18 gennaio 2009

0005 [FUGA DI CERVELLI] Colloquio Italia ---> Francia con Michele Moschini

di Salvatore D'Agostino
Fuga di cervelli è una TAG non una definizione. La TAG è contenitore di diversi 'punti di vista'.

L'università, il sud, i concorsi, il lavoro flessibile, Parigi e l'architetto come un musicista.
Montmartre, Parigi



Salvatore D'Agostino Michele Moschini di anni... abitante a... migrante a... qual è il tuo mestiere?

Michele Moschini
anni 34;
direi abitante a Parigi (da giugno 2007) nato e cresciuto a Bari;
mestiere: architetto (che dal mio punto di vista - e non credo di essere originale in questo - significa dire che faccio un po' di tutto).

Alvaro Siza:
«Appena laureato con altri colleghi ho fatto un progetto per residenze sociali, e soddisfatti del nostro lavoro ci siamo decisi di promuoverlo. Siamo partiti in auto dal Portogallo ed abbiamo percorso l'Italia partendo dall'università di Torino fino a Palermo. Arrivati a Milano all'interno dell'università mi sono soffermato al di fuori di un'aula ed ho visto centinaia di studenti ammassati, ho chiesto che cosa c'era in quel momento, mi hanno risposto che quello era l'esame di progettazione dell'architettura. Sono rimasto sorpreso e mi sono chiesto come è possibile progettare in queste condizioni. La situazione nel nostro paese benché economicamente svantaggiato era ed è diversa nel rapporto docenti studenti.»1 
Io vengo da una realtà un po' diversa. il Politecnico di Bari, o meglio, la facoltà di architettura di Bari, ha delle carenze enormi. per anni siamo stati senza sede, ed io ho vissuto l'esperienza dei laboratori di progettazione in cui bisognava disegnare col cappotto e i guanti. Però è una facoltà piccola, nata con uno spirito da scuola. generalmente, nei corsi di progettazione, il numero di studenti non era spropositato, si riusciva ad avere un minimo di contatto col professore o con l'assistente di turno. Credo di dover molto ad alcuni insegnanti, (una minoranza) che mi hanno dato mezzi di comprensione e metodo per poter poi camminare con le mie gambe. Ahimè, il grosso limite era un'impostazione, a dirla in modo gentile, retrò, con delle buone premesse ma delle applicazioni miopi. Credo che, in generale, si debba portare avanti un doppio corso di studi: uno ufficiale, all'università, dal quale prendere tutto ciò che è possibile, ma in maniera critica, ed uno parallelo, personale, in cui si comincia a sviluppare il proprio pensiero e si traccia la propria strada.

Il secondo percorso è spesso schiacciato dal primo, soprattutto per il poco tempo libero che si ha da studenti di architettura. Devo anche dire, però, che trovo spesso più preparati studenti che vengono da corsi di massa come quelli descritti da Siza (quali erano anche gli studenti più anziani di me a Bari) rispetto a quelli che vengono da corsi più a misura d'uomo, forse proprio perché il limitato contatto con i docenti porta spesso a dover riflettere in prima persona o a creare dibattito fra gruppi di studenti, mentre ho visto molti studenti più giovani di me accettare troppo supinamente le linee guida del progetto dettate nei piccoli corsi di progettazione.

La tua storia sembrerebbe una classica migrazione, dopo svariati tentativi nel luogo di origine (Puglia), decidi di "mollare tutto" e raggiungere una piccola colonia di amici laureati al Politecnico di Bari a Parigi. Qui viene riconosciuta la valenza del tuo lavoro e vieni assunto da uno studio di architettura con committenze internazionali. Qual è il tuo ruolo in Francia?

Malgrado io sia arrivato in Francia dopo aver fatto esperienze a scala piuttosto piccola (una piccola ristrutturazione, qualche concorso, progettazione di interni e di mobili e, per tre mesi, stands per la regione Puglia), mi sono trovato subito a gestire progetti di edifici piuttosto grandi. Il lavoro funziona all'incirca così: ad un architetto viene affidato un edificio in toto, dalla progettazione alla gestione dei rapporti con economisti, imprese, ingegneri e clienti (all'occorrenza anche il coordinamento di altri architetti, disegnatori e grafici di supporto). Uno chef supervisiona il lavoro e funge da rete di salvataggio. Quando ho cominciato, il mio chef era molto presente. Man mano che il mio francese progrediva e che migliorava anche la mia conoscenza dei meccanismi dei lavori pubblici in Francia e delle normative, il suo intervento diventava sempre meno frequente. Allo stato attuale gli rendo conto del mio operato soltanto una volta alla settimana (anche perché lui è quasi sempre via per seguire riunioni e cantieri nel sud della Francia).

A parte un periodo in cui ho fatto piccole cose con una equipe di lavoro piuttosto ampia che si occupava di una torre a Doha, ho lavorato per un mese ad un edificio di alloggi per studenti all'interno di un campus in Qatar (poi il progetto fu sospeso), e in seguito mi sono occupato di una scuola per ingegneri "Medicaux" in tutte le fasi successive al progetto di massima (il cantiere comincerà fra meno di un mese). Attualmente lavoro anche ad un piccolo spazio espositivo/atelier per il patron Roger Taillibert, che è anche un pittore.

La domanda è formulata nel fumetto disegnato da Alessandro Tota per il settimanale Intenazionale,2 dove l'autore racconta la sua tribolata vicenda per cercare una casa in affitto a Parigi.







Il fumetto disegnato dal mio due volte conterraneo, visto che è, come me, un barese trapiantato a Parigi, rappresenta perfettamente la realtà delle cose. Io stesso ho potuto sperimentare sulla mia pelle quello che lui racconta, dalle code alle visite degli appartamenti, alle mille garanzie richieste, sino al dolore nel vedere tanta gente per strada, senza casa e senza più dignità. Queste ultime, purtroppo, sono scene quotidiane alle quali non riuscirò mai ad abituarmi. Ritornando alle difficoltà legate alla ricerca di un alloggio, aggiungerei che spesso, come nel mio caso, ci si trova ad accettare condizioni che sarebbero improponibili per i francesi: per due mesi ho diviso un appartamento con un ragazzo franco-americano, senza diventare cointestatario sul contratto di locazione (e, di conseguenza, senza avere accesso ai rimborsi statali sugli affitti). In poche parole, il mio coinquilino abitava gratuitamente con me: solo dopo due mesi ho realizzato che il rimborso (la CAF) che lui percepiva, sommato all'affitto che io gli versavo, era pari al totale del costo dell'appartamento. Ora, in realtà, non mi trovo comunque in una situazione regolare. Il mio attuale padrone di casa non mi ha mai fatto un contratto, cioè percepisce l'affitto "au noir". Queste sono cose che si fanno solo con gli stranieri... non parliamo poi dei privati e delle agenzie che richiedono spesso garanzie che violano le leggi sulla privacy: più di una volta mi è stato chiesto l'estratto conto bancario, perché prerequisito per essere presi in considerazione era avere in banca almeno l'equivalente di un anno di affitto! Per completare il quadro, vorrei dire anche che, in molti casi, ho visto appartamenti, spesso monolocali sotto i 9 m² di superficie calpestabile, in stato pessimo, ma per i quali venivano richiesti affitti altissimi. Se per un italiano, ovvero per un cittadino europeo, spesso con un buon lavoro e uno stipendio dignitoso, è così complicato trovare un alloggio, in che condizioni vivranno gli extracomunitari, quelli che non hanno un lavoro fisso o buoni guadagni?

Questa domanda prende spunto dal grido rauco e adirato del cantante Silvio Sada di 'Addosso agli scalini' nella canzone 'Italia' ...ma perché non lo facciamo andare come diciamo noi questa Italia?

La domanda che poni avrebbe bisogno di una risposta molto lunga ed articolata, ma cercherò di essere sintetico. Credo che il problema fondamentale in Italia sia legato ad una certa mentalità, per così dire 'flessibile'. Flessibile sui diritti dei lavoratori, sull'onestà dei politici, sulle regole in generale. Entrare all'interno di meccanismi così radicati per poterli cambiare è talmente complicato che prevale in me una visione disfattista. Vista la mia attuale condizione, insisto nel paragonare la situazione italiana a quella francese, con particolare riferimento al mondo del lavoro. Condizioni di lavoro eternamente precarie, quali le troviamo in Italia, specialmente in mancanza degli ammortizzatori sociali adeguati, sono impensabili in Francia. Qui i lavoratori difendono i loro diritti con i denti. Pensi che la porcata dei contratti a progetto (per citare uno dei tanti modi di sfruttare i lavoratori che la legge italiana fornisce) sarebbe stata accettata supinamente qui? In Italia, invece, continuiamo un gioco al ribasso, accettando di lavorare in condizioni sempre peggiori solo perché "se non accetto io, ci sarà qualcun altro che accetterà al mio posto".

Un'esperienza fatta in Italia (università/lavoro) che ti è servita in Francia?

La formazione che ho ricevuto al Politecnico di Bari è piuttosto rigida: i principi ispiratori erano validi, ma venivano poi elevati a leggi matematiche immutabili, non aperte ad altre visioni progettuali. Per questo credo che due esperienze post-universitarie siano state particolarmente illuminanti: il concorso per Livingbox (fatto con un ex compagno di studi trasferitosi a Milano) ed il concorso per Southbank, in Sudafrica. Nel primo caso, il mio amico, già svincolatosi dagli schemi progettuali baresi, mi ha aperto gli occhi sulla vita degli edifici, demolendo la mia tendenza a pianificare cose che, nella realtà, avrebbero perso di senso con l'ingresso dell'utenza nell'edificio. Nel secondo caso, sotto la guida di un architetto sudafricano, esule in Italia da più di vent'anni, mi è stata aperta la strada ad un approccio progettuale forse scontato per gli studenti di altre facoltà italiane, ma per me del tutto nuovo. Queste esperienze mi hanno anche facilitato l'accettazione del dover lavorare in uno studio con una marchio di fabbrica ben preciso, cioè quello di Roger Taillibert.
La mia visione dell'architetto è diventata prossima a quello del musicista che, formatosi su un genere musicale, il suo prediletto, non disdegna di suonare altri generi.

18 gennaio 2009
Intersezioni ---> Fuga di cervelli
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Note:
1 Intervista di Paolo Posarelli ad Alvaro Siza, apparsa sulla presS/Tletter n.34-2008.*
2 Alessandro Tota, Cartolina da Parigi, Internazionale, n. 772, 28 novembre/4 dicembre 2008.*

11 commenti:

  1. non so come ci sono arrivato su questo blog, facendo delle ricerche su Antonio Quistelli che è stato il primo Rettore dell'università di reggio calabria, dopo che un amico archittetto mi ha inviato una mail del suo intervento fatto qualche giorno fà a Reggi, non sono architetto, ma devo dire che mi piace l'architettura soprattutto da quando ho deciso di fare casa nel 1990 afidandomi a questo amico un archittetto calabrese (di polistena - rc) che è scappato dalla sua terra per trovare fortuna in Portogallo, e dove penso che l'abbia trovata, visti i grandi riconoscimenti che sta riscuotendo. ancora una volta c'è stata la fuga di un cervello.
    Salvatore vorrei segnalarti il suo sito www.cannatafernandes.com/
    saluti da Vladimiro
    vladpol@email.it

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  2. --->Vladimiro,
    grazie per essere tornato su Wilfing Architettura.
    L’inchiesta sulla ‘fuga di cervelli’ nasce perché trovavo bizzarro l’idea politica del rientro dei cervelli. A mio parere è la classica operazione per non parlare in profondità dei nostri mali.
    Ciò s’intuisce anche da questi miei iniziali colloqui. Il problema principale in Italia è la mancanza di dignità della figura dell’architetto come lavoratore.
    Ti ringrazio per il consiglio, mi metterò in contatto con lo studio al più presto.
    Saluti,
    Salvatore D’Agostino

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  3. Come al solito interessante. Molto interessante soprattutto in alcuni passaggi, come ad esempio: "Credo che, in generale, si debba portare avanti un doppio corso di studi: uno ufficiale, all'università, dal quale prendere tutto ciò che è possibile, ma in maniera critica, ed uno parallelo, personale, in cui si comincia a sviluppare il proprio pensiero e si traccia la propria strada." che, forse per motivi autobiografici, trovo da incorniciare per razionalità d'analisi. Anche perchè, se è vero che le nuniversità si architettura sono pessime, è altrettanto vero che gli studenti di architettura, a Roma per lo più appartenenti a famiglie che gli possono promettere un posto di lavoro, sono assolutamente di una qualità scadente. Il profilo a Roma è sconfortante.

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  4. buongiorno peja. ti ringrazio per il commento, al quale mi sento di aggiungere che forse le nostre facoltà non sono poi davvero pessime (anche se ammetto di aver provato non poca invidia l'altro giorno, passando a paris la villette per la mostra di un'amica, visto che a confronto la facoltà di bari mi sembrava ancora più triste). io credo che siano diverse da quelle straniere, che forse, se si riuscisse a formare teoricamente e bene (come fanno) gli architetti senza ingabbiarli per dieci anni, per poi dar loro la possibilità di fare esperienze pratiche e non arrivare a 34 anni, come nel mio caso, con un curriculum ridicolo, se riuscissero a fare questo, dicevo, forse sarebbero delle buone facoltà. il mio complesso di inferiorità nei confronti degli architetti francesi si è via via ridimensionato quando ho visto che il livello, qui, non è poi cosi alto come pensavo.
    naturalmente non tutti gli studenti possono essere talentuosi, né tutti possono entrare nella storia dell'architettura. credo che questo discorso possa essere applicato a qualsiasi facoltà, non solo a quella di architettura. del resto, credo che ognuno poi scelga il suo percorso post-universitario compatibilmente con le sue aspirazioni e capacità (a parte chi è destinato a rilevare lo studio paterno). i miei vecchi compagni di studi, pur aventi la stessa formazione, ora fanno cose molto differenti, chi lavora a piccola scala chi a grande, chi lavora al comune chi per uno studio chi da solo, chi fa il designer e chi i mobili li vende, chi fa il fotografo e chi, addirittura, il regista...come dicevo rispondendo a salvatore, "sono architetto, cioè faccio un po' di tutto".

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  5. buongiorno peja. ti ringrazio per il commento, al quale mi sento di aggiungere che forse le nostre facoltà non sono poi davvero pessime (anche se ammetto di aver provato non poca invidia l'altro giorno, passando a paris la villette per la mostra di un'amica, visto che a confronto la facoltà di bari mi sembrava ancora più triste). io credo che siano diverse da quelle straniere, che forse, se si riuscisse a formare teoricamente e bene (come fanno) gli architetti senza ingabbiarli per dieci anni, per poi dar loro la possibilità di fare esperienze pratiche e non arrivare a 34 anni, come nel mio caso, con un curriculum ridicolo, se riuscissero a fare questo, dicevo, forse sarebbero delle buone facoltà. il mio complesso di inferiorità nei confronti degli architetti francesi si è via via ridimensionato quando ho visto che il livello, qui, non è poi cosi alto come pensavo.
    naturalmente non tutti gli studenti possono essere talentuosi, né tutti possono entrare nella storia dell'architettura. credo che questo discorso possa essere applicato a qualsiasi facoltà, non solo a quella di architettura. del resto, credo che ognuno poi scelga il suo percorso post-universitario compatibilmente con le sue aspirazioni e capacità (a parte chi è destinato a rilevare lo studio paterno). i miei vecchi compagni di studi, pur aventi la stessa formazione, ora fanno cose molto differenti, chi lavora a piccola scala chi a grande, chi lavora al comune chi per uno studio chi da solo, chi fa il designer e chi i mobili li vende, chi fa il fotografo e chi, addirittura, il regista...come dicevo rispondendo a salvatore, "sono architetto, cioè faccio un po' di tutto".

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  6. Angel@
    È la prima volta che entro in questo blog e l'idea di un dialogo con gli architetti migranti non è male.
    La definizione di architetto "che fa un po' di tutto" è una tragica realtà.
    In Italia si perde il concetto di fare qualcosa con qualità e vige l'arte dell'arrangiarsi, in genere gli imprenditori, per non avere grane, scelgono i mediocri o i più supini.
    Basta osservare, anche superficialmente, le nuove costruzioni per capire la figura dell'architetto italiano.
    In bocca al lupo Michele.

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  7. Michele ma è così netta la differenza tra il lavoro in Italia e la Francia?
    Una curiosità com'è architettonicamente l'edilizia popolare statale o pubblica?
    Fortunato D.

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  8. ---> Piccola nota,
    dimenticavo il commento di Angela@ mi è pervenuto tramite mail ed in seguito ho provveduto a copiaincollarlo sul blog.
    Salvatore D'Agostino

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  9. ---> Il fumettista Alessandro Tota,
    commenta sul suo blog: «Mi citano!! Nel corso di un'intervista sull'architettura, QUI.»
    Ecco il suo link: http://pupazzetti.splinder.com/
    Buona visione,
    Salvatore D'Agostino

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  10. Non so se è giusto parlare di una fuga di cervelli nel mondo occidentale ormai globalizzato. Chi va in America per lavorare, almeno nel campo dell'architettura, si trova spesso a operare su progetti in Europa o nelle nazioni invia di sviluppo, contribuendo così ad una ulteriore, e in questo caso benefica, globalizzazione. E' anche vero che chi opera in Italia trova spesso grandi difficoltà ad affermarsi sul mercato ma non sono pessimista sul futuro, specie guardando le capacità dei giovani architetti di oggi, molto più attenti a tematiche di sostenibilità energetica ed ecologica rispetto anche solo a 10 anni fa.

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  11. ---> Benvenuto Master,
    se ti va, t'invito a leggere la sezione d’intersezioni "FUGA DI CERVELLI" (vedi sull’homepage), perché mi trovi perfettamente d’accordo, questa rubrica vuole indagare queste dinamiche, tralasciando la retorica politica e mediatica. Come puoi leggere negli altri approfondimenti.
    Un caro saluto,
    Salvatore D’Agostino

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