della ferrovia o dell’autostrada, la città dell’informazione deve sostituire quella dell’in-between, cioè dell’operare “tra” e “nelle” cose.

Infine, qualcosa sui processi decisionali. La città razionale, industriale, meccanica e modernista si basava su un processo decisionale dall'alto verso il basso. Una ristretta élite stabiliva le linee ideologiche del nuovo approccio urbanistico (e questo, nel campo dell’architettura, avveniva principalmente nei Congressi internazionali di architettura moderna). Stabiliti i principi, seguivano le tecniche e le regole (ad esempio, la Carta d’Atene fu il documento cardine della città funzionalista e industriale). Ma la città dell’informazione può “anche” puntare alla presenza di un approccio che si muova al contrario rispetto a una ideologia imposta dall'alto, cioè dal basso, aggregando forze, ipotesi e potenzialità, in una modalità a rete e partecipativa.

È opportuno sottolineare che quando si studiano le città di maggior successo, si vedono in atto scelte strategiche e grandi indicazioni di direzione e di disegno, ma sono appunto grandi principi-quadro e non la descrizione di una situazione del tutto ipotetica che probabilmente non si realizzerà mai. Planning by doing, d'altronde, non vuol dire fare quello che capita, ma stabilire i principi e le direzioni cardine dello sviluppo e valutare le soluzioni caso per caso, non dogmaticamente, all'interno della direzione intrapresa.

Sono, questi, modi di lavorare in atto ormai da decenni nei paesi nordici e che si sono sviluppati negli ultimi anni anche con una pratica grass root (e ancora una volta ne è un esempio la High Line a New York). In una società in cui le nuove generazioni si aggregano via Facebook è possibile pensare a questi processi dal basso verso l’alto, catalizzati e sviluppati dalla rete, anche nel caso dell’architettura e della città.

INFITTIRE, INTESSERE E RICUCIRE I VUOTI URBANI

Abbiamo sin qui individuato alcune caratteristiche e differenze tra la città industriale e quella dell’informazione, ma come possiamo fare per operare concretamente? Ebbene, la risposta è tautologica: sostituendo alla catena la rete, cioè sostituendo a una maniera lineare e assemblatoria di operare una maniera olistica o, se si vuole, sistemica.

Come sappiamo, l’idea di crescita infinita legata al modello industriale comporta un progressivo depauperamento del pianeta. La città non può crescere all'infinito, non può produrre costantemente beni che poi diventano scarti. Il processo, in una parola, non può essere “input-output” ma deve essere “input-output-input”.

Le sfide della città dell’informazione risiedono, innanzitutto, nel suo avvicinamento alla scienza e alla tecnologia contemporanee. Nonostante la crisi economica degli ultimi anni, l’accelerazione delle scoperte scientifiche nel campo dei nuovi materiali, sempre più interattivi, intelligenti, depuranti ecc., o delle tecnologie delle componenti energetiche sia attive (cioè che catturano con apparati fisici energia e la trasformano) che passive (cioè che studiano le conformazioni più adatte della città e degli edifici) è impetuosa. Intere città si riconfigurano su questi principi e si muovono su queste linee.

La città di Freiburg in Germania, vincitrice di numerosi premi, dovrebbe essere meta ricorrente dei nostri amministratori. Tuttavia, anche in Italia alcune cose si muovono: basti pensare, ad esempio, alle esperienze della città di Pisa. Insomma, la scienza contemporanea deve entrare in misura preponderante in qualunque idea di città della rivoluzione informatica.

Non bisogna necessariamente cambiare tutto d’un colpo, ma mettere a sistema le situazioni. [...] Guardiamo ogni tanto all'estero, a quello che succede in tante città, da Rotterdam a Freiburg, da Lione a Copenhagen, e vediamo come idee sistemiche che legano una nuova comprensione della città dell’informazione e dell’informatica attraggono finanziamenti europei, convogliano risposte e, soprattutto, a loro volta incentivano e sviluppano la produzione.

Perché, come si diceva, la città è il più grande artefatto creato dall'umanità quale sistema di accelerazione delle proprie capacità produttive e oggi saperla capire e progettare determina valore.



24 luglio 2013
Intersezioni ---> CITTA'
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Note:
*Nell'approfondimento ‘Lo sviluppo delle città’ si possono leggere gli scritti di Roberto Della Seta, Franco Purini, Paolo Desideri, Paolo Urbani, Livio Sacchi, Alessio D’Auria, Margherita Petranzan, Paolo Marconi, Anna Lazzarini, Chiara Sebastiani, Riccardo Conti, Giovanni Caudo, Stefano Stanghellini e Vittorio Gregotti. Di quest’ultimo riporto un brano, poiché il suo dolce incanto verso una città ‘disegnata’, da barbaro mi ha commosso: 
“Certamente, nonostante tutti parlino di accelerazione nei processi di mutamento, il tempo di questa fase sembra ancora disperatamente breve per costituirsi come solido terreno di fondazione di nuove interpretazioni critiche della realtà capaci di produrre le basi di nuovi modi di essere e di nuove possibilità delle pratiche artistiche, dotate di senso della necessita. Pur entusiasmandoci sovente per i nuovi mezzi, siamo lontani dall'aver maturato non solamente processi di mitizzazione tipici delle incertezze dei barbari nei confronti del nuovo, ma persino distanze critiche capaci di proporre nuove verità e possibilità di costituzione di processi civili migliori. E in questa contesto che le difficoltà delle arti contemporanee diventano pienamente evidenti e si spiegano, anche per l'architettura, le predilezioni per la provvisorietà e le calligrafie mutevoli come valori, il ritiro da ogni dialogo con il disegno della città e della sua storia e la proposta dell'esibizione competitiva contro l'uso.  Contro ogni tentativo di costruire un disegno di paesaggio come bene comune.”
Il numero è acquistabile su iTunes, amazon o richiedere le copie attraverso mail


4 commenti:

  1. C'era una volta nei pimi anni '90 un gioco da computer, una "arcade machine", chiamato SimCity.
    Il giochino del piccolo urbanista, che girava magnificamente sugli IBM 286 e con il quale molti di noi, io in primis, ci siamo sbizzarriti nel ruolo di Pianificatore Supremo di città nuove (e poi Celeste Imperatore!), con tanto di mega-reggia inserita in un'enorme parco sul mare protetta da 4 caserme di Polizia.
    E si programmavano zone commerciali, industriali e residenziali calandole brutalmente sul terreno vergine, dove qua e là si costruiva qualche stadio e qualche centrale nucleare per i miseri bisogni del popolino.
    Con tutti i suoi limiti da giochino arcaico, SimCity rispecchiava però ciò che era la Bibbia dell'Urbanista: edifici monouso in zone ben caratterizzate; tranne qualche "direzionale" un po' più coraggioso e multifunzione del solito, l'idea era quella dell'eternità dell'uso specifico di una zona.
    Adesso abbiamo le aree abbandonate e non sappiamo che farcene!
    A parte Potsdamerplatz a Berlino - non si può parlare in questo caso di un'area abbandonata per obsolescenza, ma per colpa di una guerra fredda - che è stata recuperata solo perché centralissima, le nostre italiche aree dismesse sono quasi tutte periferiche e quasi tutte inserite, purtroppo, in contesti che scoraggiano usi innovativi.
    D'altronde, la crisi edilizia, conseguenza di quella economica e finanziaria, non è di certo un buon viatico a investire soldi in cambi di destinazioni d'uso.
    Che fare?

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    1. Anonimo,
      ogni città ha la sua complessità, ad esempio:
      al sud, molti centri anticamente abitati, quelli che qualcuno si ostina a chiamare centri storici, sono diventati periferie della città di nuova espansione;
      al centro-nord, alcune città con forte connotazione ‘turistica’ hanno creato un’industria all’interno della città ‘storica’ rigettando gli abitanti al di fuori le antiche mura (ciò che chiami periferia);
      nel nord-est, hanno trasformato i vecchi campi agricoli in una miriade di piccole e medie imprese, fregandosene di tutto, creando vere e proprie città strada;
      la pianura padana, è diventata un’industria agricola a cielo aperto sopprimendo il concetto di stagionalità;
      Milano, ha convertito le vecchie aree industriali/ferroviarie in esclusive gate community, spesso verticali, o uffici per il terziario (meglio il ‘cool’ quaternario meneghino) non trovando mai, con estrema coerenza, i soldi per costruire gli edifici ‘collettivi’ promessi per ottenere i permessi necessari.

      Che fare?
      Dipende, ogni città, paese, borgo ha un’anima; partirei da un viaggio per ‘evitare luoghi comuni urbanistici’.

      Saluti,
      Salvatore D’Agostino

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    2. Bisognerebbe prima adeguare la legislazione sulle aree e sugli edifici dismessi. Che senso ha tenere in piedi ruderi per anni e anni, in nome della speculazione da piano regolatore (un'ex area industriale che diventa edificabile moltiplica all'istante per 7 il suo valore)?
      Che senso ha lasciare buchi vuoti (magari pericolanti) nel bel mezzo di un centro storico?
      Che senso hanno le liste d'attesa di 20 o 30 anni per una casa popolare?
      Allora occorre una nuova legge, che finalmente e per sempre spezzi il legame tra proprietà privata ed eternità: si deve sancire il principio che la propietà è privata e inviolabile fino a quando il bene è necessario al suo padrone. Un bene abbandonato o fatiscente, cioè, deve immediatamente tornare ad essere di tutti, cioè del comune o della regione, a seconda delle dimensioni, senza oneri di esproprio.
      Gli appartamenti vuoti e senza manutenzione da più di 5 anni, espropriati a costo 0, si possono immediatamente locare a prezzi sociali come fossero case popolari. Le aree dismesse possono essere invece immediatamente riutilizzate a spazi pubblici, o demolite e ritrasformate in parco o terreno agricolo.

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    3. Anonimo (ma come ti chiami? Mi ricordi il primo periodo dei blog dove l’anonimato era un po’ cool, con FB è diventato cool il nome seguito dal cognome),
      forse, certo serve più attenzione ‘pubblica-collettiva’ più che speculativa (nel senso buono del termine) con una buona dose di umana nuova urbanità (se ci pensi non abbiamo mai avuto un elevato senso urbano collettivo).

      Saluti,
      Salvatore D’Agostino

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