24 maggio 2012

0010 [WILFING] Ci vediamo per le strade | See you in the streets

di Salvatore D’Agostino

«Koolhaas ha segnato un periodo, ma il dibattito non può essere egemonizzato dalle stesse persone che hanno dominato la comunicazione negli ultimi vent'anni. Non si può andare avanti nei modi ancora di recente utilizzati da Winy Maas degli MVRDV: a ogni problema corrisponde una soluzione che, naturalmente, si incarna in un progetto di architettura. Molto spesso la soluzione è non fare niente. Il progetto più bello degli ultimi anni forse è stato quello di Lacaton e Vassalle per il concorso di «abbellimento» di place Léon Aucoc a Bordeaux. Dopo avere frequentato il posto e parlato con i passanti e gli abitanti, proposero di lasciare tutto così com'era, al di là di qualche intervento di manutenzione, perché la piazza non aveva bisogno di miglioramenti». (Mirko Zardini)1


Domenico Di Siena, leggendo le recenti indignazioni, via media generalisti e web, sulle vicende legate alla Biennale di Venezia e al museo MAXXI, ha scritto un post Architettura, Italia . Lo spettacolo è finito! sul suo urbanohumano, ricordando come l'importante premio dell’European Prize for Urban Public Space - dedicato allo Spazio Pubblico - sia stato dato a un progetto spontaneo e collettivo quale l’accampata della Puerta del Sol, l’insieme di persone e tende che diede inizio, un anno fa, al movimento degli indignados, con la seguente motivazione:
«il premio ha voluto evidenziare i nuovi “ruoli” di molti giovani architetti che stanno sviluppando il proprio lavoro professionale ricercando nuovi formati, attraverso incarichi o auto-incarichi, nuove formule di collaborazione di gruppo o di collettivi, attivismo sociale e partecipazione pubblica, urbanistica di azione, nuovi mezzi di comunicazione applicati all’architettura, oltre ad una nuova sensibilità riguardante la costruzione».





   Léopold Lambert - curatore di The Funambulist - recensendo la mostra archizines dello Storefront for Art and Architecture di New York si sofferma su due pubblicazioni che esulano dai temi prettamente architettonici e che si legano alle considerazioni di Domenico Di Siena.

   Il primo è un pamphlet di 27 pagine Indignez Vous scritto dal novantacinquenne attivista Stéphane Hessel il cui invita a criticare attivamente il proprio ambiente politico e ad avviare un’insurrezione pacifica. Un libro venduto a tre euro attraverso il passa parola e che, in poco tempo, è stato tradotto in trenta lingue, arrivando a quattro milioni di copie e ispirando il movimento spagnolo degli Indignados, che ne hanno adottato il nome.

   Il secondo è Occupy Theory Journal che raccoglie le idee del movimento newyorkese occupy stampato e distribuito gratuitamente nelle metropolitane e nelle piazze pubbliche, invita i lettori ad avere una coscienza critica e attiva nei confronti del proprio ambiente economico e politico. Il giornale si finanza attraverso le donazioni online.


   Premesso che questi movimenti, stimolati dall'uso attivo delle nuove tecnologie, sono processi ancora da comprendere poiché, come osserva William Gibson,2 in una recente intervista rilasciata al Wall Street Journal, «siamo appena scesi dagli alberi nella savana» e dobbiamo ancora capire l’intensità e la portata sociale di ciò che ci sta succedendo, reputo interessanti le considerazioni finali poste nei due articoli.

   Domenico Di Siena invita gli italiani - spesso solo indignati a parole - a non limitarsi a osservare o occupare solo spazi reputati ‘strategici’ ma inventarsi linguaggi e prendersi cura di altri spazi con una visione più orizzontale attraverso modelli «senza inutili orpelli» per non ripetere - conclude Di Siena - «lo stesso schema dappertutto».3

  Léopold Lambert, senza attribuire un giudizio di valore alle sue considerazioni, in brainstorming, ricorda che un pamphlet analogo a Indignez Vous dal titolo The Coming Insurrection distribuito attraverso canali tradizionali, non abbia avuto lo stesso successo planetario. Dati, che secondo Lambert, dovrebbero far riflettere le redazioni delle riviste di settore che continuano a mantenere un prezzo alto e una distribuzione classica, aumentando la distanza nei confronti di una popolazione di lettori potenzialmente più vasta.

   Aggiungo una riflessione spontanea a margine delle vicende italiane - ricordate da Domenico Di Siena - che appaiano forse più preoccupate a occupare spazi istituzionali e meno a intraprendere, anche sbagliando, nuovi percorsi culturali. L’ossessiva idea di occupare degli spazi topici lascia sempre più vuote le latenti piazze e gli spazi collettivi sparsi in tutta Italia. Forse è arrivato il momento di uscire fuori da questi luoghi istituzionali, osservando l’Italia a una scala 1:1. L’osservazione a questa scala4 t’impedisce di selezionare e ti sbatte la realtà in faccia. Potrebbe essere interessante iniziare a prendere atto dei tanti spazi civici già presenti nel nostro territorio che non godono del tamtam mediatico, come fa notare - a proposito della recente occupazione della Torre Galfa di Milano del movimento MˆCˆO - lo scrittore-architetto Gianni Biondillo: 
«Il capogruppo PD al Comune, Carmela Rozza, innervosita, ha trattato gli occupanti come dei perdigiorno radical chic. I “cosiddetti creativi”, così li ha apostrofati, vadano a Quarto Oggiaro, ché lì c’è bisogno di cultura. Eppure Rozza, per la sua storia personale, dovrebbe sapere che in quel quartiere già molta gente lavora sul territorio, organizza eventi, invita scrittori. C’è Vill@perta, Quarto Posto, Il Baluardo… Associazioni che fanno tutto – e tanto – nell’indifferenza dei media e, sospetto, della politica».5
-  Senza retorica, chi conosce questi avamposti civici?
-  E chi utilizza lo stereotipo Quarto Oggiaro o periferia X,Y,Z a vanvera senza mai aver visto o abitato questi luoghi?

  A tal proposito mi piace ricordare la singolare festa di liberazione avvenuta lo scorso 25 aprile nel quartiere catanese di Librino, dove il comitato San Teodoro, insieme al centro Iqbal Masih, I Briganti rugby di Librino e il Teatro Coppola hanno liberato il campo di rugby San Teodoro, da anni abbandonato, per recuperarlo e utilizzarlo per gli allenamenti.


Come racconta un  liberatore (vedi min 2:54):
«noi abbiamo un desiderio come Briganti e come abitanti di questa città ovvero quello di riprendere in mano le redini di questo posto». 
   Centocinquanta anni fa nasceva l’Italia geografica, oggi - almeno spero - il cittadino che non deve più chiedere il permesso al re per abitarla.
   Come memorandum rilancio una frase del movimento newyorkese occupy:6

«See you in the streets».

Ci vediamo per le strade.


24 maggio 2012
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Note: 
1 Lucia Tozzi, Il lato oscuro dell'architettura intervista a Mirko Zardini, Il manifesto, 18 febbraio 2012.*
2 Barbara Chai, Sci-Fi Writer William Gibson on His iPad, Wall Street Journal, 15 gennaio 2012.*
3 Un invito dettato dall’esperienza poiché condivide il premio insieme ad altri dato dall’European Prize for Urban Public Space (ne avevo parlato in un vecchio post vedi l’intervista: 140 News Net).
4 V’invito a dare un’occhiata ad un inizio di mappatura dei sensori civici italiani qui.
5 Gianni Biondillo, Piazza Macao, Nazione Indiana, 17 maggio 2012. * (Qui su WA)
6 La frase che chiude il post che invita a donare dei soldi per l’autofinanziamento.*

La prima immagine è tratta dall'archivio Lacaton & Vassal.
La seconda dal sito dell’European Prize for Urban Public Space.
La terza dal blog The Funambulist.

37 commenti:

  1. Prima di tutto, voglio ringraziarti per aver ampliato il dibattito che lanciavo in modo aperto con la mia "esternazione".
    Il dibattito è molto amplio, potremmo citare per esempio Pierre Levy che già nel 2004 ci anticipava il superamento delle tradizionali identità professionali.
    Chi è e che fa un architetto oggi? E' in atto una ibridazione che procede in due direzioni: da un lato assistiamo a una fusione della professione con nuovi campi, come per esempio la comunicazione e la sociologia, dall'altro ritroviamo una fusione tra lo sviluppo personale e le attività professionali.
    E' difficile trovare un equilibrio.
    Mi sembra importante che il cittadino architetto, ritrovi nuovi modelli di costruzione della cittadinanza.
    Il posto, non esiste.
    La posizione, non esiste.
    La delega, non esiste.
    Il montagna costruita attorno ai dinosauri sta franando.
    Non siamo più disposti ad agire per ricostruire quella montagna invista di poter sostituire gli attuali dinosauri.
    Sulle macerie della montagna costruiamo una nuova cittadinanza/professionalità, auto-organizzata, attiva, orizzontale.

    Il dibattito continua...
    Grazie ancora.

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  2. L'Architetto di oggi deve già essere quello del futuro. L'Architetto di oggi deve progettare il nuovo, traendo però le misure, le forme e i colori da ciò che già esiste. L'Architetto di oggi, avuto un grosso incarico pubblico, deve necessariamente ANDARE A VIVERE almeno sei mesi nel luogo dove dovrà metter mano, prima di ipotizzare un canovaccio CHE VA COMUNQUE DISCUSSO E PARTECIPATO CON I RESIDENTI fin nei minimi dettagli e arredi, soprattutto con i bambini (i soggetti che passeranno più tempo di tutti in compagnia della nuova opera).
    Vil Geometra (purtroppo non architetto).

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  3. Domenico,
    ieri è stata la giornata mondiale dei fan di ‘Guida galattica per gli autostoppisti’ il libro (1979) di Adams Douglas che si prendeva un po’ gioco degli scrittori ‘futurologi’ un po’ utopici, distopici, ucronici, riprendo un breve passaggio:
    «La Guida galattica per gli autostoppisti è un libro un po’ discontinuo, essendo stato curato da varie e diverse persone. Perciò numerosi brani ci sono solo perché all’epoca in cui furono redatti apparvero interessanti ai loro curatori».
    La descrizione di un luogo è sempre frutto di una ‘semplificazione’ del curatore.
    Con internet si è moltiplicato all’infinto la descrizione dei luoghi (come dice lo stesso Pierre Levy qui )
    Prima del novecento (dell’età elettrica) la cultura imperante stabiliva per elegia curatoriale la dignità di un luogo di essere chiamato luogo o meno.
    Anche se Marc Augè con il suo giudicante sentimentalismo retroattivo e Rem koolhaas attraverso l’uso del potere mediatico hanno pensato di imprigionare i luoghi in luoghi stereotipati pre-novecenteschi.
    Pierre Levy dice (vedi link di prima): «Gli individui prendono in mano la sfera pubblica e tutti i gruppi possono diventare mass media. […] La possibilità di selezionare è nelle mani dei cittadini: gli adulti devono essere considerati adulti ed avere in mano la possibilità di comunicare e scegliere. La trasparenza verso la quale ci dirigiamo tende a diventare simmetrica».
    Io penso che da architetti/urbanisti serve abbandonare le teorie della rete eliminando tutta la cultura ‘curatoriale’ preoccupata più a leggere i luoghi secondo il proprio senso estetico o politico.
    Poiché a ben pensarci il territorio naturale e antropizzato contrariamente alle guide galattiche del passato sono sempre stati ‘open source’ (ogni giorno milioni di micro-macro azioni naturali e umane modificano tutto) e inclusive (convivenza consapevole tra le prede e i predatori naturali/umani).
    Condivido il tuo pensiero “costruiamo una nuova cittadinanza/professionalità, auto-organizzata, attiva, orizzontale” trascurando la descrizione ‘curatoriale’ dei luoghi percorrendoli, abitandoli, vivendoli, progettandoli, modificandoli e abbandonandoli al primo grande genio dell’open source ovvero la natura.
    Ci siamo preoccupati troppo a campire i piani territoriali/comunali con funzioni ‘antropiche’ con una visione accademica ‘innaturale/inumana’ selettiva.
    Saluti,
    Salvatore D’Agostino

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  4. Vil geometra,
    mi perdonerai ma sono d’accordo con la nota su FB di Riccardo Crespi qui
    Non c’è una legge/regola dell’architettura.
    La storia dell’architettura andrebbe letta non secondo l’interpretazione degli stili ‘degli storici del gusto’ ma secondo le innovazioni che hanno portato a costruire gli edifici nel tempo.
    Il linguaggio dell’architettura si lega più all’evoluzione dei materiali e delle macchine che agli stili.
    Come condivido le titubanze di Riccardo Crespi sull’ambiguità del termine partecipato.

    Saluti,
    Salvatore D’Agostino

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  5. Riporto una conversazione fb avvenuta qui
    Poiché FB è un luogo senza memoria.

    Prima parte:

    Riccardo Crespi: Non sono d'accordo. Si mischiano troppe cose in questa frase: "misure, forme, colori da ciò che esiste" (nostalgie post-moderniste?), i "grandi incarichi pubblici" (cos'è esattamente un "grande" incarico? Anche una piccola piazza può diventare un "grande" incarico. E chi ormai ha più veri grandi incarichi? Solo le archistar
    sabato alle 9.01

    Riccardo Crespi: Polvere di architettura partecipata (che mi trova d'accordo anche se mi sembra un termine di cui si è fin troppo abusato senza fare davvero nulla), la definizione del proprio lavoro come "opera" (quindi come segno indiscutibile della propria presenza e affermazione della propria soggettività)... Insomma mi Ambra una frase che vuole essere "innovatrice" ma che invece sa
    sabato alle 9.05

    Riccardo Crespi: Tanto di passato...
    sabato alle 9.05

    Riccardo Crespi: Ps mi scuso per il messaggio diviso in 3. Ma scrivo dal telefono è mi sbagliavo nello schiacciare i bottoni
    sabato alle 9.06

    Davide Dal Muto: C'è chi lo chiama postmodernismo, io preferisco chiamarlo buon senso. Un'opera pubblica, una piazza, un giardino, una strada, non è un palazzo, non è un'opera privata. Nel privato, l'architetto può esprimere tutta la sua personalità, mitigata unicamente dale esigenze del cliente (se mi chiede un abitazione non posso progettargli un ufficio!) e dall'ovvio limite della decenza. Nel pubblico questa operazione non si può fare. Seppure nel passato la parola pubblico significasse proprio "nessun committente, massima libertà", il desiderio di democrazia dal basso che caratterizza e impermea sempre di più le comunità o, più semplicemente, il desiderio di vivere bene in un posto che si ama, deve necessariamente prevedere il parere assoluto dei residenti, di chi vive quei luoghi, forse ancor di più che se fossero proprietà privata. L'abuso del termine "partecipata" deriva appunto dalla montagna di chiacchiere inconcludenti sul metodo, sul come progettare partecipando e non sul concreto, sul progetto da fare. Carta e matite colorate, prego, sotto con le idee e meno ciance da bar! Poi, è ovvio, occorre scremare e condensare le idee dei residenti tramite un lungo e talvolta faticoso esercizio democratico: tante riunioni, assemblee e voti (ma per alzata di mano!) fino a distillare un masterplan, che però deve diventare la bibbia dei futuri esecutivi. Misure, forme e colori: dico soprattutto le misure, le proporzioni, devono scaturire dai microelementi già presenti in loco, quindi storici (ma non troppo! Non bisogna ovviamente rifare cose scomparse 400 anni prima!). Vorrei fare alcuni esempi riguardanti la mia città (non posso parlare di quelle in cui non vivo, quindi non conosco a fondo!), ma il media Facebook non è il più adatto...
    sabato alle 10.04

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  6. Seconda parte:

    Riccardo Crespi: ‎@davide: quando parlavo di "passato" intendo una visione vecchia, superata, ormai anacronista, dell'architettura, architetto e della sua pratica. "incarichi pubblici" (quando di soldi non ce ne sono più), "masterplan" (con la sua presunzione di avere il potere di prevedere il futuro economico e sociale dei prossimi 30anni e soprattutto dopo aver visto i danni prodotti da tutti i PRG, piani e pianetti vari), la distinzione tra "pubblico" e "privato" (credo che tutto ciò che sia "pubblico" è di per sé una somma di tanti "privati" di ciascun cittadino) mi sembrano concetti vecchi, che poco hanno a che vedere con la nostra realtà. L'architetto deve essere parte di un processo di progettazione di cui lui è solo uno degli agenti che intervengono, senza avare la presunzione di avere il potere demiurgico di poter sapere e controllare tutto. In questo senso l'attività dell'architetto deve essere sempre più di tipo "politico", proponendo azioni sulla città e sul territorio, più che di progettista e (forse) realizzatore di "opere"
    sabato alle 21.34

    Wilfing Architettura: ‎Riccardo Crespi condivido il tuo disaccordo come ho scritto nello spazio dei commenti sul blog.
    Davide Dal Muto la storia non va mitizzata.
    sabato alle 12.59

    Riccardo Crespi: Fai pure, anzi mi fa piacere. Detto con molta onestà, sono concetti di cui si parla molto. Buona domenica anche a te
    domenica alle 18.02

    Davide Dal Muto: Può sembrare paradosso o addirittura ossimoro, ma l'evoluzione della comunicazione che rende tutti protagonisti, richiede appunto che l'Architetto debba fare l'Architetto e non il Sociologo. Un po' come quando si costruiva il duomo di Firenze e tutti avevano idee su come migliorare l'opera, persino i manovali e portatori d'acqua (cito a memoria), ma alla fine il distillatore ed unico vero progettista dell'insieme era comunque l'Architetto. La distinzione tra pubblico e privato è un dato di fatto che non ho scelto io (fosse per me, avrei abolito del tutto la proprietà privata, sostituendola con diritto di superficie revocato non appena si abbandona il luogo), ma ci si deve fare i conti. Secondo me, l'opinione del bambino che frequenta una piazza (e si presume che la frequenterà per tantissimi anni ancora) è cento volte più importante di quella dell'assessore comunale (magari importato da un'altra città) se non dello stesso sindaco. La progettazione partecipata non è mai un'operazione banale, proprio come la democrazia diretta. Se lo sembra è perché, ultimamente, l'hanno fatta scadere a ridicola euroburocrazia (vedi Agenda 21) o, peggio, alle infinite e tediose discussioni sul metodo, sul come fare, sul come votare, sul chi può o non può, invece che sulle proposte stesse. Gli spazi pubblici appartengono a tutti, le strade e le piazze sono di tutti, così come gli spazi abbandonati devono essere occupati e resi pubblici, dato che il privato dimostra che non gliene frega più niente; questi spazi, edifici, contenitori (chiamateli come volete) devono diventare luoghi di incontro, condivisione e partecipazione, anche se alla fine è uno e un solo Architetto a dover tirare le somme, MAGARI ELETTO DEMOCRATICAMENTE e non scelto dal palazzo. Vorrei che Salvatore postasse tutta questa discussione sul suo blog, perché stavolta l'argomento è succoso.

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  7. Riccardo riprendo una tua frase:
    «L'architetto deve essere parte di un processo di progettazione di cui lui è solo uno degli agenti che intervengono, senza avare la presunzione di avere il potere demiurgico di poter sapere e controllare tutto. In questo senso l'attività dell'architetto deve essere sempre più di tipo "politico", proponendo azioni sulla città e sul territorio, più che di progettista e (forse) realizzatore di "opere"».
    In una vecchia intervista concessa a un gruppo di studenti Manfredo Tafuri (se vuoi leggi qui) a questa domanda: «Ma l'architetto, pur essendo l'architetto di qualcuno o di qualcosa, può essere portatore di una cultura collettiva della società, di quel momento storico?»-
    Da una risposta chiara, forse un po’ nichilista: «Questo termine che viene aggregato in maniera così tranquilla, società, io invece lo vedrei completamente disaggregato, cioè dire società implica annullare tutta la conflittualità in gioco, se invece dico che l'architetto è di parte, di qualcuno, implica invece una forte conflittualità e l'obbligo per lui di tener conto di ciò che sta facendo, per chi lo fa e quali ne sono i fini.

    Io credo che ci sia ancora molto idealismo sul termine architetto, perché questo tema per un avvocato non si porrebbe mai: l'avvocato è l'avvocato del delinquente o dell'innocente; se il suo discorso è carico di retorica ciceroniana o si riferisce più a Quintiliano, è indubbio che lui può essere l'uno o l'altro, però bisogna vedere se quel discorso di fronte a un giudice completamente disincantato funziona o no».
    Per Tafuri l’architetto è simile all’avvocato del diavolo. Lavora per ordinazione rispettando l’etica professionale sia esso un committente sano o insano.
    Condivido l’anacronismo sia del linguaggio e dei termini tecnici ma resta ancora da superare in questa Italia politica-posticcia-pasticciona l’inghippo etico ovvero il ‘senso collettivo’ della progettazione.

    Saluti,
    Salvatore D’Agostino

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  8. Davide,
    non bisogna mitizzare il passato.
    L’architettura va letta non attraverso la ‘storia dell’architettura’ scolastica.
    Ordinata secondo dei processi ideativi chiamati ‘stili’ ma attraverso la sua complessità geografica, politica, emozionale e soprattutto ‘tecnica’.
    Più che gli stili sono stati le innovazioni tecniche costruttive a cambiare, uso un termine un po’ filosofico, il paradigma architettonico.
    Oggi ciò che chiamiamo ‘Web’ ci porta a vedere in modo diverso la nostra realtà italiana politica-posticcia-pasticciona forse ci sta spingendo per le strade poiché abbiamo bisogno di un senso collettivo materico non solo virtuale.
    Poiché il senso collettivo del passato a grandi linee è in prevalenza ‘borghese’ oggi, spero, ‘inclusivo’.
    Questo post sottolinea questa, utilizzo un’altra parola abusata, mutazione.

    Ci vediamo per le strade,
    Salvatore D’Agostino

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  9. Ci vediamo per le strade o.. ci occupiamo delle strade?
    Davide Dal Muto.

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  10. Davide,
    non è una questione 'prettamente architettonica' ma sociale.
    Non vorrei sembrati ‘categorico’ ma serve una nuova urbanità, un nuovo senso sociale freddo (per parafrasare l’antifrastica data ai media da Mc Luhan) che richiede una partecipazione attiva dei cittadini per migliorare, definire, completare il proprio intorno civico.
    Completare in senso ‘biologico’ o se vuoi A-B USO una città/territorio (o parte di essa) A che si trasforma in B in un moto perpetuo ‘non simmetrico’.
    Abbandonare il senso sociale caldo dei nostri tempi (sempre citando quell’hippie di Mc Luhan), del cittadino che si aspetta tutto dal media ‘politico’ + ‘l’opinione giornalistica’. Un connubio deleterio, antiurbano.

    Per le strade come ‘Daresti la vita per Palermo?’ per incontrare “leggi qui “ Brannon che dice «ma dovrebbero... tutti quelli che abitano nelle città... cambiare spesso posto...» e una signora: «Abbiamo paura l'uno dell'altro».
    La paura di chi considera qualsiasi ‘altro’ un nemico.

    o il tassista Milanese Giovvani Ubezio leggi qui : «Oggi Baggio è un quartiere piuttosto a misura d’uomo; è frequentato solamente dai residenti e il commercio è prevalentemente locale: il prestinaio, il salumaio, la merceria, il calzolaio ecc. e tanto per render l’idea capita spesso di vedere qualche vecchio che tornando dal ferramenta, magari per un paio di bulloni, si ferma dieci minuti con la bici in mano a spiare oltre lo steccato le fondamenta del nuovo cantiere.
    Chissà a cosa pensano i vecchi in quei momenti».
    o Eliana Petrini e la sua passeggiata salernitana
    leggi qui : «Tutto è rimasto accasciato come molte cose da queste parti, in quel disordine che affascina, forse perché più vicino al nudo della vita, nell’irrimediabilità che chiama scrittori, accende amori impossibili ed inutili nostalgie. Io, quando penso alla mia terra, vedo le case abbandonate dei piccoli paesi, senza intonaco, con le pietre scoperte che, specie alla luce del tramonto, mostrano portoni ciechi e finestre chiuse in un silenzio che non guarisce.
    Sulla via del ritorno, la prima cosa che noto è una prostituta su una cassetta rovesciata, seduta come su un bidet. Bionda, forse straniera, grassa, in là con gli anni. Poco più avanti, sul muro alle sue spalle, qualcuno ha scritto con lo spry nero “ Qui fica, economica e amica”».

    Insomma per le strade…

    Saluti,
    Salvatore D’Agostino

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  11. Continuando la conversazione di facebook....
    Non ho più questa visione dell'architetto come unico e solo soggetto dedicato e preposto alla decisione finale.
    Da un lato la complessità della realtà, dall'altro la crisi economica, dall'altro ancora la grande domanda che mi pongo "ma cosa dobbiamo costruire ancora?" ed anche la grande ignoranza (nel senso di non-conoscenza, mancanza d'informazione e soprattutto di curiosità) della stragrande maggioranza degli architetti italiani, mi fa sembrare coloro che continuano a crederci come il soldato nella jungla convinto che la guerra non sia finita.
    Ha ragione Domenico (di Siena suppongo) quando parla di un ibrido. Ibrido non solo è l'architetto, ma lo è anche tutto ciò che comporta la realtà.
    L'ibridazione è lo stato che rappresenta la crisi: si crea un "ibrido" nel momento in cui il modello precedente consolidato entra in crisi e si deve trovare un "sostituto" o, meglio, un'alternativa a qualcosa che non può più esistere.
    Personalmente non credo neanche più nell'architetto che parla in "architettese": un linguaggio incomprensibile anche a noi stessi, una lingua che si tira fuori quando non si ha più niente da dire.
    Dovremmo scendere da quel piedistallo in cui ci siamo messi e "scendere nelle strade", cioè essere parte di qualcosa di più grande, essere coscienti che si debba essere una parte di un processo più grande a cui partecipare, orizzontale e verticale allo stesso tempo.
    Sono stanco di sentir ancora parlere di "opere", di "incarichi", di "spazi", "interstizi", ecc...
    E sono ancor più stanco di sentir ancora citare l'architetto rinascimentale...
    E se ancora insistiamo in tutto questo, mi sembra che non abbiamo capito molto della nostra condizione e della realtà in cui stiamo vivendo.
    Dico questo non in nome di una nuova urbanità o di un architettura partecipata, ma della consapevolezza degli scempi causati dalla scarsa conoscenza e moralità di alcuni nostri colleghi, del fatto che di soldi non ce ne sono più, che ormai non c'è quasi più spazio per costruire ancora (e neanche il motivo forse), ecc ecc ecc...

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  12. Il progetto pubblico è di tutti, o almeno, di tutti quelli che hanno voluto parteciparvi. L'Architetto deve mettersi al servizio delle richieste legittime (ma non dei capricci!), delle idee e persino delle chiacchiere dei compartecipanti ed usare la sua maestrìa ed esperienza per tradurle in linee rette e curve (fatte a mano!). Poi si votano per alzata di mano le soluzioni e le ipotesi scaturite dal pubblico e dai bambini. Solo a questo punto si digitalizza e si producono i rendering della proposta più votata, sottoponendola ad ulteriore voto secco (sì o no). Con questo metodo democratico e diretto hai messo a tacere qualunque improvvisato critico o politico di passaggio. La fase realizzativa deve però essere seguita dallo stesso Architetto, almeno come direzione lavori, lasciando però la libertà a quast'ultimo di scegliersi Ingegneri, Geometri e Geologi di sua fiducia. Il Comune deve solo preoccuparsi che la cifra preventivata non sfori di oltre il 10%. Ci vediamo per le strade!
    Davide Dal Muto.

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  13. è questo che intende domenico (ed io) con "orizzontale".
    io dico che è anche "verticale" perchè non credo che debbano particpare tutti senza distinzione (stile democrazia ateniese); ad esempio esistino nella città, nei quartieri i comitati: devo sentire la loro opinione, confrontarmi con loro, "progettare" con loro (non fare un'alzata di mano ascoltando i bambini) e poi essere "io" (un io composto da tutti gli agenti) che decida e che si asssuma le proprie responsabilità, altrimenti suona molto a ponzio pilato che si lava le mani...
    ed è "verticale" perchè così, forse, sipermeterebbe anche di arrivare alla qualità.
    questo, secondo me, vuol dire "andare in strada". gaber cantando "la strada" incitava a partecipare con gli altri, parlava di "verifiche e confronti" (non di giudizi), di "tornare per la strada per conoscere chi siamo" (cioè per conoscere i nostri limiti) e ne per farmi giudicare ne per "dare retta"...
    insomma, davide mi dispiace ma credo che abbiamo visioni completamente diverse su come e in che cosa dovrebbe evolversi il nostro mestiere (apposta non o detto "professione"). credo, con tutto il rispetto, onestamente che la tua sia visione che sappia un po' di passato con "pezzetti di urbanistica con inserti di ecologia" (gaber lo diceva nel '74...).
    aspetto critiche ed opinioni tua, di salvatore e di chiunque altro

    RispondiElimina
  14. Lasciando da parte i toni un po' propagandistici, guardate bene la scommessa che fa la mia città sulla riqualificazione della zona Nord e, in particolare, sull'area Tecnopolo (ex Officine Reggiane).
    Il tutto sarà progettato, stralcio per stralcio, con la partecipazione attiva e democratica degli abitanti. Così deve essere, perché si mette in gioco la sistemazione di un quarto della città e il futuro di tutta la stessa.
    Buona visione.
    Davide Dal Muto.

    http://www.comune.re.it/retecivica/urp/pes.nsf/web/PrgttqltPdrlfrt6?opendocument

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  15. reinserisco la prima parte del mio commento perchè non è completo.
    scusa davide ma abbiamo 2 visioni mi ssembra completamente diverse. paarli di "maestria" (non mi sento assolutamente "maestro", ne come "qualcuno che deve insegnare agli altri" ne come "possesore di una capacità ssuperiore" agli altri), parli di "disegni fatti a mano" (come dire per un chirurgo che non si deve non col bisturi al laser ma con quello con la lama perchè "è meglio, è più tradizinale"), di "alzate di mano", di bambini (con tutto il rispetto per i bambini e la loro importanza, però non mi sembrano i più adatti nell'intervenzione di un progetto. ognuno parla per quello che sa", per la propria esperienza. e un bamibino può solo giudicare se una piazza, un parco siano divertenti e a loro misura, na non può intervenire in un dibattito su un quartiere, una città o un territorio) epoi mi parli di rendering, di Archietto (con la "A" maiuscola...) che deve decidere i suoi collaboratori (mi sembra una visione del "re e la asua corte") che dovrebbe essere garaanzia ddi "quaiotà e democrazia"....
    scusa, ma dove sono "qualità e democrazia"? sei sicuro che l'architetto (con la "a" minuscola) sia in grado di guidare e sapere tutto? e sei sicuro chei suoi collaboratori siano i migliori possibili? e se invece non fosse nient'altro che un altro modo per costituire "cricche e caste" (lavoriamo solo io i miei amichetti)?
    mi sembra tutto un po' confuso... il tuo sistema non si apre alla qualità e, credo, meno alla "democrazia".
    l'architetto, a mio parere, non si deve mettere al servizio di nesssuna richiesta. per il semplice che deve essere parte di uun proceesso in cui diversi agenti intevengono ciascuno per le sue cconoscenze, esperienze e specificità. non è il "superiore" che "accetta le critiche ee i consigli" dei sottomessi. le sue idee ed opinioni hanno lo stesso valore di tutti coloro che intervengono (o dovrebbero interveenire) nel processso di progettazione: archietti, politici, economisti, sociologi e non da ultmo cittadini.
    la "partecipazione" è un'altra cosa.
    è prima di tutto "ascoltare", poi "analizzare" con tutti gli altri agenti, "dare una soluzione" che sia coerente con tutto quello fatto in precedenza ed infine "mettere in atto" quello deciso.
    il tutto attraverso un proceesso comletamente euristico di revisione del "progetto" (anche se usare questa parola in questo contesto i sembra sbagliato), in cui non esiste un "prima" e un "dopo", un "sì" o un "no", perchè tutto deve essere fatto contemporaneamente: ci sono tantissimi" sì", tantissimi "no", taantissimi "prima" e tantissimi "dopo".

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  16. davide, ho visto il video.
    non è molto specifico, ma capisco perfettamente che si tratti di un video da presentare a chi non mastica molto di territorio e della sua gestione.
    non mi piace molto il linguaggio "architettese" che utilizza...
    il progetto mi sembra interessante e di questo tipo ce ne sono molti in italia e soprattutto al'estero.
    io credo però che quello su cui stiamo discutendo sia il ruolo dell'architetto in questo processo: cioè se "super-partes" e controlla "dall'alto" tutto assumendo le indicazioni degli altri agenti (cme mi sembra che tu voglia che sia) o se debba essere "intra-partes", uno degli agenti che collaborano al processo.
    non sull'opportunità o meno di realizzare questo tipo di progetti.

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  17. Mi dispiace dover parlare del metodo, della "poetica dell'Architetto odierno", ma a questo punto ne sono costretto. Sarà che nel mio lavoro devo essere svelto a progettare (non sono architetto), sarà che mi sono abituato così, sarà che mi hanno insegnato, sarà quello che volete. Alla fine, però, occorre arrivare ad una soluzione progettuale unica, flessibile quanto vi pare, ma non ribaltabile. Mille pareri, diecimila riunioni, centomila discussioni, ma una volta deciso si fà e non si torna indietro.
    Il ruolo dell'architetto quindi è duplice, senza che però io veda contraddizioni, tra la prima fase "di studio e discussione" e la seconda "di progetto e realizzo".
    Nella prima, l'architetto deve pensare e proporre tanto come gli altri, deve essere il collante tra cittadini e istituzione, deve abbozzare in disegno le idee dei cittadini e anche dei bambini (non si deve mai sottovalutare la miniera di idee che essi sono!) e suggerire le migliorie che tutti questi, non essendo dei progettisti di professione, non possono né potranno mai tirare fuori dalla loro testa. Compito non facile, talvolta noioso, lungo, pesante e molto di pazienza, ma fondamentale.
    Nella seconda fase, dopo gl'indispensabili passaggi democratici, l'architetto, ottenuta la fiducia dall'arengo, procede a tradurre in linee, forme e colori ciò che è scaturito dal lavoro collettivo preliminare, aggiungendovi ciò che non è stato discusso e ciò che serve ad amalgamare (brutta parola ma non ne ho in mente altre) il nuovo con l'esistente. Alla fine di tutto ciò, se approvato il referendum sul progetto architettonico, senza ulteriori indugi si passa agli esecutivi e alla realizzazione, che deve essere guidata in modo assoluto (stavolta la democrazia va lasciata fuori!) da chi ha così pazientemente elaborato un progetto peraltro condiviso dai cittadini. L'architetto diventa quindi non solo il responsabile complessivo, ma il rappresentante dei cittadini, e sono loro e solo loro i committenti dell'opera. Il ruolo dell'ente pubblico si deve ridurre unicamente al controllo del budget e alle verifiche sulla qualità dei materiali in opera, con il ferreo mandato, però, di evitare qualsiasi "variante in corso d'opera" aldifuori di un ragionevole 10 - 15% di imprevisto.
    Sul formarsi di cricche e conventicole, basterebbe una piccola norma sul tetto del numero di progetti o dell' importo (che terrei ragionevolmente basso), oltre il quale l'architetto stesso non può essere neppure chiamato dalle amministrazioni, almeno fino a quando non ha concluso (con il 100% del realizzato!) con i progetti precedenti.
    Davide Dal Muto.

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  18. davide, un solo commento sull'ultima frase: "almeno fino a quando non ha concluso (con il 100% del realizzato!) con i progetti precedenti".
    senza offesa, o non lavori in Italia o non hai mai fatto l'architetto di "opere pubbliche".
    se devi aspettare di aver finito il 100% dei lavori precedenti..... è meglio cambiare lavoro!
    io (ma dovrei dire noi) ho costruito prevalentemente in spagna, dove (a discapito di una burocrazia molto più rapida che qui e quindi più snella per arrivare alla conclusione) i cantieri sono durati molti più anni del dovuto.
    e perché?
    ecco l'elenco: fallimento l'impresa di costruzioni (2 anni di ritardo), fallimento del promontore privato (cantiere tutt'ora fermo), riduzione del budget da parte del consorzio comune/regione (cantiere a singhiozzi con al momento 3 anni di ritardo), incendio doloso del cantiere (cantiere ovvviamente fermo in attesa delle indagini).... per non parlare poi della sopraggiunta crisi economica che ha di fatto bloccato tutto.
    per questo che dico il futuro dell'archietto è "politico", perchè questa è la realt° del nostro lavoro. e uno deve imaparae a gestire tutto questo. altro che "fare esecutuvi" e "gestire tutto" senza ascoltare nessuno...
    si deve, almeno per fare "buon viso al cattivo gioco", imparare a confrontarsi con tutto ciò

    RispondiElimina
  19. Rikic,
    scusa se sono stato poco chiaro, ma mi sembra logico che, in caso di problemi o sospensioni non dipendenti dalla volontà dell'Architetto, l'importo del preventivo di quel o quei cantieri sospesi verrebbe non più conteggiato nel massimale.
    E comunque la mia era solo una proposta migliorabilissima.
    Saluti.
    Davide Dal Muto

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  20. Rikic,
    qualche giorno fa mi sono permesso di fare un Tweet con questa tua frase: «Dovremmo scendere da piedistallo in cui ci siamo messi e scendere nelle strade essere parte di qualcosa di più grande».
    Empatizzo con molte tue osservazioni. Credo che sia arrivato il momento di non fidarsi più dal ‘canone’ dell’informazione che riduce tutto in parole semplici - spesso stereotipi – e immediate per stimolare l’emotività passiva del cittadino.
    Credo che la realtà attraversata a piedi sia più complessa e variegata della sua presunta descrizione.
    La critica italiana, spesso, giocata sui due opposti (emotivi della comunicazione) o dello scandalo, del dramma, dello scempio, dell’ecomostro, dei vandali o dell’ammiccamento supino, del fattore genio, del fashion, del sublime debba trovare un nuovo percorso.
    Magari ripartendo dai passi avanti che si sono avuti nella letteratura in questi anni penso alla ‘svolta narrativa’ o ‘al superamento del genere’.
    La città è un corpo vivo, complesso, umano non riducibile alla lettura di alcuni elementi storici o degli ‘effetti mediatici di questi anni’.

    Saluti,
    Salvatore D’Agostino

    RispondiElimina
  21. Davide,
    dobbiamo cambiare passo.
    La città è un sistema (per usare e dare senso all’abuso del termine) open source, un’immensa struttura complessa modificata ogni giorno dai suoi abitanti e dalla natura.
    Per moltissimi anni abbiamo pensato che a ogni problema corrispondesse una soluzione univoca.
    Non è mai stato così e non è più così.
    Gli architetti ‘delle città eterne’ sono architetti da libri di storia.
    Oggi di fronte un ‘problema’ si attiva un ‘processo’.
    L’analisi del processo e il suo sviluppo è il ‘progetto’ un canovaccio di base che sarà ‘trasformato’ negli anni da chi li abita e forse li ‘riprogetta’.
    Saluti,
    Salvatore D’Agostino

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  22. Mi piace molto il concetto di "processo".
    Di fatto mi piacerebbe che la progettazione fosse frutto di un processo quasi matematico, in cui i dati immessi diano una soluzione che, partendo dai parametri decisi a derivanti dall'analisi, sia la "migliore" possibile.
    Si lascerebbero da parte tutte le questioni legate agli "estetismi", troppo aleatori e soggettivi (chi può dire cosa sia il bello assoluto che trovi tutti d'accordo?) e fonti di giustificazioni di qualsiasi cosa (il "gusto" giustifica molto spesso le più grandi brutture).
    Sarebbe un processo in cui il "progettista" potrebbe cambiare senza che il risultato finale cambi. Un processo ovviamente euristico in continua modificazione per raggiungere l'obiettivo finale.
    I parametri iniziali sarebbero scelti da vari agenti, ognuno apportando la propria conoscenza. Il processo "creativo" consisterebbe nell'analisi dei dati, nella scelta dei parametri (economici, sociali, sociologici e politici) e nella loro correlazione (niente è più "creativa" della matematica teorica).
    So perfettamente che è un'utopia. E forse anche una grande sciocchezza....

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  23. Nessun problema per la citazione, anzi, fa piacere. Da la sensazione di non sciocchezze....
    Credo ao inique che si dovrebbe "ripartire" parlando più "facile" smettendola di fare la "supercazzola" per non farci capire dagli altri.
    Ricordo un'installazione della biennale del 2000 (credo), quella di fuksas, nel padiglione Italia: erano dei televisori posti uno di fronte all'altro all'ingresso del padiglione e che riproducevano delle interviste a diversi architetti famosi. Ascoltare le loro parole era quasi impossibile se non da una distanza molto ravvicinata (il volume era basso per gar mischiare le voci).
    Era una cosa di Filippo macelloni, regista ex-architetto (ed amico). Parlando con lui commentava, da persona che aveva "disconosciuto" la laurea, che il problema causale dell'incompresione delle parole dovuto al volume basso, gli aveva dato l'idea di chiamare (in maniera non ufficiale) l'installazione "le parole vuote degli architetti".
    Mi è sembrata una cosa geniale.
    Ecco, credo che spesso le parole degli architetti siano "vuote" per la stragrande maggioranza delle persone. Ultimamente ho la sensazione che lo siano anche per gli architetti....

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  24. rikic,
    io non credo nella semplificazione del ‘linguaggio’.
    Anzi, penso che l’avvento della comunicazione mediatica per ‘fare ascolti’ e non ‘per veicolare contenuti’ ci abbia un po’ impoveriti. Regalandoci il parlare per ‘stereotipi’ senza profondità analitica e critica che tocca i ‘sentimenti’ della ‘gente’ (per usare un termine senza senso del giornalismo).
    Quindi, per evitare le parole vuote, scendere per le strade significa avere la capacità di raccontare ciò che i nostri occhi osservano utilizzando tutti i lemmi del nostro vocabolario.
    Scendere per le strade significa osservare tutto per liberarsi dell’osservazione ‘selettiva’ del buon critico del gusto.
    Scendere per le strade implica un cambiamento radicale del nostro linguaggio poiché spesso la semplificazione porta alla generalizzazione che non racconta il nostro intorno o meglio la racconta livellando tutti i paesaggi in un solo paesaggio ‘stereotipo’.

    Ribadisco: La città è un corpo vivo, complesso, umano non riducibile alla lettura di alcuni edifici storici o edifici ‘effetti mediatici’ di questi anni. Poiché ambedue sono espressione dei poteri dominanti. Serve capire l’evoluzione inclusiva del novecento e la sua forza sociale e politica.

    Ci vediamo per le strade.

    Saluti,
    Salvatore D’Agostino

    PS: Nel precedente commento non parlavo di un processo ‘euristico’ bensì del suo contrario.

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  25. salvatore, il tuo discorso sul linguaggio lo trovo un po' in contraddizione con lo "scendere per le strade": se voglio che la "gente comune" mi capisca (è questo che i intendo con scendere per le strade) devo parlare la loro "lingua" peer farmi capire. non posso pretendere cche siano loro a dover imparare la mia lingua, altrimenti rischio la incomunicabilità che porta a "distanziarsi", a metterci sul un "piedistallo", a fare in odo che nessuno si fidi più di te perchè non sanno quello che dici (che poi credo che sia prorpio quello che sia successo).
    sono d'accordo sull'impoverimento culturale dovuto a vent'anni di berlusconismo imperante, ma non credo che sia attraverso l'imposizione la propria "lingua" che la si arricchisce. credo che sia un processo culturale (o meglio, di riculturizzazione) molto più lento che vada compiuto e che nel frattempo si debba però cominciare a "comunicare".
    un esempio pratico: commento su fb di un conosciuto personaggio italiano dell'ambiente architetti commenta un'immagine ritoccata con photoshop di un amico considerato uno degli "giovani" (a quasi 50 anni...!!!) archietti italiani (non farò nomi, non mi sembra il caso). il comento era: "Micro-città nel connettivo dell'abbandono"... sinceramente, cosa vuol dire? qual'è il "succo" della frase? ccome si può sperare che ci possano capire?
    mi metto nei panni del cittadino comune, cos'è una "micro-città"? la città dei playmobil?
    cos'è il "connettivo dell'abbandono"? le strade con immondizia abbandonata?
    credo che sia questo uno dei granddi problemi per cui il nostro lavoro non è poco credibile agli occhi di molti... sembrano "parole vuote"...

    RispondiElimina
  26. sul discorso euristico o meno, non credo di aver capito.
    tu vorresti che il "processo" fosse stabilito all'inizio e sia immodificabile in tutto il suo sviluppo?
    che non abbia nessun tipo di revisione anche empirica (intendo "sul campo") delle tappe intermedie?
    se così fosse, mi sembra molto simile ai vecchi piani territoriali, prg e compagnia danzante... quando con un piano immutabilee (salvo procediemnti burocratici infiniti) si pretendeva (e si pretende tutt'ora) di stabilire lo sviluppo di un territorio per i prossimi 20/30 anni.
    ma davvero credo di aver capito male io. o no?

    RispondiElimina
  27. Rikic,
    la comunicazione avviene attraverso il canale A (trasmettitore) verso il canale B (ricevente).
    Spetta ad A comunicare meglio il suo messaggio a B.
    Però per attivare la comunicazione bisogna che sia A che B abbiano la voglia reciproca di ascoltare.
    È vero che A spesso non ha nessuna voglia di comunicare con B ma solo con altri A ma è anche vero (ed quello che a me preme) che B spesso non ha nessuna voglia di alzare il proprio livello di comunicazione.
    Anche B sale sul piedistallo di chi non accetta il confronto.
    A e B abitano nella stessa città che include nel suo ventre le loro ‘visioni’ abitative e culturali.
    La città – da secoli – accetta la diversità e per natura è inclusiva.
    È arrivato il momento di raccontare questi aspetti senza pretendere che B debba diventare A e viceversa.
    Dare valore alla diversità linguistica, abitativa, culturale significa ‘ci vediamo per le strade’.
    Significa capire profondamente la città e non la sua descrizione.
    Significa, cadere anche in contraddizione, ma evitare le ‘parole vuote’ dell’architetto demiurgo risolutore di tutti i mali.
    Significa sentire accenti, odori e sensazioni diverse come ti capita quando vai a piedi per le strade di una città.
    Tra ciò che leggi attraverso una comunicazione scritta (o se vuoi il disegno dell’architetto che citi) e ciò che vedi mentre cammini, c’è una sostanziale differenza, con la prima azione puoi utilizzare il cestino (hai la possibilità di scegliere) con la seconda no (tranne che sei un pazzo criminale che uccidi le persone che ti stanno antipatiche).
    La città è un corpo vivo di A, B, C e infinite persone, non parola morta.
    Tutti noi siamo diafasici poiché comunichiamo variando linguisticamente secondo i referenti, il luogo, l’emotività e via dicendo.
    La diafasia è ciò che rende viva una città, come la diatopia dovrebbe essere alla base della narrazione ‘urbana’.

    OK non mi uccidere per via delle parole diafasia e diatopia.

    Per essere semplici: non esiste un canone ‘linguistico ideale’ per raccontare a tutti ‘un luogo/città/architettura’ perché non esiste, un ‘ricevente ideale’ siamo, per fortuna, tutti diversi.

    Perché invece di fare gli esempi negativi non mi citi gli esempi positivi?

    Ci sarà qualcuno che ha già cambiato strada, o no?

    Saluti,
    Salvatore D’Agostino

    PS: sul processo euristico hai capito male, io parlo del suo opposto.

    RispondiElimina
  28. salvatore,
    sono d'accordo sulla diafasia del linguaggio (sarebbe una noia mortale la uniformità totale), ma allo stesso tempo la diafasia non deve diventare "incuminicabilità".
    mi spiego, se si vuole parlare con il cittadino comune lui mi deve capire.
    e se non "comunico" con la città (quindi con i suoi cittadini), come posso capirla?
    sono io che l'agente A che deve farsi capire da B, qundi sono io che devo parlare la lingua di B.
    poi se si vuole comunicare tra A, allora si può utilizzare un linguaggio diverso (anche se ho sempre più a sensazione che si faccia fdatica a parlarci anche tra A...).
    invece, scusa, continuo a non capire in discorso della non-euristiicità del processo... comincio a pensare che ci sia un malintesi sulla parola "processo" che utilizzavi sul tuo post....

    riki
    ps. io bnon parlo di "disegni dell'architetto"... anzi, io sono più dell'idea di un'azione "politica dell'architetto... non è che mi stai confondendo con davide... ;)

    RispondiElimina
  29. «Dovremmo scendere da piedistallo in cui ci siamo messi e scendere nelle strade essere parte di qualcosa di più grande» ... «anzi, io sono più dell'idea di un'azione "politica dell'architetto».
    Quale allora miglior occasione per riprendere allegramente in mano le matite colorate? Scendere dal piedistallo, per me, significa metterci la faccia, ascoltare, discutere con tutti e proporre schizzi là per là, sul campo, sul posto. Un grande tavolo per la strada, dieci sedie, foglioni fabriano formato A1 e che nascano mille idee! Poi, magari, a mente fredda saranno solo sei o sette quelle degne di considerazione, ma nel frattempo ciò che si sta facendo è, finalmente, democrazia dal basso, architettura dalle strade. Mai più le archistar a dettare legge dai loro ipertermici studi atticosi o loftanti, lasciando i poveri mortali a risolvere le rogne della realzzazione, ma progettisti del popolo, che si prendono cura di tutto il processo edificatorio, dalla prima ideuzza al rinfresco inaugurale (compreso!).
    Ci vediamo per le strade?
    Davide.

    RispondiElimina
  30. Son più d'accordo sulla morte delle archistar che sul coinvolgimento di psicologia e sociologia (strada in passato già tentata e che non ha prodotto granché) pero il problema posto mi piace... La sociologia dice che dovremmo tener conto degli abitanti o delle famiglie o delle classi ecc ma sono loro i primi a non saper definire queste categorie ... Problemi simili se non ancor più generali ed aleatori vengono posti dalla psicologia ... A mio avviso il problema di cui può occuparsi l'architettura è solo architettonico.. L'architettura (così come l'edilizia e in generale tutto ciò che viene costruito oggi o che è stato costruito nell'ultimo secolo) non tiene in considerazione il tempo storico... Si considera l'arte, il linguaggio, la creatività, la speculazione, il guadagno, i costi ... E dopo 10 anni dal l'inaugurazione ci troviamo, nella migliore delle ipotesi, interessanti monumenti di cui non sappiamo che fare, cos'altro potremmo inserire un domani nel Guggenheim di Bilbao, o nel maxxi della Hadid ... peraltro già oggi in crisi?

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  31. Rikic,
    la diafasia implica diversi livelli di comunicazione come la diatopia ti porta a conoscere un luogo evitando la sua descrizione per ‘stereotipi’ o ‘analogie’.
    Osservando il mondo nel suo insieme ci accorgiamo come ci siano pochi ‘progetti star’ e moltissimi ‘progetti pop’. L’invito di questo post è quello di abbandonare l’ossessivo interesse mediatico dei luoghi ‘star’ e iniziare a osservare il territorio nel suo complesso.
    Questo slittamento visivo implica un nuovo linguaggio, poiché descrivere i luoghi privi del ‘clamore star’ e del suo ‘potenziale’ comunicativo è complicatissimo.
    Se ti va, e hai un po’ di tempo, cerca su questo blog Ardea, San Sperato, Comiso, Gela, Strongoli e altri luoghi ‘privi di star’ per capire ciò che intendo ‘per nuovo linguaggio’.
    In questi luoghi l’uomo B si ostina a non vedere, leggere, capire ciò che avalla e vive ogni giorno e nel contempo A non riuscirebbe a scalare la graduatoria dell’articolo ‘semplice’ più cliccato.
    Sul processo ti rispondo con le parole di Alessio e Linda due neolaureati dello IUAV: «La considerazione della città contemporanea come un sistema complesso di relazioni è il punto di partenza per la costruzione di progetti innovativi. Tutti i mutamenti fisici dell’evoluzione urbana hanno delle cause multiple che si legano alla rete dei flussi globali (scambi finanziari, movimenti sociali, cambiamento climatico, ecc); allo stesso tempo hanno degli effetti non prevedibili e di portata planetaria che spesso sfuggono a una prima valutazione. Per questo è necessario passare da una progettazione lineare, in cui a ogni problema si da una soluzione unica e semplice, ad una generativa, in cui ogni problema complesso richiede la continua creazione di nuove soluzioni, interrelate fra loro».
    Qui
    il link originale.
    Processo come un canovaccio di base da riformulare nel suo evolversi.

    Saluti,
    Salvatore D’Agostino

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  32. Davide,
    mi dispiace ma le nostre città nella maggior parte dei casi sono state costruite da ‘tecnici locali’ (progettisti del popolo) che spesso hanno fatto enormi scempi.
    Penso alla cultura della vita in villette che ha cancellato l’asseto urbano di molte città e l’abitudine di erigere la propria attività commerciale nelle campagne, penso al crogiolo di capannoni che corrono lungo le strade del nord.
    Non è più tempo di mitizzare il ‘popolo’ spesso il ‘popolo’ se ne frega del suo intorno.
    Come dicevo questo post è un invito a intraprendere una nuova strada. Una nuova urbanità poiché quella vecchia spesso non è da prendere come esempio.
    Saluti,
    Salvatore D’Agostino

    RispondiElimina
  33. Paolo Carli Moretti,
    è importantissimo parlare del ‘tempo storico’ molte delle recenti costruzioni (sarebbe riduttivo limitarsi solo alle costruzioni delle star) hanno un tempo ‘fisiologico’ legato più al ciclo ‘economico’ che non alla struttura ‘fisica’.
    Penso ad esempio alla prossima fine del ciclo economico dei grandi ‘parchi commerciali’ costruiti in questi anni fuori dai centri abitativi o alla fine del culto delle miriadi case in villetta senza ‘città’ costruite nei posti più disparati (questo è un mio sogno).
    Saluti,
    Salvatore D’Agostino

    RispondiElimina
  34. E, infine, un'appello ai signori architetti, Siciliani o meno:
    sostenete, aiutate, confortate l'esperimento "San Teodoro" a Catania Librino!

    http://camposanteodoro.altervista.org/index.php/scarica-lo-statuto-del-comitato-san-teodoro.html

    Ciò che stanno facendo è semplicemente straordinario, riportare alla vita e restituire alla comunità un luogo (pubblico!) devastato dall'incuria e da anni di colpevole indifferenza da parte del proprietario (il comune).

    Sarebbe un sogno se, qulcuno di voi, archistar o quasi, partecipasse con idee e concretizzasse qualcosa per il campo San Teodoro, in modo da rendere difficile se non impossibile sgomberi, espropri o demolizioni, grazie proprio all'immenso valore aggiunto di ciò che potete fare (chi se la sentirebbe di distruggere anche solo un piccolo locale interno progettato e realizzato da un'architetto di grido?). In particolar modo, come è uso nel gioco del Rugby, non ci può essere un campo e una squadra senza la club house...
    Grazie.
    Davide Dal Muto-

    RispondiElimina
  35. Ciao Salvatore, scusa ma non mi ero reso conto che avevi lasciato un commento per me.
    Mi sembra che ci sia un po' di "confusione" sul termine "euristico".....
    Fonte wikipedia (lo so banale... Ma è prima cosa che viene in mente..): l'euristica di una teoria dovrebbe indicare le strade e le possibilità da approfondire nel tentativo di rendere una teoria progressiva, e cioè in grado di garantirsi uno sviluppo empirico tale da prevedere fatti nuovi non noti al momento dell'elaborazione del nocciolo della teoria.
    Mi sa che stiamo riferendoci alla stessa cosa.....
    O no?
    Riccardo

    RispondiElimina
  36. Davide,
    non serve mischiare le due cose.
    Non sempre i bravi architetti sono star o fanno errori, vedi la citazione iniziale di questo post.
    Come è vero che il nostro paesaggio quotidiano non porta la firma delle archistar.
    San Teodoro merita tutto il mio rispetto.


    Saluti,
    Salvatore D’Agostino

    RispondiElimina
  37. Rikic,
    mi sa di sì.

    Saluti,
    Salvatore D’Agostino

    RispondiElimina

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