21 marzo 2009

0029 [SPECULAZIONE] Gli architetti italiani contro i concorsi?

Pubblico l'editoriale di Francesco Dal Co, Gli architetti italiani contro i concorsi?, Casabella, n. 775, febbraio 2009, pp. 2-3.*




Gli architetti italiani contro i concorsi?
di Francesco Dal Co



   Nel numero 774 di «Casabella», in edicola il mese scorso, abbiamo fatto un cenno al tema del welfare, ritenendolo di attualità dato il progressivo acuirsi della crisi economica che da mesi attanaglia il mondo. Questo cenno fungeva da premessa alla constatazione del fatto che tra i provvedimenti che sarebbe auspicabile venissero presi per superare le attuali difficoltà, quelli volti a rilanciare l'attività edilizia e i programmi di riforma urbana e di potenziamento delle infrastrutture dovrebbero venire varati con particolare urgenza. Questa constatazione trova ogni giorno conferma e a quanto da essa consegue molti Governi dedicano non poche attenzioni. Anche il Governo italiano ha prospettato interventi a favore dell'edilizia, ma le crescenti proteste che si levano dalle Associazioni degli imprenditori, dai Sindacati e dalle Amministrazioni Locali denunciano che alle dichiarazioni di principio non hanno fatto seguito provvedimenti operativi. A queste lamentele è possibile vengano date rapide risposte politiche; non è facile crederlo ma è auspicabile (editoriale scritto prima della posposta del governo, il cosiddetto ‘Piano dell'edilizia’ ndr). Tuttavia, anche qualora il Governo italiano varasse provvedimenti organici per il rilancio delle attività edilizie, finalizzati alla realizzazione di opere destinate ad incidere a fondo sugli assetti urbani e territoriali del nostro Paese, ci troveremmo soltanto a metà del cammino che sarebbe auspicabile iniziare a percorrere. Accanto e insieme ai provvedimenti miranti a favorire la ripresa delle iniziative edilizie sarebbe infatti necessario porre mano a una profonda revisione delle leggi e delle norme che regolano tutto ciò che questa attività coinvolge. Attualmente in Italia questa attività è sottoposta ad un trattamento simile a quello che Procuste riservava alla sue vittime. Per uscire da questa situazione sarebbe necessario porre mano alla stesura di un nuovo Testo Unico per l'edilizia e gli appalti; in questa prospettiva sarebbe un significativo passo avanti sottoporre la "Legge Merloni" ad una drastica revisione. Da questa revisione trarrebbero vantaggio i soggetti che a vario titolo operano nel campo dell'edilizia, fatta eccezione per le società di ingegneria (così come oggi configurate) e gli studi legali che le affiancano.

   Una radicale opera di revisione legislativa, di snellimento normativo e di coordinamento degli indirizzi, gioverebbe anche agli architetti, come «Casabella» ha più volte sostenuto puntando l'indice sull'arretratezza che in Italia caratterizza l'organizzazione della loro professione. Tra l'altro, l'avvio di un simile processo potrebbe spingere la committenza a fare ricorso in maniera più capillare, come avviene nei più evoluti Paesi europei, allo strumento del concorso per l'assegnazione degli incarichi di progettazione. Ma se ciò accadesse, sarebbe necessario che al contempo gli architetti italiani si ponessero onestamente una serie di domande, iniziando col chiedersi se si ritengono preparati ad affrontare una simile, inedita prospettiva. Questa domanda non è frutto soltanto dei dubbi riguardanti il grado di preparazione degli architetti sui quali ci siamo in altre occasioni soffermati. Ciò di cui vogliamo ora parlare è una questione che precede questi dubbi e concerne la mentalità collettiva dei progettisti attivi in Italia e l'etica che guida i loro comportamenti individuali.

   Gli architetti italiani da tempo insistono nell'indicare nell'istituto del concorso uno strumento da privilegiare per raddrizzare le storture di cui soffre il loro lavoro, l'opacità dei comportamenti dei committenti pubblici e persino il malaffare che tormenta la professione (anche per questa ragione in questo e nei prossimi numeri «Casabella» dedica e dedicherà una speciale attenzione ad alcuni concorsi particolarmente significativi). Ma ciò detto: sino a che punto questi auspici condivisibili si accompagnano a comportamenti conseguenti, volti a riconoscere l'autorevolezza dell'istituto concorsuale e quindi a favorirne una utilizzazione sempre più diffusa? Se sarebbe opportuno che gli architetti si ponessero domande simili nell'affrontare anche i passaggi più pedissequi della loro attività professionale, non meno opportuno sarebbe porre un freno al diffondersi della falsa coscienza che giustifica comportamenti professionali censurabili e il dilagare della litigiosità.

   Poiché lo spazio non ci consente di andare oltre, dobbiamo limitarci per il momento ad alcune considerazioni riguardanti questo ultimo punto. Per farlo, una premessa è però necessaria: se l'istituto del concorso suscita attualmente tra i committenti un diffuso scetticismo, se il prestigio di cui gode è modesto, se la sua incidenza pratica è limitata ciò lo si deve anche e in buona misura agli architetti. In Italia i concorsi che vengono banditi senza che all'espletamento faccia seguito la presentazione di ricorsi da parte dei concorrenti non premiati si contano sulle dita di una mano. Questa ormai endemica litigiosità è un male da estirpare; per farlo sarebbe necessario che tutti coloro che hanno qualche ruolo in commedia si impegnassero a mutare le distorsioni da cui è afflitta la mentalità dei professionisti attivi nel nostro Paese.

   Per meglio chiarire ciò che motiva queste affermazioni, citeremo due esempi, ovviamente documentati. Due diverse città, una di piccole dimensioni, l'altra tra le più importanti del Paese; due problemi differenti, affrontati, in un caso, da una Amministrazione Comunale e nell'altro da una Società privata facendo ricorso a procedure concorsuali differenti, una aperta, l'altra basata sulla preventiva selezione di gruppi comprendenti professionisti di diversa formazione. Nel primo caso a una procedura semplice ha fatto seguito la formulazione da parte della giuria di un giudizio che nel rispetto delle prescrizioni e delle richieste del bando di concorso, ha mirato a comprendere come ciascun concorrente le abbia naturalmente interpretate (non è l'interpretare il compito, individuale in un caso collettivo nell'altro, che ogni progettista condivide con ogni giuria?).
Per maggior trasparenza, una volta terminati i lavori della giuria, l'Amministrazione banditrice ha informato i concorrenti che tutte le fasi del concorso sarebbero state rese pubbliche ed esposte al giudizio collettivo. Nonostante ciò, chi non ha ottenuto la vittoria ha presentato ricorso contro le decisioni assunte. Naturalmente ogni verdetto è opinabile, come lo sono tutte le decisioni prese democraticamente, ma proprio per questo sino a che punto è opportuno spingersi nel contestarlo? Questo punto non coincide forse con la linea al di là della quale l'esercizio di un diritto individuale nuoce agli interessi sociali e collettivi, ovvero a quelli degli architetti che più possono trarre vantaggio dalle opportunità che l'istituto del concorso offre ma di cui con pervicace continuità minano con i loro comportamenti l'autorevolezza e l'efficacia?

   Il secondo caso è soltanto apparentemente più complesso. L'ente banditore era un soggetto privato; dopo averli selezionati ha affidato a una decina di gruppi internazionali, retribuendoli, il compito di elaborare altrettanti progetti per il problema che intendeva risolvere. Allo scopo ha nominato una giuria, preoccupandosi che vi fossero rappresentate le competenze professionali che riteneva opportuno coinvolgere. Al termine dei lavori la giuria ha emesso un verdetto. Tra i gruppi selezionati ve ne era uno capeggiato da un noto architetto spagnolo, coadiuvato da uno studio italiano. Il progetto elaborato da questo gruppo non è risultato vincitore del concorso. Una volta conosciuto questo esito, il titolare dello studio italiano, evidentemente abituato a intrattenere altri tipi di rapporti in particolare con le amministrazioni pubbliche come attestano i curricula, ha presentato ricorso. Informato del fatto, il capogruppo, ossia l'architetto spagnolo, ha preso carta e penna e ha inviato una lettera all'ente banditore nella quale ha sostenuto più o meno questo: «quando partecipo a un concorso non è mio costume mettere in discussione le decisioni della giuria e non ho alcuna intenzione di iniziare a farlo ora». Data questa circostanza, il lavoro che il Tribunale Amministrativo Regionale è stato chiamato comunque a svolgere dato il ricorso presentato dagli architetti italiani, si è risolto in una inopportuna perdita di tempo.

   Ma sin quando gli architetti demanderanno ai TAR il compito di decidere gli esiti dei concorsi di progettazione e si affideranno ai Tribunali, di ogni tipo e grado, per la soluzione dei problemi che affliggono il loro lavoro, nulla nel mondo della professione sarà normale e sempre più raramente il merito avrà opportunità di imporsi. È, come si diceva, anche una questione di mentalità. Lo prova il comportamento dell'architetto spagnolo di cui abbiamo parlato -a dimostrazione, tra l'altro, che se le cose, per l'architettura almeno, in Spagna vanno incomparabilmente meglio che in Italia una ragione c'è e questa ha molto a che fare con l'etica con cui gli architetti svolgono la loro professione e il rispetto che riservano alle regole vigenti nella comunità di cui fanno parte.

21 marzo 2009

Intersezioni ---> SPECULAZIONE
__________________________________________
Note: 
*E-mail di contatto:

Gentile Francesco Dal Co,
reputo il suo ultimo editoriale “Gli architetti italiani contro i concorsi?” importante per il dibattito critico sull’architettura italiana, mi piacerebbe pubblicarlo sul mio blog dedicato all’architettura.
Cordialmente,
Salvatore D’Agostino
Inviato: Giovedì 19 marzo 2009 12.48

Gentile Salvatore D’Agostino,
la ringrazio per l'attenzione.
Indicandone appropriatamente la provenienza può pubblicare lo scritto di cui mi parla sul suo blog.
Con i migliori saluti,
Francesco Dal Co
Inviato: Sabato 21 marzo 2009 12.31


14 commenti:

  1. Esimio prof. Dal Co
    io stento davvero a credere che lei possa attribuire il disastro dei concorsi ai ricorsi al TAR!
    Ma ho capito bene oppure ho equivocato qualcosa?
    Lei mi sembra attribuisca a coloro che fanno ricorso il fallimento di un meccanismo concorsuale che ha il suo baco d'origine nel sistema delle cultura architettonica e accademica italiana che vede sempre gli stessi personaggi o appartenenti al gruppo degli stessi in giuria e, puntualmente, risultano vincitori architetti che fanno parte, a vario titolo, del gruppo.
    Ma davvero non si è mai accorto di questo dettaglio?
    Devo farla così ingenuo? E sì che sta scritto in diversi posti, Luigi Prestinenza Puglisi lo denuncia da tempo, e non sono certo io a svelare questo segreto di Pulcinella.
    Non si è mai accorto che vige il metodo dello scambio per cui una volta Tizio, o un suo amico, fa il giurato e vince Caio o un suo amico, e la volta dopo Caio fa il giurato, o un suo amico, e vince Tizio, o un suo amico?
    E' vero, non accade sempre, infatti accade anche che il prof. Caio faccia il giurato e vinca un suo assistente o un prof. del suo dipartimento o un amico del suo assistente o uno dei tanti che gravitano intorno a lui.
    Ma lo sa che quello che lei afferma è come dire che la giustizia non funziona perché chi viene derubato va a denunciare il ladro e intasa i Tribunali?
    Lei fa semplicemente uno scambio tra vittima e carnefice, una cosa da niente.
    Vogliamo dire che c'è troppa litigiosità? Non mi è difficile riconoscerlo ma di qui a individuare in ciò la causa del discredito dei concorsi senza parlare d'altro proprio ne corre.
    Più leggo articoli come questo e più mi convinco che i concorsi devono essere giudicati dai cittadini, per il valore civile che riveste l'architettura e per depotenziare la portata di questo sistema dei presunti esperti che sono in realtà espertissimi nel far vincere chi vogliono loro. Così come sono adesso i concorsi non vanno semplicemente banditi o meglio vanno banditi dal sistema.
    Avrei qualche esempio da fornirle e che riguarda proprio la facoltà di Venezia. Se vuole può scrivermi alla mia mail e le produrrò i dati. Niente di "illegale", ci mancherebbe altro, ma almeno di eticamente riprovevole questo proprio sì. E le dirò anche che non c'è stato nessun ricorso al TAR.

    Saluti
    Pietro Pagliardini

    RispondiElimina
  2. ciao salvatore,
    francamente sono stanco di dibattere sui concorsi e (come i tossici) ho smesso di farmeli... perciò riciclo una vecchia battuta:
    [Spesso ci piace dire di aver vinto dei concorsi di architettura, perchè magari di fatto siamo arrivati secondi! Fra decaloghi e buoni propositi i concorsi, come molte altre situazioni, sono quello che ci meritiamo! Perciò e meglio navigare nella rete, alla ricerca di nuovi terreni (edificatori!) di confronto, con la libertà espressa dalla sola nostra tastiera...] ...e relativo sarcastico commento: [io, personalmente, credo molto nei "concorsi di colpa" più che nei processi creativi generati dalla maggioranza delle occasioni offerte da enti e comuni per "regalare idee".]
    marco+

    RispondiElimina
  3. Sono sostanzialmente d'accordo con Pagliardini: è vero che ci sono ricorsi pretestuosi ma sicuramente all'origine c'è la scarsissima fiducia nei meccanismi concorsuali

    RispondiElimina
  4. Devo ammettere che apprezzo molto l'intervento del prof. Dal Co e penso non ci sarebbe nulla da obiettare a tal proposito se fossimo ad esempio in Belgio o in Norvegia.
    Ma siamo in Italia.
    La sapete la frase che mi sento ripetere più spesso nel mio lavoro?
    "Sei bravo, ma se vuoi veramente lavorare da solo e vincere qualche concorso devi riuscire ad inserirti in un amministrazione pubblica ed incominciare a conoscere un pò di gente che conta".
    In Italia lavora chi ha le conoscenze, non chi è bravo nel proprio lavoro (non nascondiamoci dietro a un dito: quanta gente brava conosciamo che tira avanti come disegnatore a 500 euro al mese, quando ci sono schiere di analfabeti architettonici che fanno i miliardi con le villette a schiera?).
    Concordo in toto quindi con Pagliardini.
    Guardiamoci intorno, non è solo un fenomeno relativo all'edilizia.
    Quanti raccomandati esistono in Italia?
    Nei paesi anglosassoni la "raccomandazione" è una prassi consueta ma ad essere raccomandati sono unicamente le persone degne di merito (ed inoltre, se il raccomandato non è all'altezza del compito, il primo a rimetterci è chi ha fatto la raccomandazione).
    Cambiare la Merloni cambierebbe la testa degli italiani?
    Penso proprio di no.
    Saluti
    Matteo Seraceni

    RispondiElimina
  5. Veramente la situazione è così all'italiana che dovremmo perdere inutilmente il nostro tempo, ad esaminarla! O meglio, dentro questo "calderone" ci sta tutto! Quello che mi viene di ribadire è che nessuna "norma" potrà mai colmare la nostra incultura sull'architettura! La "corruzione", negli altri paesi, esiste! Quello che da noi non esiste è il valore della "cosa pubblica" e perchè no anche di quella "privata"! La nostra nazione non vuole svecchiarsi ed è ricca di "furbetti di quartiere" e miserabili volpi e mette in ballo, quando non ha proprio alcunchè da dire, il fatto che l'archittettura và valutata o giudicata dai "cittadini"! Che, mi pare, di un'arroganza e miserabilità sconfinante! Ma vi sembra che la diagnosi di un medico, la sentenza di un giudice, la "memoria" o il ricorso di un avvocato, l'atto di un notaio o il business plan di un imprenditore, vengano sottoposti al vaglio o al giudizio del "cittadino"? Perchè la mia idea progettuale dovrebbe essere mai capita, senza offesa, dal calzolaio? Per quella vetusta idea o ideologica veteropopulista che l'architettura deve essere compresibile a tutti? Insomma l'architettura è complessa e secondo me, ci vogliono le "scuole" per giudicarla, certo non i clans!!!Insomma e concludo, se solo praticassimo il buon turnover o realmente l'istituto del concorso (Pubblico e privato! come in Fracia dove però esiste la LEGGE SULL'ARCHITETTURA anni'80!!! e la cultura architettonica è ALTA!)per ogni "opera" salteremmo a piè pari le beghe passatiste del vecchio contro il nuovo, della Natura contro la Storia, delle capanne contro gli edifici, del "ferribbotto" (traghetto!sic!) contro il Ponte, dell'Arcadia contro Prometeo, della conservazione contro l'azzardo, dell'infantilismo irresponsabile contro la durezza del mondo degli adulti!Chi gliela porta questa notizia al salumiere?

    RispondiElimina
  6. Propongo una cosa: perchè non viene resa pubblica la discussione dei progetti presentati e quindi l'assegnazione dei punti? In questo modo forse sarebbe più difficile facilitare i "soliti noti".
    Inoltre sarebbe auspicabile avere "giurie internazionali" per i progetti più importanti, così da non avere favoritismi di alcun tipo.

    RispondiElimina
  7. Maurizio,
    1°) Sei d'accordo che il sistema che ho descritto al prof. Dal Co sia vero o pensi che siano mie fantasie?
    2°) perchè confondi il ricorso di un avvocato con un progetto urbano?
    Il ricorso di una avvocato è atto che riguarda i rapporti tra UN cittadino e lo stato(e poi hai mai sentito dire di un concorso pubblico per un ricorso di avvocato?)mentre il progetto urbano, per definizione, è un gesto pubblico, è la costruzione della città; e la città, secondo te, a chi appartiene? Ai cittadini o agli architetti? Ti sei mai domandato perchè si fanno concorsi di architettura e non di altro? Non ti passa per la testa che dipenda proprio dal fatto che l'architettura è patrimonio collettivo?
    Politica deriva da polis e tu ne conosci il significato: vuol dire che decidere della società (politica) significa decidere della città (polis). Si chiama valore "civile" dell'architettura. In politica si vota, per la città è necessario fare altrettanto.
    So che hai l'ossessione contro la storia ma questo non ti esime dal farci i conti perché puoi anche illuderti che la storia non esista, ma lei resta lì comunque, e lascia segni nella realtà e negli uomini. E se non ti piace il voto in politica è opinione lecita ma, fortunatamente, non maggioritaria.
    Il tuo disprezzo per i cittadini mi infastidisce molto, perchè mi ricorda la "superiorità antropologica" di certa sinistra che, anche per questo ha perso credibilità.
    Ma chi l'ha detto, dove sta scritto che l'estetica della città la debbano decidere gli architetti, talora screditati e ignoranti come capre e poco conta che siano accademici o professionisti o tecnici comunali.
    C'è un epigramma di Marziale, che forse conoscerai, che dice:
    "O Lupo, tuo figlio vuole imparare mestieri redditizi? Fa' che studi da citaredo o da flautista del coro; se sembra duro di comprendonio, fallo
    diventare banditore o architetto".
    Io la mia proposta l'ho fatta già: doppia giuria, quella solita tecnica, prima, e quella popolare (uhhh... popolare, che parola volgare!)dopo.
    Già i cittadini, proprio loro, i proprietari della città, quelli che invece devono subire di tutto e di più dagli architetti e dagli "esperti".
    Adolfo Natalini ci ha vinto un concorso in Olanda con questo metodo mentre la giuria di "esperti" lo aveva bocciato!

    E' questo che fa paura, le altre argomentazioni sono solo diversivi.
    Saluti
    Pietro

    RispondiElimina
  8. --->Pietro, Marco+, Rem, Matteo, Maurizio,
    Dal numero 737, gli editoriali di Casabella, soventi, sono dedicati alla nostra realtà accademica/progettuale. Il direttore di Casabella spesso con articoli incisivi e mai generici e con soluzioni aperte e non banali invita a un ripensamento su alcuni mali endemici della nostra ‘cultura’ architettonica.

    V’invito a leggere alcuni articoli ecco un significativo elenco:

    Francesco Dal Co, In Italia ci sono ventitré facoltà di architettura. Prossima tappa i corsi di laurea di quartiere?, Casabella, n. 737, Ottobre 2005.
    S’individuano tre fattori negativi:
    1. «incapacità delle università italiane di avvalersi dell’autonomia amministrativo-gestionale.»;
    2. «miopia dell’Amministrazione centrale […] che ha avallato […] le aspirazioni di città, comunità, paesi e villaggi a fregiarsi dello status di “sede universitaria”.»;
    3. «la gran parte di questi Corsi di laurea sono sorti per assicurare rifugi ad insegnanti privi di ruoli, di fatto espulsi dal mercato del lavoro, esclusi dalla professione, preoccupati soltanto di godere della protezione garantita dalle riserve in cui sono stati accolti e dove, non di rado, si sono formati.»
    Articolo che si può leggere in rete---> http://www.arcomai.it/index.asp?id=post_972301
    interessante la soluzione ‘Bocconi’ proposta.

    Sylvia Bartyan, Alcune delle ragioni che spiegano la marginalità degli architetti in Europa, Casabella, n. 738, novembre 2005, pp. 3-5:
    1. normativa di settore non armonizzata: difficoltà legislativa di esercitare fuori dall’Italia e la mancanza di una disciplina comune europea per gli appalti privati;
    2. formazione inadeguata: la valutazione economica, finanziaria e giuridica fa parte del processo architettonico oltre ovviamente a una buona idea progettuale i corsi universitari non prevedano queste discipline. Inoltre non esiste il tirocinio post-universitario per l’inserimento lavorativo del neo-architetto;
    3. scarsa dimestichezza con mercati competitivi: tasso di lealtà competitiva scarso e bassa propensione al confronto attraverso lo strumento del concorso;
    4. pochi programmi culturali europei:gli architetti italiani non considerano il mercato europeo come una possibile occasione;
    5. Scarso utilizzo degli strumenti di informazione: soprattutto quelli telematici.

    Francesco Dal Co, Scuola e professione: alcuni temi di riflessione offerti dall’Antistrust ai professori delle Facoltà di architettura e all’Ordine degli architetti italiani, Casabella, n. 739-740, Dicembre/gennaio 2006, p. 3:
    Aggiornamenti editoriali Casabella 736-737, e una riflessione sulla non casualità della marginalità dei professionisti italiani in Europa. Scarsa mobilità professionale e università esclusivamente con docenti italiani.

    Francesco Dal Co, Architettura normale, Casabella n. 764, marzo 2008, pp.3-5:
    «Impossibile lavorare in Italia!». «Com’è difficile costruire nel vostro paese!». «Come fanno i vostri colleghi italiani a superare vincoli, lentezze, rinvii che ostacolano la strada ad ogni appalto?». «Possibile che in Italia i concorsi producano soltanto ricorsi?»
    Frasi fatte? Luoghi comuni? Francesco Dal Co punta il dito sugli incarichi dati ai concorrenti “dei migliori requisiti economici” in questo modo Piano e Rogers non avrebbero potuto partecipare al concorso per il Centre Pompidou.
    «Gli architetti italiani […] vivono ed operano in una condizione professionale arretrata e disagiata»
    «Per uscire da questa situazione le riforme legislative, normative e amministrative sono altrettanto necessarie di quelle che dovrebbero portare a un cambiamento culturale del sistema di formazione e delle mentalità condivise. Se ciò non accadrà le necessità finiranno per prevalere sulla ragione, i compromessi scandiranno il passo delle decisioni come ora accade e le emergenze complici dei soprusi renderanno vana qualsiasi petizione in favore della normalità. Sul terreno non resteranno che “spettacoli e “scandali” e poiché, come sosteneva Le Corbusier, nella natura dell’architetto la vocazione dell’acrobata convive con quella del pagliaccio, soltanto chi saprà indossare il costume più sgargiante di Pierrot avrà una chance di lunga vita.»

    Francesco Dal Co lettera aperta al Ministro Gelmini, Casabella, n. 774, febbraio 2009:
    «Ciò ha prodotto la dispersione delle risorse, lo scadimento della qualità del personale docente, la crescita del precariato e ha drasticamente ridotto la propensione alla mobilità della parte più giovane della popolazione italiana. Questa situazione si regge su un presupposto che nessuna “riforma” è riuscita ad affrontare (e ora se ne ha ancora una conferma), ovvero sul fatto che in Italia, a differenza di quanto accade in molti Paesi, alla Laurea è riconosciuto un valore legale, peraltro “indiretto”, considerato il presupposto per accedere alle professioni o ai concorsi pubblici. Poiché i titoli rilasciati dalle diverse Università hanno tutti il medesimo valore, ne deriva che la Laurea è ormai una indifferenziata “erogazione” che non certifica il buon esito di un percorso formativo e non garantisce una efficace selezione. Ciò implica il fatto che gli enti eroganti, ovvero le sedi universitarie, continuano a moltiplicarsi per soddisfare le supposte domande e necessità di docenti e studenti o le ambizioni di circoscritte comunità ritenendole analoghe, verrebbe da dire, a quelle che esprimono gli utenti dei servizi postali, i quali di solito preferiscono rivolgersi agli uffici più prossimi ai luoghi di residenza senza molto curarsi del loro decoro.»

    Per questi editoriali ho voluto pubblicare on-line una voce ‘militante’ che sembra essere ignorata.
    Per Francesco Dal Co la mancanza di mobilità degli insegnanti (non vi sono docenti stranieri nelle nostre università), la dispersione delle sedi universitarie (favorendo gli insegnati ingegneri), una legislazione arretrata rispetto ai parametri europei, i concorsi per ‘requisiti economici’ (che favoriscono gli studi d’ingegneria) e soprattutto l’incapacità alla competizione sono i mali assoluti da dove ripartire.
    A mio parere bisogna prendere atto della nostra incultura architettonica (come evidenziato da Maurizio Zappalà) e non spalleggiare più nessuna norma dettata dall’emergenza, ci vuole una programmazione seria e competente ma chi deve farla? Possono essere gli stessi soggetti politici/accademici/imprenditoriali che da anni alimentano l’idea delle leggi posticce o urgenti contro un’invisibile nemico a discapito del proprio visibile amico da sistemare (com’è stato suggerito a Matteo)?
    Dobbiamo discutere su come sistemare le malsane leggi o riflettere sul pensiero ‘forte’ e condiviso dell’italiano alto/medio/piccolo borghese: «l’amico»?

    Luigi Prestineza Puglisi a proposito dei concorsi prima degli arresti ‘architettonici’ di dicembre sulla rivista Arca (LUGLIO 2008) scriveva: «Insomma – per non restare nel generico e per fare solo qualche nome- anche se è legittimo dal punto di vista giuridico, non è a mio avviso opportuno che personaggi come Stefano Boeri, Marco Casamonti, Francesco Cellini, Vittorio Gregotti, Paolo Portoghesi, Franco Purini giochino ora su uno ora sull’altro tavolo. Dovrebbero, se vogliono continuare a tentare la strada dell’ottenimento degli incarichi da concorso, lasciarne il giudizio ad altri, rendendo così il panorama concorsuale più chiaro e per molti aspetti più sereno.»

    A mio auspicio (come per Matteo) l’altro (giudicante) deve essere trasparente (perché no! Internazionale con una semplice postilla, conoscere la realtà insediativa del progetto che deve valutare). Invece per la giuria popolare ho lo stesso dubbio veteropopulista di Maurizio Zappalà.

    Mi chiedo la ‘trasparenza’ appartiene alla ‘cultura’ italiana?

    RispondiElimina
  9. Pietro, io mi confondo nella confusione!Nella nientificazione ci si può confondere!Mi pare veteroluogocomunista la tua affermazione che la città è del cittadino! In altre parole, il tuo rimenbri ancora le città di Don Lollò, ciò dell'urbanista = somma delle norme, è stata ed è un fallimento, sia intellettuale che funzionale!Non ti rassegni all'evidenza! Esistono infinite varianti dell'architettura! Perchè, per me, ad ogni architetto corrisponde un'architettura! Poi estiste il bello e il brutto! L'autocostruito e il regolamentato! Ma bada bene che tutto ciò esiste contemporaneamente, con tutte le leggi in vigore che tu ami tanto! Ricordo ancora la Biennale del 2006che ha tentato di celebrare la presunzione dell’architetto che ritiene di potere rendere vivibile la contemporaneità, imprigionandola nei limiti dell’aborto urbano e riscattata nell’imprecazione contro i tempi moderni, volta, vale a dire, al passato senza metropoli, in spazi ed edifici abitati a scala lillipuziana. Secondo me, malgrado le intenzioni degli organizzatori, la Mostra glorificava irrimediabilmenrte la metropoli, la megalopoli, il disordine vitale, tumultuoso, incessante, informale dell’insediamento umano odierno. Tutto ciò che veniva esposto sulle metropoli, era rappresentato con “punti” di vista sempre di “sofferenza”, con un commenti audiovisivi angosciosi, a ricordare che le città contemporanee sono malate, smisurate, fuori regolo/a, a-geometriche, inarchitettate, labirinti e cavernicoli templi del Satana della contemporaneità. Un’umanità malata quella contemporanea prefigurata in quei riquadri espositivi, in quelle musiche ossessive, tra la dedacofonia e Bryan Eno, una moderna pittura bruegheliana, di uomini-insetti, patologici con l’eccezione degli architetti “passatisti”, con in tasca la formula della piena occupazione e della angelicizzazione della devianza, dell’altissimo tasso di delinquenzialità metropolitana. Insomma, Pietro, la città è un organismo vivente, complesso, in trasformazione continua, impianificabile. E’ un luogo di scontro e di incontro,di progetti, di sogni, di intemperanze, di insufficienze, di azzardi di generazioni diverse, passate e presenti. Il territorio di una città è il campo di Marte dove si fanno guerra istanze diverse opposte di depredazione dello spazio dove “spaziano” sogni, bisogni, oltranze estetiche, abusi formali, esercitazioni calligrafiche. Che so, tanto per farti un esempio banale,la commistione e l’inafferrabilità delle regole gridano al Cairo come a New York, a Città del Messico come a Milano, eccetera. In questi luoghi vi sono palazzi e palazzi, abusivi, a sei, sette, dieci e cinquanta piani, annegati o galleggianti dentro un traffico veicolare a comporre uno spettacolo senza uomini. Città "automatiche", come in oriente così in occidente. Ad Est, ad ovest, ai poli!!! “E’ questa la Bellezza della Città Contemporanea, Bellezza!”, sembra vogliano dire i grattacieli e i tuguri, i palazzi griffati dalle stars dell’architettura assieme alle bidonville dei quartieri che si dilatano sotto i propri occhi. La città, ovunque, deve fare i conti con tumori e bellezza in eterna competizione! In fine , ribadisco che tutte le immagini e le musiche che esprimono soltanto sofferenza e inquietudine, insomma la TUA (cioè quella passatista!) rappresentazione dela CITTA' tende a rendere brutte tutte le città! Perchè hanno "poca storia", immagino, persino Londra e New York! La tua (e degli accoscati passatisti!)“filosofia” della città non è tanto pensiero rigoroso quanto pregiudizio penoso, arcaico, premoderno rispetto alle città di titanio, alle città d’acqua di cui non c’è traccia nel Vostro pensiero!Berlino, la Berlino costruita dopo la caduta del muro è Satana! Perchè è impensabile, è impensata dall’architettura tradizionale, la città costruita con materiali diversi dalla pietra! Incapaci di capire il nuovo, di usare i materiali con cui si presenta il nuovo, smarriti dalla possibile commistione di vecchio e nuovo, pensate tuttavia a città completamente nuove (alla Purini!sic!) – come Vema – resecate dai vecchi insediamenti e costruibili con i criteri scolastici che presumono siano stati alla base delle vecchie città, dimentichi che il vecchio edificato è una stratificazione di epoche e di stili diversi, di antico e moderno. Siete larve, incorniciate nelle cadenti aule dell’Accademia snervata ed incartapecorita ma sempre spocchiosamente accomodata in cattedra a dare lezioni di Gusto e di Ornato e di Teleologia. Per darsi un sussulto apparente di vitalità, buono soltanto a scuotere le vostre parrucche!
    Ma perchè vi affaccendate a derimere la matassa? Che è esattamente come la tela di Penelope! Ah dimenticavo vi piace la nientificazione!!!Oh, yes!

    RispondiElimina
  10. Maurizio benedetto, ma se io sto esattamente dalla sponda opposta delle norme edilizie ed urbanistiche che tutti conosciamo e patiamo e che producono bruttezza! Da dove puoi avere tratto questa considerazione su di me mi sfugge proprio del tutto!!!!! Tu ti crei mostri e li appiccichi agli altri come se fosse vero, ma è solo una tua visione!
    Io affermo una cosa piuttosto semplice da capire, che non vuol dire condividerla, ovviamente: la città è un bene di tutti, è un patrimonio collettivo (e questo non ha niente a che vedere con la tua ingenua architettura titanica nè con la mia nostalgica architettura tradizionale) perchè è l'ambiente in cui tutti gli uomini, che in città si chiamano cittadini, vivono. Esistono cose che non sono private come l'acqua, il sottosuolo nel senso del suo contenuto e poi la città. Sono privati i singoli oggetti ma non l'insieme. E chi sono i proprietari di questo bene? Sono i cittadini, che sono rappresentati, generalmente, dal Comune, dallo Stato ecc. Avrai notato infatti che le opere pubbliche si fanno (talvolta) per concorso. Perchè, domandati il perchè delle cose, si fanno i concorsi di architettura in tutto il mondo? Perchè, in quanto pubblica, cioè pagata da tutti, appartenente a tutti ci vuole qualcuno che decida cosa è bene e cosa è male (non si fanno i concorsi perché "piace agli architetti farli"; c'è un motivo nelle cose, una ragione, una storia, appunto).
    Oggi quel qualcuno è una giuria di esperti. Io chiedo, auspico, spero che accanto a quella giuria, necessaria, si possa dare il potere di scelta ai "proprietari", ai "titolari" di quel bene, cioè i cittadini.
    Non mi sembra difficile da capire. Le norme non c'entrano proprio un bel niente perché la gente, quella che anche tu disprezzi, sempre nella tua ingenua visione titanica, non conosce norme ma guarda e giudica.
    Punto.
    Saluti
    Pietro

    RispondiElimina
  11. Pietro, ingenuità=freschezza, leggerezza, quindi complimenti x 2...ingenui, sei generoso!
    Quando dico norme=leggi, intendo gabbie mentali, se vuoi propedeutiche visioni di nostalgiche città perdute! Pietro è bello essere nel tempo in cui vivi non in quello che è stato! Insomma non saresti ridicolo se ti presentassi al catasto in tait! Ma come sono ingenuo, questo tu lo sai!Mettiamola così: Tu fai l'architetto per il cittadino io faccio l'architetto per l'architettura!Tu ti concentri nello sguardo del cittadino, io me ne fotto del cittadino che mi guarda!Perchè quando progetto lui non mi guarda!E gli faccio le linguacce!!!Insomma mi sembra veramente surreale e deludente dichiarare che il progettare è una imposizione cittadina!Io cambierei mestiere se mi attraversasse soltanto un pelino del cittadino, nel software che utilizzo a mena dito!Pietro l'architetto è complesso e non può essere giudicato da un semplice cittadino!Per me catanese, i cittadini sono: cittadini, cittadini tutti W Sant'Agata!!Ahahahahallah...non l'hai visto su Report?

    RispondiElimina
  12. ---> Pietro e Maurizio,
    perché v’infervorate su temi che a mio avviso restano ‘marginali’.
    L’architettura ha bisogno di riflettere profondamente su alcune questioni pratiche che non possono essere più trascurate:
    1. Il sistema universitario ormai impantanato su logiche ‘lobbystiche’ e totalmente avulso dalle dinamiche ‘culturali’ contemporanee;
    2. Un sistema dei ‘concorsi’ che possa in maniera trasparente fare da traino per la nuova/vecchia generazione di architetti e competere sia con il sistema Italia e con il sintema globale;
    3. Imprenditori ‘preparati’ che rispettino le regole minime di legalità;
    4. Pensare che i ‘morti nei cantieri’ non siano semplici casualità ma un sistematico uso disatteso delle norme di sicurezza. Uscire fuori dal pantano mediatico;
    5. Inventare una nuova idea di urbanistica che si modella per ogni singola ed esclusiva città. Senza teorie che calano dall’alto dalla sapienza accademica. Un’idea di città in movimento (e non di retini fissi) come la storia ci ha sempre insegnato.
    6. Smettere che il nostro nemico sia lo stesso architetto che non costruisce con il proprio senso d’idea processuale/architettonica.
    7. Capire che gli architetti negli ultimi quarant’anni hanno fallito la loro missione. La città diffusa degli imprenditori/muratori/geometri/ingegneri/architetti POPolari ha cambiato il linguaggio e il paesaggio del nostro belpaese. Far finta di niente è da folli.
    Credo che dopo queste riflessioni (senza continuare su inutili contrapposizioni linguistiche) possiamo iniziare a parlare d’architettura.
    Saluti,
    Salvatore D’Agostino

    RispondiElimina
  13. Salvatore, non è che io mi infervoro ma con Maurizio, con il quale mi incontro in vari salotti oltre a questo, mi diverte assai stimolare le sue titaniche e prometeiche sparate.
    Però tra me e lui non sarebbe serio un dialogo serio né lui lo vorrebbe, ne sono certo.
    Noi siamo come quelli che minacciano ma si fanno trattenere dagli amici per non picchiare l'altro, perché in realtà nessuno ha intenzione di picchiare nessuno,
    ma c'è molta ironia reciproca, in verità.
    Saluti
    Pietro

    RispondiElimina
  14. Su Archiportale.com un gruppo di architetti italiani sta raccogliendo firme per una petizione agli ordini contro l'attuale impostazione dei concorsi che di fatto esclude la quasi totalità degli architetti dal parteciparvi ( richeista eccessiva di garanzie basate sulla capacità organizzaztiva, sul fatturato e sul curriculum ), siamo per ora in 68 , la lettera è pubblicata sul blog di archiportale dal gruppo OVW ( Open Virtual Workshop )
    Chi condivide gli obiettivi della petizione può lasciare i propri dati.

    Francesco Amadori

    RispondiElimina

Due note per i commenti (direi due limiti di blogspot):

1) Il commento non deve superare 4096 caratteri comprensivi di spazio. In caso contrario dividi in più parti il commento. Wilfing architettura non si pone nessun limite.

2) I link non sono tradotti come riferimento esterno ma per blogspot equivalgono a delle semplici parole quindi utilizza il codice HTML qui un esempio.