Dai tempi di Democrito di Abdera che si strappò gli occhi a titolo puramente dimostrativo sino a Marcel Proust il quale si dichiarava, in via teorica, favorevole alla sordità sono state molte, mi pare, le parole spese da filosofi e poeti in elogio di una qualche forma di povertà, d’infermità o bruttezza.
Nessuno, per quel che ne so, ha mai composto una apologia dei piedi piatti o delle emorroidi: ma questo rientra nelle ovvie difficoltà a coprire sia pure approssimativamente l’inesauribile varietà del reale.
Alla medesima, incommensurabile, geografia del bubbone e della pustola appartiene il portentoso accadimento della città di Gela la quale sfugge ad ogni intento elogiativo e si disegna spinosa nella sua altera impopolarità … e, in realtà, neppure quel profilo la contiene giacché più che all’elogio essa sembra sottrarsi all’esegesi.
Ed è questo uno dei suoi modi: il non darsi cioè in alcun modo.
Gela si ritrae dalla letteratura perché in linea generale non si ha presente.
Si esce da Gela e Gela non c’è più; ma non siamo noi ad andare, è lei che si cancella; forse neppure agli indigeni è presente.
Eppure Gela è una città “normale” ed è questo il suo gioco: che la normalità più totale rimbalzando come un’eco da cantone a cantone si attorcigli in un tale labirintico intrico di specchi che la sua immagine infine ci venga restituita come l’altro assoluto, l’Horla, l’estraneo e l’alieno.
Chi non la conosce, tuttavia, non pensi al rumoroso orrore delle Carceri Piranesiane.
Là infatti l’orrido è presente quanto meno a se stesso e, insomma, si somiglia, ma a Gela esso è come stilizzato e si decifra appena: ideogramma scalfito e cancellato dal tempo o dalla sorte.
Se questa dunque è una città è, per così dire, città astratta e non figurativa, città che non pratica la mimesi e che dunque non somiglia: non solo a nessun’altra ma proprio a ciò che siamo soliti inestricabilmente connettere alla idea stessa di città e cioè a quella sorta di telaio sul quale trame narrative s’intrecciano come fili di un tessuto, a quella specie di narrante struttura discorsiva che al di là di ogni piano e di ogni architettura permette all’uomo che l’ abita di raccontarsi e di raccontare gli altri e le cose.
Gela, con un pathos che raramente la città moderna possiede, è insieme “normale” e “fenomenale” perché contraddice ciò che la fonda o dovrebbe fondarla; come la donna barbuta (che contravviene al protocollo ormonale) come il mangiatore di chiodi (che lascia supporre un metabolismo allarmante) o il contorsionista (che viene meno esageratamente alla posizione eretta).
Mi capita a volte di pensare che Gela sia solo un substrato, solo rumore di fondo, neve televisiva, puntini e crepitii.
Non c’è alcun Pippo Baudo che ci intrattenga: nessuno trasmette.
“Meglio”, dovrebbe dire l’intellettuale medio.
E invece a questa povera città ciò non accade.
Gela è la tomba degli snob, ed ha questo di veramente grandioso: vi si piomba tutti a picco nella fossa comune della disapprovazione e ognuno cade ondeggiando neghittosamente il suo testone a sonagli.
Perché Gela é “troppo” per chiunque non sia Quasimodo (il gobbo e non il poeta).
Ma se veramente questa postazione è indifendibile sarebbe ovvio che la si abbandonasse, la qual cosa invece non avviene affatto.
Tutt’altro: uomini e donne si accaparrano forsennatamente questo nulla e con straordinario fervore “speculativo” si sono abbarbicati ad una idea.
Che sia povera e pazza ciascuno ha il diritto di pensarlo.
Ma forse quel negarsi di Gela alla letteratura sta proprio in quest’onirico amalgama che la colma.
Essa è così satura di sogno che non vi è spazio per praticarne un altro: il nostro, di freddi viandanti.
Così ci è difficile districarne la matassa. Perché non ci guida il nostro sogno, che si perde e s’introna in quest’epico bailamme pullulante dei sogni di alcune decine di migliaia di esseri umani che hanno con eroico furore accatastato blocchi di tufo nella ostinata superstizione che quell’assolato deserto fosse una città.
Possiamo tacere di Gela ma parlare di un altra Gela che non sia questa, delle mitiche mura, della sua “nobile storia”, sarebbe in confronto poca cosa: folklore, ammennicoli per turisti di passaggio.
Qui sono l’epopea la storia e la preistoria di Gela: in questa deflagrazione.
E qui, forse, c’è anche il suo futuro.
31 ottobre 2011
Intersezioni --->A-B USO
Nota:
1 Quest’articolo è tratto dal blog “fioridizucca” di Ugo Rosa.*
Pubblicazione autorizzata dall'autore.
Ho sempre amato questa "rubrica" di Ugo la Rosa: è sempre molto evocativa! Questa "Gela" non sfugge alla "regola"...
RispondiEliminaEmma,
RispondiEliminaUgo, in questo caso, non ha niente di evocativo (non avrei mai immaginato di difenderlo) per me, questo testo, è un ottimo esempio di narrazione.
Dovresti vedere ‘Gela’ e le sue case di tufo.
Saluti,
Salvatore D’Agostino
"L'inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n'è uno, è quello che è già qui, l'inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l'inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio."
RispondiEliminaNon sono mai stata a Gela, forse c'è stato Italo Calvino.
Vilma
Vilma,
RispondiEliminaGela non è un inferno ed esige l’estrema attenzione calviniana.
Gela è una città normale, dove convivono tutte le contraddizioni di una società maledettamente complicata.
Gela non è un titolaccio urlante dei nostri quotidiani quotidiani (ripetizione necessaria).
Gela ha un’anima difficilmente sintetizzabile con una TAG concettuale.
Saluti,
Salvatore D’Agostino
Salvatore, neanch'io intendevo fare una "considerazione rassegnata" su una città che peraltro conosco solo per sentito dire, né Calvino intendeva scrivere su una città in particolare:l'inferno dei viventi è un'altra cosa.
RispondiEliminaNiente di personale, saluti
Vilma
Vilma,
RispondiEliminanon ho inteso il tuo commento come "considerazione rassegnata".
Volevo “cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio” ad esempio il sindaco Rosario Crocetta.
Qui al sud, da tantissimi anni, osserviamo quest’inferno e ogni tanto capita che qualcuno di questi ‘speciali osservatori’ sia ucciso.
Prima o poi faremo qualche piccolo tunnel in questo inferno.
Almeno spero.
Saluti,
Salvatore D’Agostino