di Salvatore D’Agostino Da qualche mese Ugo Rosa, quasi ogni giorno, scrive lettere –sul suo profilo facebook - alla sua amica F.B. sull'arroganza dell’architettura contemporanea che condanna all’iperattualità. Pubblico, con il consenso dell’autore, l’ultima lettera dedicata allo speciale della rivista Abitare sula biennale di architettura di Venezia. Prima di leggere la lettera, due note a margine su due miti dell’architetto che legge e cerca la critica. La prima: un architetto che fa il mestiere dell’architetto non deve avere come obbligo, tra i suoi requisiti, la lettura. Un buon architetto, se non può andare a vedere le architetture, legge i disegni, non ha bisogno di didascalie o scritti di supporto per imparare a progettare. Personalmente sogno libri di architettura senza parole, costituiti da solo disegni. Se è possibile non disegni accattivanti o da quadro da salotto buono e soprattutto senza foto ‘da messa in posa’ del fotografo di architettura. Libri da sfogliare, magari da ridisegnare. La seconda: ‘critica’ è una parola delicatissima che ancora oggi per l’architettura viene rielaborata sui canoni d’inizio del novecento, quando alcuni bravi critici dell’arte utilizzarono il linguaggio dedicato alle opere d’arte per criticare le architetture. Da quel momento l’architettura diventa, per il nuovo critico di architettura, un’opera d’arte osservata come se fosse un oggetto. L’architettura, per sua natura, non è un’opera d’arte ed è sbagliato continuare a parafrasare, se non a scimmiottare, il linguaggio dei critici dell’arte per parlare di architettura. AAA cercasi un linguaggio specifico per la ‘critica’ di architettura. Di seguito la lettera del 19 agosto 2014 di Ugo Rosa a F. B.
Un blog che ha due caratteristiche appartenenti alla cultura del blogging anglosassone e statunitense: la prima è la cura della grafica affidata a un designer, in questo caso a Josh Boston, e la seconda è il guadagno, delle 450 ore mensili spese, grazie alle donazione dei lettori evitando così i banner pubblicitari. Due peculiarità che arricchiscono il mondo della cultura indipendente in questi paesi.
A proposito di liste, con gli architetti senza tetto - che hanno da poco creato la rubrica ‘Decaloghi’ - ogni tanto ci abbiamo scherzato un po’ su, forse perché da disillusi italiani siamo schivi alle pratiche dei guru, alle regole definitive o alle liste di buon senso. E non so perché per quest’anno per augurarvi ‘un buon quello che volete’, ho pensato di riportare una lista chiamata il ‘metodo Kai-Uwe’, ovvero come diventare in poco tempo architetto globale come Biarke Ingels [vedi BIG].1
Stabilite voi se attuarla o meno, noi ci rileggiamo il prossimo anno: buon quello che volete.
Bjarke’s social ties are hyper-productive for BIG. The way he goes around the planet making connections and strengthening the ones that already exist is vital to the company. But he rides on a wave of enthusiasm that is only occasionally selective and he likes to put his faith in chance. Kai-Uwe Bergmann is there to tune up the motor of business development.
Accumulate business cards
When Bjarke dumps the heap of business cards that he has collected on his travels in the studio, it's Kai-Uwe who sorts them out. What for Bjarke is a confused muddle is for him an inestimable resource. When Kai-Uwe joined BIG, in 2006, his trawl through Bjarke's memories and the traces of his chaotic "in-boxes" unearthed 200 good contacts: in the space of six years he has extended BIG’s list of useful addresses to 20,000.
Be friendly
Sometimes he feels like a marine, the first on the scene and the last to leave it. Often he's the one who makes the first contact with the client, and then who looks after him, making sure that he's listened to and kept an eye on, even at a personal level. He sends greetings on the appropriate, and also, and above all, e-mails that he might not be expecting. He keeps him informed about the movements of Bjarke and the BIGsters in case they come anywhere near the city in which he lives or works and keeps him up to speed on the group's latest exploits: in short, he does everything he can to make sure the clients don't jump ship.
Network
While at the most he can get in direct touch with ten people over the course of 24, Kai-Uwe has to make sure that there is an effective network of communication to spread BIG's message: "There's a role for the clients who praise you, for friends who pass the word on, but also for all the ex-BIGsters scattered around the world (around 300 at this pooint) who are familiar with the studio's culture and pass it on". He stays in contact with them all, keeping a wide-ranging group alive, while he uses social networks to the communicate with all those who are not part of the family in the strict sense.
Fly first class
For Whenever possible Kai-Uwe flies in business. He knows that this section of the plane houses the part of society that makes decisions, where potential clients can be found. He observes people, is as sociable as always, and if he can't find anyone to chat with, seeks inspiration in the magazines printed for this group of elite travellers: and considers ways for BIG projects to be included within their pages by the next issue ...
Never go to a trade fair alone
"There's a lot of confusion at a trade fair. The environment is exhausting in itself. Generally no one knows who you are, nor will they make any effort to find out. You have to arrange to be accompanied and introduced by other people: if you were to go around trying to sell yourself on your own, it would be a complete flop".
Capitalize on the lecture
A lecture gives Kai-Uwe, Bjarke or one of the other BIGsters the chance to win over 100 or 200 people at a time. "There's no better time or place than after a talk to meet potential clients".
Be selective
Taking part in a competition is an excellent way of procuring work, but Kai-Uwe doesn't mince his words: "When they hear of a new competition architects often behave Like dogs in heat, becoming completely stupefied and ready to hump any leg they come across, without carrying out any research ... ". At BIG he tries to curb this animal-Like reaction. If the others don't do it, he'll be the one to make sure that a competition is worth considering and not just a waste of time and money.
Show off your awards
Many clients pay attention to the number of prizes won by the studio. If it were not for this fact, official marks of recognition, which often entail a waste of time and money, would not be of much interest to Kai-Uwe: "But we have to bear in mind the fact that BIG has so far built very Little: when competing with studios that have been around for years and have the construction of entire cities under their belt, even the glitter of the odd medal has a part to play".
«Domus è una rivista d'arte che sogna di essere un'opera d'arte.» (Giò Ponti)1 -
Joseph Grima con i suoi 34 anni2 è il più giovane
direttore della storia di Domus. L'otto luglio del 2011 abbiamo
chiacchierato sulle sue esperienze formative e sul percorso ideativo
avviato per Domus. Quali siano le aspettative della nuova Domus, le affido
alla voce degli editori Giovanna Mazzocchi Bordone (figlia di Gianni
Mazzochi l'ideatore dell'Editoriale Domus*) e della figlia Sofia Bordone. A seguire il nostro dialogo:
«Sofia Bordone Abbiamo Domus, che esce in edizione internazionale in inglese con edizioni locali in Russia, Israele, Cina e in arabo3, e Meridiani, che ha un’edizione brasiliana. Ai partner esteri offriamo la nostra competenza nel fare sistema.
Ivan Berni Come procede la mutazione di Domus con il ritorno alla direzione di Alessandro Mendini?
Giovanna Mazzocchi Bordone
Mendini è una collezione nella collezione. L’ho voluto alla direzione
per preparare il terreno alla nuova declinazione di Domus verso una
linea di sviluppo ‘globale’. Prima il giornale anticipava le tendenze.
Dava, per così dire, la linea. Ma oggi, anche facendo al meglio questo
lavoro, si rimarrebbe inevitabilmente indietro. Qualcosa resterebbe
fuori. Perciò la rivista Domus deve soprattutto fare approfondimento,
offrire letture interpretative. Il resto, le tendenze, le news, le
sperimentazioni, deve girare su tutte le piattaforme che oggi la
tecnologia ci permette di usare. È un progetto a cui sta lavorando da
mesi Joseph Grima, che prenderà la direzione di Domus nella prossima
primavera. Prima di Natale verrà lanciato il nuovo sito della rivista ed
entro il 2011 avremo anche la versione iPad. Il nuovo sito sarà in
versione scrolling, con una parte storica e una parte informativa.»4
Salvatore D'Agostino
Nasci ad Avignone nel 1977, ti trasferisci a Milano nel 1987, dove hai
frequentato le scuole secondarie e il liceo. Nel 2003 ti laurei all’AA
di Londra.
Qual è la tua identità?
Joseph Grima I
miei genitori sono inglesi, l’educazione familiare formativa è
culturalmente inglese. Ma da quando avevo dieci anni ho vissuto in
Italia, e frequentando le scuole italiane dalle medie ho avuto una
formazione italiana. Mi sento abbastanza equilibrato tra le due identità
o forse più che altro mi sento profondamente europeo, non appartenente a
nessuna nazionalità specifica. Credo che oggi la nazionalità sia meno
importante anche per la crescita culturale individuale, come evidenziava
Luca Molinari alla Biennale di Architettura del 2010 chiamandola
‘Generazione Erasmus'.5 L'Europa oggi è una realtà significativa. L'altro giorno (ndr 7 luglio 2011*), durante la premiazione del concorso 'AAA architetti cercasi'*
alla Triennale, in cui si cercavano proposte innovative intorno all'idea del 'social housing' abitazioni a basso costo, è stato
interessante constatare come i premiati fossero tutti ragazzi
giovanissimi; quasi tutti avevano un'identità internazionale con
percorsi formativi in Italia, in Francia, negli USA o in Spagna, e i
loro lavori si sviluppano attraverso reti fisiche ed elettroniche.
L'architettura oggi è una rete di reti, ed è questa la realtà in cui mi
trovo più a mio agio.
New York, 97 Kenmare Street, un incrocio che segna
l’intersezione di tre quartieri: Chinatown, Little Italy e SOHO. Sede
dell’organizzazione no profit Storefront for Art and Architecture,*
attiva dal 1982. Lunga circa trenta metri, la galleria si assottiglia
dai 20 ai 3 metri, ridisegnata nel 1992 da Steven Holl e Vito Acconci, i
quali hanno trasposto in architettura lo spirito dell’organizzazione,
creando non un contenitore delle arti ma un forum pubblico dove
l’interno - attraverso dei pannelli incernierati in cemento e fibre
riciclate - si apre verso l’esterno, creando una continuità con la
città. Organizzazione che hai diretto dal 2007 al 2010.
Questa vista da Google StreetMap evoca fortissime memorie. È una prospettiva della galleria vista da ‘La Esquina’*
un piccolo bodega dall'altra parte della strada dove la notte si
ritrovano i tassisti nel momento di pausa. È aperto 23 ore su 24, e
chiude, se ricordo bene, dalle cinque alle sei del mattino. Si preparano
tacos, quesadillas e altre specialità messicane. Devo aver passato
decine e decine di ore a guardare la galleria da questa prospettiva,
mangiando tacos.
L’immagine mi fa tornare in mente l’esperienza di quei tre anni a Storefront
ma anche l'unicità della sua natura istituzionale. È una galleria che
ha solo quattro dipendenti, finanziato quasi interamente da donazioni di
individui che credono nell'importanza per l'architettura oggi di uno
spazio autonomo di sperimentazione, una sorta di laboratorio di
riflessione e coraggiosa sperimentazione sulle frontiere politiche,
sociali, tecnologiche e filosofiche dell’architettura, nell'epicentro di
una delle realtà urbane più competitive e aggressive del mondo. Una
fortissima volontà collettiva è incapsulata in questo spazio, un
incredibile coraggio a resistere con pochissimi soldi a New York, forse
la città più cara del mondo, lontano da interessi commerciali e
monetizzabili, dove ogni mese si rischia di essere espulsi per far posto
ad un altro negozio d’abbigliamento. Ma la sua energia vitale deriva
proprio da questo: essere una sorta di bolla acommerciale in un mare di
shopping, una sorta di scialuppa dalla quale è possibile osservare
criticamente, da vicino, la città.
Credo che le istituzioni, un po’ come le persone, possano essere tirchie o generose. Storefront
ha da sempre la peculiarità di essere un’istituzione generosa e
coraggiosa. La sua qualità più ammirevole è quella di prendere rischi:
dà la possibilità a individui che hanno visioni un progettista o un
artista giovane, uno sconosciuto, uno straniero, di avere un primo
approdo negli Stati Uniti, di far vedere i propri lavori in una delle
città che più ha segnato l’innovazione nell'architettura, nell'arte e
nel design. Ha una tradizione di offrire una piattaforma a individui che
sono stati rifiutati altrove. È stato storicamente un punto di approdo:
Diller + Scofidio*
hanno fatto la loro prima mostra, e già negli anni Ottanta si
trattavano esattamente gli stessi temi sollevati ora dal movimento
Occupy. Storefront non ha nessun sovvenzionamento governativo,
trattandosi degli Stati Uniti ci sono pochissimi fondi governativi,
municipali o federali per l’arte o la cultura, ma vive grazie a
donazioni private che tengono personalmente all'esistenza di questo
luogo. Storefront ci deve far riflettere sul futuro della
cultura in Europa, da una parte il modello americano basato sulla
filantropia e dall'altra il modello europeo sostenuto dalla collettività
attraverso lo stato. Una domanda da porsi in questo momento storico.
Credo
che ci siano delle similarità con Domus, che è da
sempre una rivista coraggiosa e generosa, e consapevole del suo potere
nel trasformare le carriere di architetti, designer, artisti e
fotografi. Col numero di gennaio 2011 abbiamo iniziato un nuovo
progetto: la copertina e l’editoriale di ogni numero sarà affidata ad un
architetto, designer, urbanista o artista che in qualche maniera sta
sperimentando con coraggio, trascendendo i limiti disciplinari della sua
professione. La copertina diventa in qualche maniera una piattaforma
sperimentale sulla quale, insieme a quattro pagine di editoriale, è
possibile prendere una posizione, esprimere un pensiero, ma anche
riflettere sulla propria traiettoria progettuale e i traguardi all'orizzonte Iniziamo con uno studio belga, architecten de vylder vinck taillieu*, non soltanto perché hanno appena terminato una serie di tre progetti
residenziali interessanti e innovativi (ndr presentati nel numero), ma anche
perché ci sembra importante, in questo momento, dare spazio ad uno
studio che ha scelto di concentrare la sua ricerca su un’unica finalità,
ovvero l’esperienza dello spazio architettonico e la qualità
materiale dello spazio fisico. Sembra una banalità, ma ci troviamo in un
momento che l’interesse per la teoria e la ricerca astratta - assolutamente legittima, per carità - rischia di essere meno uno
strumento di avanzamento cognitivo che una distrazione endemica che
aumenta la distanza cognitiva fra noi, come architetti, e la materia
fisica, lo spazio che produciamo, che in ultima analisi è la misura
della nostra abilità e quello su cui siamo giudicati, cosa che
apparentemente ci dimentichiamo ogni tanto. È una copertina forte,
sorprendente e anche difficile, che d’altra parte rischia di apparire
molto banale se non si legge il testo che lo accompagna. Ma credo sia
nella migliore tradizione di Domus dare spazio ad un pensiero forte,
anche al costo di prendere qualche rischio. Sono poche, pochissime le
riviste che possono farlo oggi.
Nel 2007 hai organizzato POSTOPOLIS! Quattro blogger Geoff Manaugh BLDBLOG,* Dan Hill City of Sound,* Jill Fehrenbacher Inhabitat (New York City) * e Bryan Finoki Subtopia*
da quattro diverse città, hanno ideato e invitato una serie di relatori
dal vivo fondendo l'approccio informale e l'energia interdisciplinare
della blogosfera architettonica con l'immediatezza e l'interazione
faccia a faccia.
Ho cominciato a leggere BLDBLOG nel 2006 quando lavoravo a Domus,
direzione Stefano Boeri. Fino a quell’anno, il concetto di 'blog
d’architettura' era sostanzialmente sconosciuto, almeno sulla larga
scala che conosciamo oggi. BLDBLOG mi affascinava perché era qualcosa di
completamente nuovo, senza precedenti: un autore che da solo, senza
retribuzione, era riuscito a crearsi un seguito globale scrivendo
d’architettura online. Ero affascinato da questa figura nascosta di cui
non si sapeva nulla, neanche dove vivesse. Arrivato a Storefront
nel 2007, per la prima volta avevo un budget e uno spazio, e ho pensato
di usarli per conoscere Geoff e due o tre altri come lui. Mi sono detto
che come me, probabilmente, anche molti altri erano curiosi di avere la
possibilità di trasformare in una dimensione fisica quella che era una
dimensione estremamente attiva ma puramente elettronica.
Abbiamo
iniziato con Geoff una discussione da cui è nata l’idea di creare una
sorta di 'Ponzi scheme' delle idee: il tema centrale rimaneva
l’architettura, ma ognuno dei quattro blogger, avendo un approccio molto
diverso e specifico: Geoff fantascienza,
letteratura, paesaggio e geologia; Dan interfacce, grafica, tecnologia infrastrutturale e le smart
cities; Bryan il punto di vista della militarizzazione dello
spazio urbano e non; Jill sostenibilità ed ecologia; invitatava una dozzina di relatori che avrebbe
voluto conoscere e intervistare dal vivo. Da questa sorta di piramide, in cui io invito quattro
blogger, ogni blogger invita dodici relatori, e ogni relatore invita i
suoi amici e conoscenti, è nato un’incredibile esempio di 'network
effect' in cui in qualche maniera la rete e lo spazio fisico della
galleria sono diventati un’unica cosa. Non abbiamo mandato nessun
comunicato stampa, nessuna mail e ci siamo trovati all’epicentro non
solo della rete locale newyorkese. La notizia si è sparsa quasi come un
incendio di bosco, attraverso le comunità creative che ci sono a New
York ma anche attraverso la rete, gran parte del dibattito infatti
avveniva online, nonostante fossimo lì fisicamente. C'è stata una
inaspettata collisione tra cyberspazio e spazio fisico.
La sua
forza è stata nel ritmo incessante, incalzante dei relatori variegati e
interessanti che si succedevano. Alla fine di ogni relazione, ognuno si
prometteva di staccare, di andare a prendere un caffè o a mangiare
qualcosa, ma non si riusciva mai. Siamo rimasti lì dentro più o meno per
cinque giorni, in un flusso ininterrotto di idee e dibattiti.
Una Woodstock dell’architettura?
Si
potrebbe dire così, ma senza molto sesso o droga, se non Red Bull. È
finito tutto con un dj set di due blogger che trattano il tema dello
spazio urbano attraverso il suono e la musica: DJ/rupture* e Daniel Perlin* (DJ N-Ron). Daniel Perlin ora cura la sezione Mixtapes* di Domus, e DJ/rupture è l’autore del Mixtape Harlem, il secondo della serie.
Visto
oggi, è evidente che c’è stata una sorta di contaminazione tra la
cultura blogger e l'editoria classica. Credo che il grande merito dei
blog sia stato di costringere l’architettura a riprendere contatto con
la realtà, smontando l’apparato fortemente gerarchico ed accademico che
caratterizzava il dibattito intorno all’architettura fino all’arrivo
della rete.
Che cosa significa POSTOPOLIS! e perché il punto esclamativo?
Ottima domanda. Non ricordo... Sarebbe interessante ritornare nei
miei archivi email, perché è stato il frutto di un lunghissimo scambio
notturno con Geoff, forse anche un po’ delirante. Forse il punto
esclamativo sta per rafforzare quest’idea di energia, di eccesso, di
sforzo quasi agonistico nella ricerca della conoscenza e della
divulgazione – un modo per allontanarlo dall’idea canonica delle
conferenze soporifere. Postopolis! – sembra più un esclamazione che il
titolo.
Nel novembre del 2010 sei stato invitato a partecipare alla mostra The Last Newspaper*al The New Museum di New York.*
Interessante la riproposta di un’opera di Luciano Fabro del 1967
‘Pavimento-Tautologia’ che metteva in relazione il faticoso lavoro dei
giornalisti con la fatica del lavoro domestico dove i giornali servono
per lucidare pavimenti e vetri:
«[...] di considerare
il lavoro e di preservarlo, non per ostentazione, ma come fatto
privato, cercare che non vada a finire in niente quella cosa che è
costata lavoro.»6
Ci sarà mai un ultimo giornale di carta?
Sì, non nel futuro immediato ma prima o poi ci sarà l’ultimo giornale di
carta. Credo che non ci sarà l’ultima rivista, poiché le riviste
approfondisco temi e i loro contenuti sono più longevi rispetto alle
notizie del giornale di carta. Quello che distingue la rivista dal
quotidiano è la dimensione della notizia, l’informazione ha un ruolo
fondamentale nel quotidiano, diversamente dalla critica e dal pensiero
elaborato che si ha nella rivista. Per quanto riguarda l’informazione
credo che nel futuro convergerà nelle piattaforme Web e questo in parte
sta già avvenendo.
Il progetto di The Last Newspaper era
un modo per riflettere sull’incredibile importanza che hanno avuto e
continuano ad avere i giornali, per quanto riguarda lo spazio urbano e
il nostro rapporto con le città. Ad esempio, New York è una città
particolarmente estrema, nel senso che è una città fondamentalmente
fondata sulle lobby immobiliari, sulle fluttuazione e le crescite dei
valori immobiliari; in tutto questo il New York Times ha giocato un
ruolo fondamentale, tutto ciò che ha pubblicato e non pubblicato ha in
qualche maniera plasmato la città ed è una cosa di cui si è parlato
pochissimo.
La partecipazione alla mostra al New Museum è stata una collaborazione con Kazys Varnelis * il direttore del The network architecture lab* della Columbia University*. Per quattordici settimane abbiamo realizzato The New City Reader,
un settimanale stampato su carta di giornale. Ma si trattava di un
settimanale molto insolito, perché come provocazione riprendeva il
format dei 'Dazibao' cinese - i giornali della rivoluzione
concepiti per essere letti collettivamente per strada, nello spazio
pubblico, incollati ai muri delle città - e lo riproponeva come format
per una lettura collettiva di scritti che non erano assolutamente intesi
come notizie 'quotidiane' ma che trattassero temi inerenti allo spazio
pubblico, il suo ruolo oggi, e come sta cambiando.
Per i diversi
numeri del settimanale prodotti durante la mostra hanno scritto, in
tutto, più di trecento persone, creando un ritratto della città in tempo
reale e incentrando la ricerca su come l’informazione modifica o
modella lo spazio fisico. Quindi paradossalmente, nonostante si
trattasse di un giornale ‘cartaceo’, si è parlato principalmente di
interazioni spaziali, ad esempio di come l'iPhone cambiasse il nostro
modo di occupare lo spazio, di come il cittadino oggi occupa lo spazio
fisico del marciapiede, della metropolitana, incapsulato in una sorta di
bolla che lo isola dal suo contesto.
The new city reader ha
creato una sorta di ritratto di una città, un ritratto molto spontaneo
ed è anche un modello applicabile a diverse città, infatti stiamo
lavorando ad una edizione londinese che probabilmente si terrà in
primavera e sarà ospitata dall'Architectual Associaton*.
Gianni Mazzocchi l’editore storico di Domus
sognava una rivista in continuo aggiornamento anche grazie
all’alternarsi del direttore. Nell’aprile 2010, dopo la direzione
affidata a Flavio Albanese, Domus ha deciso di affidare a te la
direzione, con una transizione di un anno curata da Alessandro Mendini
già direttore di Domus nel 1980-85 nonché di Casabella 1970-1976. Il 9 dicembre del 2010 cambi radicalmente il sito di Domus, affidando la progettazione a Dan Hill. Facendo subito chiarezza sul tuo progetto editoriale: Domus avrà una doppia anima Web e cartacea. Una curiosità, perché per spiegare le novità della nuova versione cartacea hai pubblicato l’intervista ai curatori Salottobuono7 e non hai spiegato quella di Domus Web curata da Dan Hill?
La risposta è divertente perché rivela uno scontro culturale.
L’intervista a Salottobuono è stato un modo per esplicitare alcune
scelte culturali intono al linguaggio visivo della rivista e prima di
quest’intervista avevo proposto la stessa cosa a Dan Hill. Ma Dan ha
preferito aspettare che il sito fosse davvero completato prima di
parlarne pubblicamente. Il problema è, che come si sa, i siti sono in
continua evoluzione: ci sono nuove rubriche, nuove sezioni, continui
perfezionamenti. A metà gennaio, ad esempio, lanceremo un piccolo
redesign (non così tanto diverso, ma che porta alcuni perfezionamenti).
Prima o poi si farà, ma Dan è un perfezionista assoluto, e non so se
considererà mai il sito sufficientemente perfetto.
A proposito della doppia anima Web/cartacea, ho
trovato interessante l’innesto di una pagina dove si segnalano gli
articoli pubblicati su Domus Web.
Mi chiedo però, perché gli articoli sul cartaceo trasposti in rete non hanno una logica ‘editoriale’ Web?
Faccio un esempio per chiarezza: nel primo numero è stato pubblicato un articolo firmato da Beatriz Colomina dal titolo ‘Verso un architetto globale’,*
articolo che nel cartaceo è stato studiato e impaginato con un sapiente
innesto grafico per quanto riguarda le citazioni. Lo stesso articolo è
stato pubblicato sul Web senza nessun accorgimento grafico, perdendo di
leggibilità.
In sintesi, perché invece
di limitarvi a copia incollare sul web gli articoli della rivista, non
li segnalate con una formula editoriale Web simile a quella ideata per
il cartaceo?
Per progettare e realizzare il sito abbiamo impiegato più di sei mesi di
lavoro estremamente intenso di progettazione su come suddividere le
sezioni, risolvere piccoli problemi di rimandi, collegamenti, struttura e
gerarchia degli articoli. È stato un impegno rilevante svolto in mesi
di lavoro molto tecnico e dettagliato, per non parlare di tutta la parte
di codifica dei testi e del sito. D'altra parte, per ideare e affinare
l’impianto grafico la Domus cartacea abbiamo impiegato, con i
Salottobuono, poco più due mesi, perché quando fai una rivista di carta
stai sostanzialmente prendendo delle scelte, delle direttive
macroscopiche che hai sempre l'opportunità di trasgredire in qualsiasi
momento. Ogni volta che prepari i vari layout dei contenuti hai
l’opportunità di mettere in dubbio le idee di base, questo può succedere
per ogni articolo senza che si compromettano le genericità
dell’impianto ideativo.
Questa flessibilità sul Web è praticamente
impossibile per il suo impianto rigido che è molto difficile da gestire
sotto ogni aspetto e questa è una realtà con cui dobbiamo confrontarci. Progettare
una rivista Web è molto impegnativo, ciò che noi abbiamo cercato di
fare con il nostro sito è di passare a un livello di qualità, di
coerenza e di valore grafico più elevato possibile, più simile alla
logica di una rivista, rispettando comunque il fatto che un sito Web
deve essere cosituito sostanzialmente di template, di gabbie strutturali
che vengono riempite e su cui si riversano dei contenuti.
Quest'aspetto
è il secondo dei motivi perché reputo interessante la tua osservazione,
ovvero l'emancipazione dai layout predefiniti. Alla fine le decisioni
rispetto al web si scontrano sempre con delle logiche di economia:
nessuno, neanche sui grandi quotidiani come il New York Times, è riuscito a capire del tutto come far quadrare i conti.
Sì, Domus è la prima rivista cartacea che usa il Web, non come una vetrina, ma come uno spazio attivo d’informazione.
Le esperienze Web più significative, fino ad ora, sono state quelle delle riviste che hanno emulato in qualche maniera la formula della
blogosfera, come Abitare, con cui collaboravo prima di trasferirmi a
Domus. Non credo ci sia una formula 'migliore' o 'peggiore': con Domus
abbiamo cercato di fare una cosa diversa, tentando di trasporre sul Web
la qualità storica e la tradizione critica e di approfondimento di una
rivista cartacea, non basandolo unicamente sulle notizie veloci. È una
scelta difficile, perché i numeri dimostrano che la formula del blog è
quello che più di tutti garantisce traffico istantaneo. La nostra è una
strategia più a lungo termine, basata sulla creazione di un database
ricco di articoli approfonditi, e una struttura che permette di
aggiungere progressivamente nuove edizioni in altri linguaggi, creando
una piattaforma che sia un punto di riferimento globale per
l’architettura e il design.
Infatti
dicevo che siete stati la prima rivista che ha costruito il proprio
spazio Web con la grafica e i contenuti da ‘rivista’ Web. Abitare è un
ibrido tra un sito-vetrina con tutte le derive news e qualche spazio critico o
rubrica con voce autonoma.
Paradossalmente riviste come Domus che sono ancorate ad una storia
pluridecennale, che in qualche maniera hanno vissuto l'ascesa e la
storia del movimento modernista sin dall'inizio, si trovano in qualche
maniera svantaggiati nella loro transizione sui nuovi media. Prima di
tutto sono, agli occhi dei lettori, equiparati all'establishment antico,
predigitale, e rischiano di essere percepiti come appartenenti ad
un'altra era. Secondo, sono afflitti dalla tentazione di aggrapparsi
alla tradizione, che spesso diventa un ostacolo all’innovazione. In
questo bisogna riconoscere che l’editore è stata coraggiosa e ha
abbracciato una formula non ovvia o scontata, marcando un ingresso
deciso nell'era digitale che rispecchia più una strategia a lungo
termine che sui risultati a breve. In questi mesi è evidente che se ne
stanno accorgendo anche molti altri che senza una presenza web un
cartaceo rischia di non esistere nella coscienza quotidiana dei lettori,
e quindi di scomparire.Mark, ad esempio, ha appena lanciato un sito e un account Twitter.
Ovviamente mi riferivo al contesto italiano,
anche se è vero che le riviste straniere hanno più dei siti ‘vetrina’
che riviste Web. Per l’Italia ho fatto un reportage che avvalora ciò che
dico8, per le riviste straniere sto per finire il monitoraggio ma al momento ho rilevato lo stesso deficit italiano.
Nessuno ancora ha pensato al sito Web come un’interfaccia creativa editoriale della rivista. Si pensa che il Web sia solo una ‘vetrina’.
Ribadisco
ci sono veramente poche riviste ‘storiche’ curate sul Web nel mondo. Ma
questo quasi sicuramente cambierà. E sicuramente Domus è stata una
delle prime.
Con il numero 946 aprile
2011 inizia la direzione tradizionale di Domus, rileggendo questi quatto
numeri mi è venuta in mente una tua osservazione del 2006:
«Quello
che lei dice è vero – “contaminazioni” (in senso positivo) di correnti
progettuali provenienti da lontano non mancano, cosa peraltro
inevitabile se si considera la proliferazione di sorgenti di notizie e
di immagini a disposizione dei progettisti. Più ancora che alle riviste,
che del resto sono sempre le stesse, credo che questo sia dovuto a internet.
Infinite informazioni, fatte su misura, disponibili immediatamente, se
si sa cercare… Credo che la generazione di architetti emergenti faccia
parte di una cultura progettuale globale, in cui ha sempre meno senso di
pensare a influenze progettuali legati a luoghi specifici.»9
In
ogni numero presenti poche architetture, massimo tre, di architetti
eterogenei non sempre noti rilevando la loro collocazione urbana globale
attraverso testi quasi narrativi, le foto anch'esse narrative e i
disegni semplificati secondo lo stile di Salottobuono (per fortuna non
esistono rendering).
Un lavoro
minuzioso che cela il passaggio dalla celebrazione dell’architettura
iconica dello scorso decennio a un’atomizzazione non più veicolata
dall’accademia o dai critici dell’architettura a scala mondiale.
Ci sono diversi motivi per cui presentiamo una selezione abbastanza
ristretta di architetture. Il primo è che pensiamo che tutto quello che
ci circonda sia architettura e sia ispirazione, e l'abilità di saper
decodificare, leggere il paesaggio, le città, gli oggetti, le tendenze
progettuali e culturali che ci stanno attorno sia di importanza primaria
per il progettista. Domus è sempre stata una rivista di larghe vedute,
che parte da una visione fortemente trasversale comprendente l'arte,
l'architettura, il design, l'urbanistica, la paesaggistica per plasmare
la sua visione del mondo; per chi preferisce una visione più ristretta, o
più tecnica, o strettamente disciplinare, ci sono molte altre testate;
Domus è una rivista per chi ha curiosità di sapere cosa succede oltre i
confini della propria disciplina. In un'epoca in cui un'infinità di
immagini è liberamente disponibile su web, credo che le riviste siano
chiamate a rivendicare la loro identità peculiare, e questa
trasversalità multidisciplinare è, a mio parere, sinonimo dell'identità
storica che ha reso Domus quello che è.
Casabella, ad esempio, è
caratterizzata da una grande uniformità stilistica: immagini molto
codificate in un preciso linguaggio fotografico, disegni tecnici, e
testi che in larga misura ripropongono i codici canonici della critica
dell'architettura convenzionale, poche escursioni in discipline
parallele. Di nuovo, non è un discorso di meglio o peggio; sono identità
storiche diverse, che forse corrispondono a visioni generazionali
diverse. A mio parere il rischio di formule di questo tipo è da una
parte un distacco generazionale e future, che sono più onnivore e
trasversali, abituati ad una dieta mediatica più onnivora, e dall'altra
parte di essere vulnerabili rispetto all'ascesa del web, dove le
immagini e documentazioni di ogni tipo e di ogni edificio abbondano. In
ogni caso, noi apriamo sempre con un grande progetto di architettura,
diamo nella rivista la prevalenza all'architettura, non cerchiamo di far
finta che Domus sia una rivista che tratta qualcos’altro. Selezioniamo
con enorme attenzione le architetture che pubblichiamo, preferendo
quelle architetture che segnano un punto di progresso ed avanzamento
nella pratica progettuale, in particolare se hanno una risonanza urbana,
un pensiero progettuale originale, forte, inconsueto, non soltanto dal
punto di vista formale ma anche tecnico o di procedura.
Il tema dei
disegni è per noi molto importante: la saturazione delle immagini online
ha indebolito, in qualche maniera, la forza di questo media, di mezzo che
prima contraddistingueva l'eccellenza di una rivista, ormai tutti hanno
l'accesso gratuito ad un enorme quantità d'immagini, con estrema
facilità. D’altra parte la cosa che era un po’ uno standard e il sine qua non
delle riviste, il disegno tecnico, essendo qualcosa che richiede un
notevole impegno, è andato in qualche modo a nostro parere a scomparire
fra le riviste più progressiste. Forse perché sono estremamente poche le
riviste che si possono permettere l'impegno necessario per uniformare i
disegni, ricondurli ad un unico codice grafico, riprodurli in scala,
comprendere a fondo un edificio per poterlo rappresentare nei suoi
dettagli. È questo secondo noi è uno dei fattori che contraddistingue la
rivista Web dal cartaceo. Ecco perché il disegno ha una presenza forte;
raramente pubblichiamo un’architettura senza i disegni, e
ideologicamente siamo contrari alla progressiva svendita immaginifica,
pittorica, dell’architettura che rischia di essere un effetto
collaterale del web sulla carta.
A proposito della seconda parte della precedente domanda?
Se si pensa alle architetture sovietiche negli anni della guerra fredda,
dai '60 agli ’80, perché ci affascinano così tanto? Perché
rappresentano un periodo storico che a noi è completamente ignoto, a
causa della barriera fisica e un’assenza di comunicazione tra Est e
Ovest. Le riviste come Casabella e Domus sono state le prime a veicolare
l’idea (peraltro profondamente insita nel modernismo stesso) di far
conoscere, creare, in qualche maniera, l’architettura su scala globale,
in cui le idee potessero essere riprese, riciclate, citate anche in
contesti radicalmente diversi da quelli in cui erano nati.
In questo
senso sono stati gli avi di questa architettura globale in cui ci
riconosciamo oggi, dove un progettista di Melbourne può ritrovare una
vicinanza, una simbiosi, una risonanza con il lavoro di un architetto di
Atene piuttosto di uno che si trova a Forlì. Chiaro che ci sono
variabili geoclimatiche di cui tener conto, ma culturalmente non
esistono più le categorie di spazio geografico che siano traducibili in
neo movimenti di carattere regionale, in questo senso credo che questa
atomizzazione sia assolutamente in corso. Cerchiamo attraverso la
selezione dei progetti anche di raccontare, narrare, quello che avviene
nel nostro globo, non guardando con occhio geografico, e difficilmente
selezioniamo delle architetture perché costruite in un determinato
luogo, ma cerchiamo di coprire tutte le varie dimensioni e i diversi
aspetti della narrazione architettonica.
Nel tuo terzo numero hai chiesto a Carlo Ratti di scrivere un articolo sul tema dell’architettura open source. Carlo Ratti ha proposto di editare collettivamente questa voce, come voce di Wikipedia.
Pagina, successivamente, scritta insieme a Paola Antonelli, Adam Bly,
Lucas Dietrich, Dan Hill, John Habraken, Alex Haw, John Maeda, Nicholas
Negroponte, Hans Ulrich Obrist, Carlo Ratti, Casey Reas, Marco
Santambrogio, Mark Shepard, Chiara Somajni e Bruce Sterling. Riporto il finale per sintetizzare e riprenderne i contenuti:
«Se gli edifici e le città di domani saranno come dei 'computer in cui vivere'
(con le dovute scuse a Le Corbusier), OSArc [ndr Open Source
Architecture] offre una struttura aperta e di collaborazione per la
scrittura del loro sistema operativo.»10
Perché pensi che OSArc sia una sorta di manifesto del ventunesimo secolo?
Uno degli aspetti che qualifica un manifesto come tale, è il fatto che
prende atto, coagulizza, sedimenta, organizza, struttura un’idea che già
esiste. Qualcosa che è già nell'aria, qualcosa che è preesistente.
Difficilmente un manifesto può generare un movimento, generalmente
avviene l’opposto. Il movimento esiste e il manifesto lo fa coagulare;
il successo di ‘Delirious New York’ come manifesto retroattivo
per Manhattan di Rem Koolhaas lo si deve al fatto che riesce ad
organizzare delle idee preesistenti, e in qualche maniera credo che lo
stesso valga per OSArc. Hai seguito l’ultima conferenza di Mark
Zuckerberg, il fondatore di Facebook, di tre quattro giorni fa dove ha
annunciato l’alleanza con Skype?
Mark Zuckerberg, «something awesome, 30 giugno 2011
Ha enunciato la legge dell’era sociale: ogni anno raddoppia la quantità
d’informazione e di contenuti legati alla propria vita generalmente
privata, che in media ogni utente pubblica sul Web. Una crescita esponenziale che Zuckerberg ha misurato attraverso gli accessi su facebook.
Questo
aspetto è molto interessante, una crescita esponenziale che in qualche
maniera spazza via qualsiasi fenomeno del passato, se si pensa alla
legge di Moore che dice che: «Le prestazioni dei processori raddoppiano ogni 18 mesi»
l’idea che la quantità d’informazione che un individuo condivide
raddoppia ogni anno, per molti aspetti è affascinante. E non può non
avere un forte impatto su come viviamo, abitiamo le città, ma sopratutto i
nostri atteggiamenti rispetto alla produzione di idee, al concetto di
autorialità. Oggi abbiamo, sempre di più, questo desiderio di vivere in
pubblico. Al di là dell’aspetto narcisistico, vanitoso, è estremamente
interessante come il possesso e il mantenere il controllo di un'idea sia
molto meno importante della collaborazione, della condivisione per le
nuove generazioni. E per questo l'idea della produzione collettiva mi
interessa molto. Come la conoscenza, ma non solo la conoscenza, gli
strumenti, gli oggetti possono essere trasformati, se non creati, da un
lavoro non autoriale. Anche se autoriale lo è comunque perché c’è il
credito, il sito, il nome eccetera.
L’idea di fare un numero
sull’open source è nata durante il salone del mobile, credo che sarà un
meta-argomento, un metatema che percorrerà tutti i miei Domus, finché
dura. La progettualità di oggi non può permettersi di non analizzare il
mondo della creatività collettiva, è qualcosa che in qualche maniera il
mondo dell’architettura sta cercando di celare. L'approccio open
source nel campo dei designer è già una realtà; come ti dicevo, durante
il salone del mobile abbiamo visto una serie di progetti, alcuni dei
quali sono stati pubblicati nel numero che hai citato, e lo hanno in
qualche maniera ispirato. Nel campo urbanistico ci sono molti esempi di
applicazione della metodologia progettuale open source.
Nel mondo
dell'architettura invece c'è un enorme abisso. L’editoriale organizzato
con Carlo Ratti editato su Wikipedia cercava di colmare questo vuoto
cognitivo e ideologico. Era più una provocazione, non chiudiamo un tema
definitivo, queste idee non rimarranno statiche. È un sassolino lanciato nello stagno che serve per porre la domanda, creare un tema, che cosa significa ‘progetto collaborativo’ per chi lavora in una scala architettonica?
Che cosa significa avere un approccio open source?
Forse
non è tanto interessante a livello tecnico o processuale l'assemblaggio
di un singolo edificio, m'interessa di più che cosa può significare
l’uso a livello stilistico.
Come se l’architettura si allontanasse dalla costruzione con le forme, con le star, con l’autorialità come ultimo fine.
Forse
questo è uno delle grandi promesse sottese nell'idea del tema operativo
open source. Poiché si smonta la mitologia del progettista supremo,
caratteristica oggi questionabile.
Ritornando alla tua vecchia frase «in cui ha sempre meno senso di pensare a influenze progettuali legate a luoghi specifici» e al manifesto open source,
i libri di architettura più incisivi della seconda metà del secolo
scorso sono stati dei racconti di viaggio o manifesti retroattivi dopo
il viaggio (di cui parlavi prima):
1972: D. Scott Brown et S. Izenour, Learning from Las Vegas, Cambridge (Mass.)
1978: Rem Koolhaas, Delirious New York: A Retroactive Manifesto for Manhattan, Oxford University Press
1996: Stefano Boeri e Gabriele Basilico, sezioni del paesaggio italiano, Art&
Forse
l’ultimo di questi libri è una forzatura, quel lavoro è stato
presentato alla biennale di architettura di Venezia. Era un viaggio per
immagini, dopo aver individuato sei segmenti (ciascuna disegnava un
rettangolo di km 50 per km 12) di territorio italiano dalle
caratteristiche urbane molto simili, in luoghi diversi. Quel viaggio a
piedi non voleva dimostrare, ma mostrare il complesso rapporto che c’è
tra la città e il territorio, tra il costruito e la politica, tra la
vitalità e l’idealizzazione, ponendo dubbi, invitando a riflettere, non
nascondendosi dietro i fasti del passato spesso idealizzati e mai
vissuti. Robert Venturi nel suo libro scriveva:
«Per un
architetto, imparare dal paesaggio circostante, è un modo di essere
rivoluzionario... la creatività dipende dall'osservare ciò che ci
circonda.»11
Oggi a quel paesaggio circostante si
aggiunge una dimensione che non può essere più trascurata, lo spazio
delle interazioni cognitive Web, il Web è una realtà del nostro
paesaggio.
L’idea del Web come paesaggio è interessante per alcuni aspetti, un
paesaggio che non conosce distanze, ogni punto del Web è equidistante da
ogni altro punto del Web, almeno dal punto di vista dell’utente. Ogni
luogo è un indirizzo ed ogni indirizzo è equidistante dagli altri
indirizzi. Riprendendo ciò che dice Venturi imparare dal paesaggio
circostante è un modo di essere rivoluzionario. Credo che il tuo punto
di vista sia giusto, forse manca qualcuno che in ambito architettonico
sia in grado d'imparare dal paesaggio esistente in internet è molto
interessante come tema, è una geografia a cui culturalmente non ci siamo
adattati granchè. Nel lavoro di Manuel De Landa, Lieven de Cauter,
Peter Sloterdijk, Bruno Latour e altri ci sono i germi di una
sistematizzazione e una lettura spaziale della trasformazione, di come
la tecnologia e la network culture stia cambiando il nostro
spazio, rimane un divario netto rispetto al pensiero progettuale.
L'accelerazione del cambiamento tecnologico, e l'ubiquità della
connettività e dell'informazione è qualcosa con cui dobbiamo fare i
conti sia a livello progettuale che politico. L'aspetto più
interessante forse non è più capire come l’architetto possa imparare
dal paesaggio fisico e per essere rivoluzionario, ma come riconoscere le
opportunità in quella rivoluzione che sta già avvenendo davanti ai
nostri occhi, intorno a noi a partire dai telefoni nelle nostre tasche:
la rivoluzione dell'informazione.
Una volta si ipotizzava che
internet avrebbe fatto acquisire un nuovo valore alla campagna, in
quanto disconnesso dalla necessità di vicinanza fisica dalle persone,
invece è successo proprio l’opposto. Nel momento in cui abbiamo avuto
l'opportunità di scartare la necessità di essere fisicamente presenti
nelle città per essere operativi, ci siamo addensati nelle città. C’è
quindi da considerare un’altra geografia, di cui parla Kazys Varnelis:
il paesaggio architettonico infrastrutturale del Web e delle reti, uno
dei temi che reputo molto interessante, con cui ho fatto un’esperienza
di ricerca allo Strelka*,
la scuola di architettura e design di Mosca. Con i miei studenti abbiamo
approfondito il tema della polarizzazione fra città e campagna; la
città come entità paesaggio antropizzato per eccellenza e la campagna
che paradossalmente sta diventando il dominio delle infrastrutture, un
framework, un'intelaiatura che serve a sostenere le città fra di loro,
città collegate da una fitta rete aerea paradossalmente in declino.
La
ricerca di uno studente, in particolare, ha illustrato questo
cambiamento epocale nel paesaggio a partire dall'enumerazione degli
aeroporti della ex-Unione Sovietica. Verso la fine dell’era sovietica
c’erano 3500 aeroporti in tutta ‘l’Unione Sovietica’, oggi ce ne
sono 92. Un dato che ci spiega la convergenza verso l’urbanità, che
procede come un'agglomerazione intorno a pochi aeroporti. Il modello
dell'ex unione sovietica era un modello di città diffuse, dove la
mobilità interna serviva ad occupare con una sorta di copertura uniforme
il territorio. Il modello attuale di libero mercato ha invertito il
vecchio modello c'è in atto un'occupazione dello spazio polarizzato, in
cui ci sono luoghi di grande densità, di grande accumulo di presenze
umane e di strutture fisiche che li contengono, lo spazio oltre la città
è un territorio vago, sconosciuto, infrastrutturalizzato. Uno dei siti
che abbiamo esaminato con gli studenti di Strelka è NADYM, un sito all'intersezione di due gasdotti ad ovest della Siberia in mezzo ad una
tundra completamente desolata. Il caso vuole che proprio nel punto di
quest’intersezione passa l’80% di tutto il gas utilizzato dall'Europa. È
un sito di 'infrastruttura critica'12, di importanza fondamentale
per l'economia e la sicurezza europea, per quanto sia assolutamente
desolato, sconosciuto. Ogni volta che tu accendi il gas e prepari il
caffè, l’energia che serve per fare il caffè è passata attraverso questo
piccolo spazio sconosciuto nell'ovest della Siberia. Questa assoluta
ignoranza che abbiamo delle geografie che supportano la nostra vita
quotidiana è sintomatica del divario cognitivo che si è creato con i
territori extraurbani. Con gli studenti di Mosca dello Strelka e il
fotografo Armin Linke,* siamo andati in elicottero a visitare questo sito, sorvolando la croce d'intersezione dei due gasdotti.
Armin Linke, The Cross, NADYM (Siberia occidentale), 2011
È un po' come se vivessimo sotto la cupola del Truman Show: nel suo
interno continua la vita urbana, ignara delle sovrastrutture che lo
proteggono; uscendo fuori da questo guscio diviene evidente l'impalcato
che sorregge la città. È un tema che mi affascina molto: gli spazi
sconosciuti, gli spazi completamente ignorati, interstiziali,
depopolati. Enormi geografie che contengono le sovrastrutture e
impalcature che sorreggono la nostra vita quotidiana, di cui siamo
completamente ignoranti. Spazi critici per l'esistenza moderna, con i
quali siamo in contatto ogni giorno, inconsciamente, senza saperlo e che
a loro volta sono molto vicini a noi, ma non li percepiamo neanche.
1
Redazionale, Clip Stamp Fold. L'architettura delle piccole testate 196x-197x, Domus n.897, Novembre 2006, p.76. 2
Ha iniziato ad occuparsi di Domus (web e cartacea) a 33 anni durante il
periodo di trasinzione diretto da Alessandro Mendini. Con il numero 946
dell'aprile del 2011 inizia ufficialmente la sua direzione. 3
Le edizioni locali*
di Domus sono: cinese (60 numeri), russa (editi 32 numeri), araba (26
numeri), israeliana (16 numeri), centro america e caraibica (3 numeri) e
infine la nuova versione indiana (1 numero).
4 Ivan
Berni, Signora, gradisce un brand? - Intervista a Giovanna Mazzocchi
Bordone, presidente dell’Editoriale Domus, Prima n. 411, novembre 2010 *
5 In realtà il concetto della 'generazione erasmus' è da anni un tema dibattutto. Sulla nascita del neologismo ho chiesto a Davide Faraldi autore del libro Generazione Erasmus, Alberti, 2008*. Ecco la sua risposta:
«Buongiorno, in
tutta onestà devo ammettere la mia ignoranza sul coniatore del termine
"Generazione Erasmus". Quando nel 2007 firmai il contratto con la
Aliberti non ne avevo mai sentito parlare e alle richieste della casa
editrice per inserire nel titolo (che originariamente era "E adesso cosa
fai?") il termine erasmus proposi il termine Generazione Erasmus,
pensando fosse originale. Poche settimane dopo l'uscita del libro,
scoprii l'esistenza di un raccolta di racconti scritta da Lorenzo Moroni
nel 2003 per una piccola casa editrice, intitolata proprio "Generazione
Erasmus". Quindi mi sembra doveroso cedere quantomeno a lui il primato
di averlo utilizzato. In ogni caso, credo che la Generazione Erasmus
nasca col trattato di Shenghen. Mi spiace non averla potuta aiutare
maggiormente. Grazie per avermi contattato a presto Davide Faraldi.»
Gli accordi di Schengen entrano in vigore in Italia il 26 ottobre del 1997* data che possiamo riferire come l'inzio formativo ed educativo della 'Generazione Erasmus'.
7 Redazionale, Intervista a Salottobuono, Domusweb, 16 maggio 2011 *
8 Salvatore D'Agostino, 0030 [MONDOBLOG] Sui blog e i siti delle riviste di architettura, Wilfing
Architettura, 10 giugno 2010.* 9 Arcomai, INTERFACCIA/interface | MOSTRA / ARCHITETTURA CONTEMPORANEA
ALTOATESINA di Joseph Grima e Nicola Desiderio, 09 febbraio 2006. * 10 Editoriale Domus n. 948, giugno 2011, p. II 11
Robert Venturi, Denise Scott Brown, Steven Izenour, Imparare da Las
Vegas - Il simbolismo dimenticato della forma architettonica, a cura di
Manuel Orazi, Traduzione di Maurizio Sabini, Quodlibet Abitare, 2010
12 Su questo tema leggi Geoff Manaugh, Wilileaks guide, Domus n. 948, giugno 2011, pp. 62-67
L'intervista fatta l'otto luglio del 2011 è stata rivista e aggiornata l'otto gennaio del 2012.
Foto iniziale Giò Ponti e Gianni Mazocchi nel 1978 tratta da Domus, n. 897, Novembre 2006, p.57.
La
foto animata è composta da frammenti di screenshot scattati durante
l'intervista fatta su Skype da Salvatore D'Agostino. La foto finale è di Armin Linke*.
la contraddizione dell'ossimoro blogger giornalista1non risiede nei contenuti, ma nella libertà di pubblicazione. I contenuti di un giornalista sono filtrati dalla testata anche quando quest'ultima lascia la libertà di scrivere ciò che si vuole (ndr leggi il terzo ...a proposito di questo post); un blogger è libero di scrivere e cancellare i suoi articoli, così come modellare l'aspetto grafico del blog a suo piacimento.
Ripensavo a questa peculiarità, riflettendo sul neo blog di Luca Molinari*, 'Il post'*, edito in un contenitore redazionale, apparentemente scritto da molti blogger ma come si legge in calce al sito: «Il Post è una testata registrata (ndr si presuppone giornalistica) presso il Tribunale di Milano, 419 del 28 settembre 2009». Ma chi è stato il primo giornalista blogger architetto?
La risposta è: Diego Lama con il suo Byte di cemento*all'interno del Corriere del Mezzogiorno* inaugurato il 15 ottobre 2008*.2
A partire da questa prima tappa, il Web redazionale si è infittito di nuove voci. Sono andato in giro per il Web alla ricerca dei nuovi giornalisti blogger, di seguito una rassegna.
Riflette sul senso 'urbano' forse è fuori tema con questa rassegna, ma mi piaceva segnalarlo; simili, ma più distanti dai temi architettonici: Trenette e mattonidi Marco Preve su 'La Repubblica di Genova' (primo post 2 ottobre 2008*) e Questa è la mia città di Massimo Ternavasio su 'La Stampa' (primo post 26 marzo 2007*). Settimanali noti:
Dopo vent'anni di Web il primo storico, critico e professore di architettura che in Italia usa uno spazio 'blog'. Post ambigui quasi dei riempitivi. Coraggio, anche sul Web si può fare 'critica'.
Peccato avrebbe anticipato Marco Biraghi resta l'intenzione; da inserire nell'archeologia del Web architettonico.
P.S.: Per favore segnalate le eventuali dimenticanze.
MAXXIinWEB,
il museo MAXXI dal 17 settembre al 15 dicembre 2011 ha organizzato degli incontri con i 'big della creatività'*visibili non solo dal pubblico in sala, ma da tutti attraverso la diretta streaming e, per la prima volta si apre ai commenti attraverso il Web, si è partito da Massimiliano Fuksas e si arriverà a Moreno Cedroni.
Curiosa la declinazione del termine blogger; a sinistra degli oratori ci sono tre giovani X, Y e Z che si occupano di rilanciare le domande che arrivano dagli utenti connessi via Web. X, Y e Z, pur non curando nessun blog, sono chiamati blogger.
P.S.: Mi piacerebbe sapere dai presentatori di MAXXIinWeb dove si trova il mondo-popolo del Web da loro spesso citato?
la censura su abitare...
antefatto circa un anno fa, per l'esattezza il 22 novembre 2010 alle ore 14:05, Fabrizio Gallanti5 pubblicava un post (o forse un articolo) dal titolo 'Largo ai giovani!'6
Iniziava così:
«NABA*cambia direttori di dipartimento. Escono due già non più ragazzini, ossia intorno ai 40, Stefano Mirti (design) e Anna Barbara (moda), e al loro posto prenderanno delle persone un po’ meno stagionate. Ci siete cascati! Non era vero, infatti hanno incaricato Nicoletta Morozzi e Italo Rota. I nuovi proprietari americani di NABA volendo essere più realisti del re, e più papisti del papa capito l’andazzo italico si sono adeguati».
E finiva:
«Rota in particolare e l’Italia in generale mi fanno venire in mente una pubblicità audio che si sentiva allo stadio a Genova per un sacco di anni: “Mio nonno vestiva da Mauri, mio padre vestiva da Mauri e io che sono giovane vesto da Mauri. Mauri Sport, abbigliamento sportivo ed elegante…”. Oppure anche la canzone “Supergiovane” di Elio e le Storie Tese*».
Dopo qualche giorno questo caustico post è stato cancellato per irritazioni architettoniche redazionale e non.
Questo è il secondo post (che ho potuto monitorare) cancellato per dissenso redazionale da Abitare.7 Riprendendo il tema del primo '...a proposito', un blogger si autocensura (è libero), un giornalista blogger può essere censurato (è filtrato). L'ossimoro consiste in questa sottile, ma non banale, differenza.
P.S.: Abitare qualche giorno ha cambiato leggermente aspetto, resto in attesa dei cambiamenti previsti per gennaio.
1 Dell'ossimoro giornalista blogger ne avevo parlato in 0006 [BLOG READER] Bla, bla, bla...BLAG* il 5 gennaio 2010.
2 Per approfondire leggi il post introduttivo*e l'intervista all'autore del blog*. 3 Rispetto ai settimanali e ai siti d'informazione ho preso in rassegna tutti i quotidiani (almeno spero) nazionali o di macro aree.
4 In realtà Stefano Boeri è stato il primo ad investire, attraverso le sue direzioni di Domus e Abitare, sul Web nonché sul blog politico*. Una storia ancora da scrivere. 5 In quel periodo era il vicedirettore della rivista. Una mia conversazione con l'autore*. 6 Link originale non più visibile: http://www.abitare.it/highlights/largo-ai-giovani/ 7 Del primo ne avevo parlato nel post: 0007 [BLOG READER] Ci sono tante forze vive in Italia che non chiedono altro che di poter lavorare in condizioni “normali” (Pierre Alain Croset)*.