Lisa Hilton*, corrispondete inglese dall'Italia, dopo tre anni trascorsi nel nostro paese ritorna in patria senza rimpianti. Nel suo articolo di commiato un ritratto dell'Italia di oggi.
Buon Viaggio.

Raccontate a qualcuno che vi siete trasferiti dall'Italia a Londra e sarete oggetto di compassione. "Oh, poverina", dirà, "e non ti dispiace?". Poi comincerà a raccontare di quella graziosa trattoria a Lucca, dei dipinti di Piero della Francesca o dell'uso ripetuto della parola "bella". Tutte le persone con cui parlo mi raccontano della loro Italia, un paese mitico e incantevole dove le logge sono baciate dal sole e le giovani contadine stendono la pasta sui gradini di casa nei borghi medievali.
Non vorrei deluderli, ma dopo tre anni a Milano mi sento in dovere di informarli che la dolce vita ormai è credibile quasi quanto i capelli finti di Silvio Berlusconi. Ogni volta che vedo l'ennesima rivista patinata descrivere un altro meraviglioso angolo del Belpaese, sono colta dall'irresistibile impulso di ficcarglielo dove il sole della Toscana non batte.
Non rimpiango il mio esilio italiano. Ma tornata a Londra mi rallegro per l'abbondante offerta dei supermercati Waitrose e sono felice di poter andare in banca all'ora di pranzo o di poter comprare un francobollo all'ufficio postale. L'Italia è nel migliore dei casi un ologramma da conservare per le vacanze estive. Da quelle parti la vita fa schifo, anche senza stare a Napoli. L'anno scorso, per esempio, abbiamo ricevuto le cartoline di Natale a marzo. Le mie lamentele si sono scontrate invariabilmente con un'alzata di spalle e un rassegnato "è così". La stessa cosa vale per la politica (corrotta al punto che nessuno riesce più a capirla), i servizi pubblici o i disgustosi episodi di razzismo. La televisione italiana è inguardabile: giochi a premi con fanciulle in perizoma, che prima o poi finiscono al governo, e personaggi che urlano contro Alessandra Mussolini.
La stampa è così cieca, pomposa e stupida da essere illeggibile. Oltre ai commenti sull'impossibilità di combattere la corruzione, i giornali contengono solo articoli datati e mal tradotti tratti dalla stampa anglofona.
E il cibo? Il risotto mi piace, certo, ma l'unica spezia in vendita nell'alimentari sotto casa era una polverina che chiamavano curry. Per quanto riguarda la cucina etnica, l'Italia è rimasta al 1953. E comunque gli italiani mangiano all'aperto solo due volte l'anno perché hanno paura del maltempo. In quel paese sanissimo, la malattia più diffusa è l'ipocondria. Per iscrivermi in palestra ho dovuto presentare due certificati medici (equivalenti a una settimana di fila).
La cosa più penosa è che gli stessi italiani ignorano le meraviglie del loro paese. Nella nazione che ha inventato quasi ogni dettaglio della civiltà, dal sonetto alla Nutella, Jack lo Sverniciatore imperversa staccando dai muri gli stucchi barocchi per riportare alla luce i banali mattoni a cui i turisti sono abituati. E la Scala è ferma perché i suoi musicisti vengono pagati in panini.
Perché sforzarsi di apprezzare il patrimonio culturale più ricco del pianeta quando ci si può limitare a essere bavosi parassiti che si accontentano delle americanate disprezzate perfino dagli ottusi inglesi?
Mescolando pensierosa il suo caffè a un tavolino di Cova, il locale settecentesco un tempo frequentato da Giuseppe Verdi, una mia amica italiana mi ha confessato che non vedeva l'ora di provare Starbucks. Se volete farvi un'idea dell'Italia autentica, leggete Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi, che racconta una cultura meridionale, brutale e primitiva, tuttora esistente, come dimostra Roberto Saviano in Gomorra.
O magari provate con Outlet Italia di Aldo Cazzullo, che rivela come la piazza, un tempo luogo d'incontro della nascente democrazia, si sia svuotata perché gli italiani, obesi e ossessionati dal telefonino, passano le domeniche chiusi in capannoni industriali a comprare abiti Abercrombie & Fitch scontati. Al nord si respira lo smog peggiore d'Europa, mentre il sud è letteralmente tossico. E nessuno se ne preoccupa. È così.
Buon Viaggio.

Raccontate a qualcuno che vi siete trasferiti dall'Italia a Londra e sarete oggetto di compassione. "Oh, poverina", dirà, "e non ti dispiace?". Poi comincerà a raccontare di quella graziosa trattoria a Lucca, dei dipinti di Piero della Francesca o dell'uso ripetuto della parola "bella". Tutte le persone con cui parlo mi raccontano della loro Italia, un paese mitico e incantevole dove le logge sono baciate dal sole e le giovani contadine stendono la pasta sui gradini di casa nei borghi medievali.
Non vorrei deluderli, ma dopo tre anni a Milano mi sento in dovere di informarli che la dolce vita ormai è credibile quasi quanto i capelli finti di Silvio Berlusconi. Ogni volta che vedo l'ennesima rivista patinata descrivere un altro meraviglioso angolo del Belpaese, sono colta dall'irresistibile impulso di ficcarglielo dove il sole della Toscana non batte.
Non rimpiango il mio esilio italiano. Ma tornata a Londra mi rallegro per l'abbondante offerta dei supermercati Waitrose e sono felice di poter andare in banca all'ora di pranzo o di poter comprare un francobollo all'ufficio postale. L'Italia è nel migliore dei casi un ologramma da conservare per le vacanze estive. Da quelle parti la vita fa schifo, anche senza stare a Napoli. L'anno scorso, per esempio, abbiamo ricevuto le cartoline di Natale a marzo. Le mie lamentele si sono scontrate invariabilmente con un'alzata di spalle e un rassegnato "è così". La stessa cosa vale per la politica (corrotta al punto che nessuno riesce più a capirla), i servizi pubblici o i disgustosi episodi di razzismo. La televisione italiana è inguardabile: giochi a premi con fanciulle in perizoma, che prima o poi finiscono al governo, e personaggi che urlano contro Alessandra Mussolini.
La stampa è così cieca, pomposa e stupida da essere illeggibile. Oltre ai commenti sull'impossibilità di combattere la corruzione, i giornali contengono solo articoli datati e mal tradotti tratti dalla stampa anglofona.
E il cibo? Il risotto mi piace, certo, ma l'unica spezia in vendita nell'alimentari sotto casa era una polverina che chiamavano curry. Per quanto riguarda la cucina etnica, l'Italia è rimasta al 1953. E comunque gli italiani mangiano all'aperto solo due volte l'anno perché hanno paura del maltempo. In quel paese sanissimo, la malattia più diffusa è l'ipocondria. Per iscrivermi in palestra ho dovuto presentare due certificati medici (equivalenti a una settimana di fila).
La cosa più penosa è che gli stessi italiani ignorano le meraviglie del loro paese. Nella nazione che ha inventato quasi ogni dettaglio della civiltà, dal sonetto alla Nutella, Jack lo Sverniciatore imperversa staccando dai muri gli stucchi barocchi per riportare alla luce i banali mattoni a cui i turisti sono abituati. E la Scala è ferma perché i suoi musicisti vengono pagati in panini.
Perché sforzarsi di apprezzare il patrimonio culturale più ricco del pianeta quando ci si può limitare a essere bavosi parassiti che si accontentano delle americanate disprezzate perfino dagli ottusi inglesi?
Mescolando pensierosa il suo caffè a un tavolino di Cova, il locale settecentesco un tempo frequentato da Giuseppe Verdi, una mia amica italiana mi ha confessato che non vedeva l'ora di provare Starbucks. Se volete farvi un'idea dell'Italia autentica, leggete Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi, che racconta una cultura meridionale, brutale e primitiva, tuttora esistente, come dimostra Roberto Saviano in Gomorra.
O magari provate con Outlet Italia di Aldo Cazzullo, che rivela come la piazza, un tempo luogo d'incontro della nascente democrazia, si sia svuotata perché gli italiani, obesi e ossessionati dal telefonino, passano le domeniche chiusi in capannoni industriali a comprare abiti Abercrombie & Fitch scontati. Al nord si respira lo smog peggiore d'Europa, mentre il sud è letteralmente tossico. E nessuno se ne preoccupa. È così.
29 novembre 2008
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* Lisa Hilton, I don’t miss Italy. The dolce vita is a myth, Spectator, 5 novembre 2008. Traduzione apparsa sul settimanale 'Internazionale' n. 772, 28 novembre 2008, p. 25 con il titolo: Il miraggio della dolce vita.